Vi confesso che sto cominciando seriamente a preoccuparmi. Perché, per carità, costante e affidabile sarebbero forse gli aggettivi meno adatti alla frequenza con cui da un anno e mezzo, ormai, compaio su questo blog, fra la consueta insensatezza e la ridicolaggine che contraddistinguono la maggior parte dei miei stessi post. Però poi, in genere, era sufficiente una notizia, anche assurda, letta distrattamente sul web o sul giornale sbandierato dal vicino occasionale in bus, oppure un incontro casuale o un appuntamento concordato da tempo, di quelli a cui vai malvolentieri perché ne annusi la barbosità in anticipo, e che poi invece si rivelano, a sorpresa, piacevoli e scoppiettanti, ed ecco che la mia testolina già si attivava per selezionare e rielaborare tutte le informazioni, le frasi, i dettagli, che sarebbero serviti da cornice o addirittura da contenuto per il mio prossimo, irresistibile (non sempre), forse illogico (più spesso), racconto. Così, tra alti e bassi, per mesi, ricevendo inaspettati quanto graditi apprezzamenti, talvolta qualche critica, rimanendo spiazzato e orgogliosamente stupito dal numero di visitatori e di letture sempre in ascesa (soltanto lo scorso Marzo il nuovo record) sperando soprattutto di trasformare spunti e idee in qualcosa di leggibile, attraente, originale, tentando di curare, per quanto possibile, forma e sostanza di ogni intervento e finendo invece per fare letteralmente a pugni con l’italiano, lingua difficilissima da padroneggiare. D’un tratto, gli scorsi giorni, il black out. L’apatia, la svogliatezza, perfino la tentazione di mollare queste pagine, senza rimpianti, al vuoto candore del proprio destino, con il cervello che si fa impermeabile ai, pur esistenti, input esterni da cui poter trarre comunque ispirazione e neppure la minima, ragionevole o disperata, reazione. Blocco creativo? Bah. Ciclica crisi stagionale? Forse. Torpore misto a spossatezza, effetti di un ingiustificato e deleterio relax giunto di colpo dopo un inverno di affanni, impegni, speranze e tentennamenti, ecco la formula che più si avvicina all’intera questione. Insomma, con la testa chiaramente finita in panne, o in una modalità simile a una forzosa e anticipata vacanza, non rimaneva che fare una sola cosa: seguirla, ovunque fosse andata.
Poco lontano, per fortuna, nonostante l’esplicita voglia (per niente assecondata dalle finanze) di un viaggio nomade e rigenerante, meglio se dall’altro lato del pianeta, per il momento (ma solo per il momento) rimandato e sostituito da una più fattibile e altrettanta necessaria parentesi di puro relax in riva a quel mare dove sono nato e cresciuto. Così, rinviato il rinviabile, fuggito da responsabilità e scadenze, avvertite le (poche) persone che vedo e sento abitualmente, forse allarmate tutte le altre, lanciati a caso qualche straccio e tre libri in valigia, a poco più di due ore dalla mia repentina e salvifica decisione ero già in spiaggia. Dove tuttora vado trascorrendo gran parte dei miei pomeriggi: ridotte al minimo le interferenze tecnologiche, quasi inesistenti internet e cellulare, impiego invece molto più volentieri il mio tempo in lunghe e distensive passeggiate, leggendo, guardando stordito l’orizzonte o rabbrividendo al contatto con l’acqua gelata, regalando soprattutto alla mia mente quei preziosi e rarissimi attimi di totale e benefico nulla. Ed è stupendo: sottoposti gran parte dell’anno a ritmi sfiancanti e serrati, abituati a infarcire le nostre giornate di ogni sorta di impegni (lavoro, studio, hobby vari ed eventuali) per essere ed apparire operativi, produttivi, energici ventiquattro ore al giorno, giudichiamo peccato mortale o un assoluto e nocivo spreco di risorse abbandonarsi invece al normalissimo e comprensibile desiderio di una pausa, da tutto e da tutti. Senza mai pensare, al contrario, che il tempo che si sceglie consapevolmente di perdere non è mai davvero perso, ma assume piuttosto le sembianze di un insolito e apprezzato dono per la nostra anima. Dunque, fuori forma, fuori stagione, mi sono concesso un breve anticipo di estate, graziato dal clima che mi ha già arrostito le braccia e lasciato la prima impronta degli occhiali sul viso. Con la complicità degli amici: quelli di una vita, quelli che rivedi dopo mesi e ti sembra di aver salutato cinque minuti prima, quelli che potrebbero un domani ricattarti con le tue nefandezze, che conoscono bene, o con le tue terribili foto da adolescente. Quelli con cui puoi permetterti di ridere fino alle lacrime se ti raccontano le loro recenti disavventure sentimentali o professionali, senza mai il rischio di apparire insensibile ai loro occhi. Quelli sinceri fino al midollo, che hanno già rimpiazzato il loro “ma che ti è successo? Hai una faccia!” di questi primi giorni con un “certo che l’aria di mare ti fa proprio bene”. Ed hanno, al solito, perfettamente ragione.