L’uomo che incalza?

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In una scena memorabile del film What women want del 2000 Mel Gibson, fino ad allora indiscusso simbolo cinematografico di una mascolinità solida e un po’ rude, la stessa che nel tempo farà la fortuna di altri attori parchi di sorrisi quanto abbondantissimi di muscoli come Russell Crowe e, in anni più recenti, Ryan Gosling, si cimenta in una prova obbiettivamente sconsigliabile a qualunque uomo dotato di un minimo di ragionevolezza: provare ad indossare tutte le più comuni, necessarie e alquanto scomode armi di seduzione femminili, partendo naturalmente dal make – up (rossetto, mascara, smalto per unghie) per concludere con un paio di attillatissimi, imbarazzanti e assai fastidosi collant neri. Una vera e propria tortura, agli occhi di noi maschietti, oltre che un’immagine raccapricciante per tutte le donne che invece ne adoravano l’attitudine da macho, che però sembra, ogni giorno di più, poter diventare una drammatica e forse vicina realtà: questo almeno a giudicare dal lancio, nei giorni scorsi, da parte del famoso brand francese di calze Gerbe di una serie di modelli di collant, dalla classica trasparenza misurabile in denari (20, 50 o i più coprenti 70) appositamente pensati per le esigenze (verrebbe da chiedersi quali) di lui, per di più provvisti di una serie di accorgimenti “strategici” (come l’indispensabile apertura anteriore in caso di bisogni impellenti) mirati a soddisfare i desideri (?) degli uomini. Il dato sconcertante, oltre alla realizzazione di un’esplicita campagna pubblicitaria (foto allegata) che non lascia dubbi sulla natura un po’ ambigua del prodotto, è che il noto marchio d’Oltralpe si va ad inserire così in un mercato e in un terreno già da qualche tempo battuto anche da altri brand (Wolford, G. Lieberman & Sons, Emilio Cavallini) con vendite e successo, a quanto pare, costantemente in ascesa. Possibile? Risatine e sgomento iniziale a parte, il fatto, a questo punto, indicativo, forse, di un certo cambiamento (speriamo lieve) in atto nei nostri costumi, merita comunque una riflessione, anche storica, decisamente più approfondita. Di indumenti nati con la funzione di sottolineare la prestanza fisica e la tonicità delle gambe maschili ne è piena la moda del passato: nel Medioevo, secoli prima dell’adozione di calzoni e pantaloni, gli uomini indossavano abitualmente calze suolate (un capo a metà fra la calzamaglia e le scarpe) anche di colori contrastanti, con lo scopo di enfatizzare la propria muscolatura, perseguendo l’unico ideale virile esistente, quello cavalleresco, incarnato allora dal soldato in grado di difendere la propria terra. Con la medesima funzione vedono la luce nel ’500 anche i cuissardes, i cosciali, gli stivali altissimi di pelle, di esclusiva pertinenza maschile, calzature che sotto Re Sole saranno comunemente adottate con tacchi rossi (i talons rouges) per sottolineare il rango nobiliare dei cortigiani, centinaia di anni prima che Christian Louboutin scegliesse proprio lo stesso colore per le suole delle sue creazioni da donna, eleggendolo ad emblema della seduttività femminile. Operazioni quindi che spaziano fra generi, ne mescolano le caratteristiche, attingono da un universo per approdare all’altro, sono da sempre all’ordine del giorno nella moda ed hanno decretato ancora nel Novecento il successo e la genialità di stilisti quali Coco Chanel, Yves Saint Laurent, Giorgio Armani. Adesso, utilizzando un termine caro ai miei studenti di moda, che ho ricominciato a tormentare con lezioni schizofreniche di arte e costume, si va verso una progressiva tendenza al genderless, l’assenza totale di genere: naturale evoluzione del concetto di unisex, l’intercambiabilità cioè di un indumento fra il guardaroba di uomini e donne, il genderless prevede al contrario un azzeramento dei generi, un livellamento delle differenze anatomiche, una possibilità di spaziare tra maschile e femminile neutralizzando ogni caratteristica sessuale. Provate voi stessi lettori uomini, come ho fatto io, ad andare a comprare un paio di jeans: nonostante le mie gambe magrissime fatico a trovare una sola taglia comoda, perché gli attuali slim o skinny pants ci vorrebbero tutti di una mascolinità acerba, efebica, quasi adolescenziale, degli emuli di Justin Bieber più che di George Clooney. Il fatto è che in realtà questo tipo di trasformazioni sono frutto di delicate, sottili, spesso raffinate e ragionate interpretazioni, che tengono conto di precise dinamiche culturali, che traducono in bisogni ed aspettative la sensibilità e l’estetica dei nostri tempi. Porre, ad esempio, una semplice gonnellina su delle natiche maschili o come in questo caso, velarle di nylon, spiace dirlo, non è però niente di tutto questo: è piuttosto un prestito immediato, grossolano, senza un reale ed effettivo appiglio alla natura più profonda degli evidenti cambiamenti in corso. In una sola parola, un’azione sbrigativa, pressoché inutile: o peggio ancora, assolutamente ridicola.

Guasti al Pitti

“E’ quasi meglio che stare a Rio”, esclama, con un pizzico di stupore, la mia amica Enrica, che mi trovo ad accompagnare, stordito dall’arrivo di un caldo sahariano, alla sua prima volta, quasi un tour iniziatico, tra gli stand dell’84esima edizione di Pitti Immagine Uomo a Firenze. Come poterle dare torto: inghiottiti dall’eccentrico e coloratissimo popolo della moda, che, puntuale, ogni stagione, accorre nel capoluogo toscano, scenario della più importante fiera mondiale dedicata all’abbigliamento maschile, restiamo a lungo incerti se buttarci a capofitto tra le novità proposte dalle centinaia di collezioni presenti o fermarci in un angolo ad osservare, in bilico tra estasi e perplessità, il look studiatissimo e appariscente di migliaia di addetti ai lavori. In realtà, a parte stranezze e concessioni al cattivo gusto, che di edizione in edizione sembrano superarsi, tutto si svolge secondo un copione più volte collaudato: la canonica fila di un’ora per ritirare, all’apposito bancone, l’accredito alla kermesse tra gli spiacevoli disguidi d’ordinanza (come? non risulto? ma lei sa per chi scrivo io?), i saluti, conditi di smancerie superflue, tra i soliti volti noti del settore (mia cara, come stai? ma da quanto non ci vediamo, tre minuti?), la temperatura a stento sopportabile, che ti costringe a prediligere i settori dove offrono acqua e granite (gratis, quindi sotto assedio), la camicia che col passare del tempo diventa tutt’uno con il tuo torace sudatissimo, le scarpe sempre troppo strette per i tuoi piedi a poco a poco più gonfi (la prossima volta, giuro, vengo in canottiera e ciabatte).

Tutto è eccessivo, ridondante, iperstimolante per i tuoi sensi, sollecitati come sotto l’effetto di una potente droga: difficile svincolarsi dal vortice di chiacchiere, convenevoli e presentazioni in cui rimani invischiato sin dall’ingresso, altrettanto impossibile distogliere lo sguardo dalle vivacità di tinte e dalle stampe abbaglianti dei capi esposti (unica certezza: la prossima primavera/estate dovremmo vestirci colorati come vaschette di gelati alla frutta), o riuscire ad arrivare puntuale all’evento in programma che ti interessava, senza essere risucchiato dalle centinaia di distrazioni e tentazioni che la fiera, come in un gigantesco luna park della moda, pare offrirti ad ogni angolo. Perché può capitarti di tutto: di ritrovarti per caso, ad esempio, ad assistere ad una strabiliante performance di Skin degli Skunk Anansie (dal vivo minuta e bellissima) che si esibisce come dee-jay improvvisando una discoteca sotto il sole cocente. Oppure incontrare per l’ennesima volta Scott Schuman, di cui c’eravamo occupati un paio di post fa (http://www.tempiguasti.it/?p=1128), appostato all’ombra ad intercettare soggetti interessanti per il suo blog, che ti soffia la palma di peggio vestito della manifestazione (superando la mia mise da boscaiolo canadese) dato che la sua banalissima t- shirt blu e i suoi bermuda kaki rivelano una muscolatura eccessiva per la sua altezza modesta. Infine scovare del bello dove meno te lo aspetti: esattamente nel Padiglione dedicato alla nazione ospite di quest’anno, la Turchia, che mettendo in mostra capi di un gusto e di una tradizione sartoriale lontani dai canoni di eleganza occidentale, indica una via diversa in cui poter far coesistere sperimentazione e raffinatezza. Assumendo quasi le forme del doveroso riscatto culturale di un paese alle prese, nel frattempo, con uno dei momenti più difficili della sua storia politica. Perché la moda, per fortuna, è anche questo.

Il bello dell’assurdo

MAN AW13 at London Collections: Men – YouTube.

Proviamo a spiegarlo con un paragone: se mi trovassi semplicemente a riassumere in poche righe la trama di un film pluripremiato e toccante, come Tutto su mia madre di Pedro Almodovar,  le mie parole sarebbero più o meno le seguenti. Dopo la morte accidentale del figlio, una madre va alla ricerca del padre del ragazzo, di cui gli aveva nascosto l’esistenza. Padre che è in realtà un trans, sieropositivo, che nel frattempo ha messo incinta una suora, contagiandola. Messa in questi termini avrei scoraggiato chiunque dal guardare quello che è in realtà (e non solo a mio parere) rimane uno dei capolavori della cinematografia contemporanea. Questo perchè la poesia con cui procede il racconto per immagini della pellicola giunge diretta a toccare delle corde emozionali che vanno ben al di là del rispetto della verosimiglianza della storia, la quale, come appena detto, condensata in poche parole, potrebbe apparire assurda e insensata. Nella moda accade spesso qualcosa di simile, in cui però il concetto di “verosimiglianza” è sostituito da quello di “portabilità”, concepito come capacità di un abito di essere indossato senza destare nei passanti il sospetto di essere appena fuggiti da un manicomio. E’ vero che quando si parla di abbigliamento il suo fine ultimo e più naturale dovrebbe essere proprio la vestibilità di un corpo. Non va dimenticato che la moda però è soprattutto un affascinante linguaggio non verbale, che si nutre di ricerca, di sperimentazione, di indagine alla scoperta di nuove forme, nuovi concetti o materiali, che sfidano spesso i limiti della “portabilità” per esplorare invece un terreno solo in apparenza altrettanto assurdo e insensato. Un ragionamento che mi è tornato in mente proprio oggi quando per caso mi sono imbattutto nella sfilata del giovane designer britannico Craig Green (video allegato da 0:45 a 1:35): diplomato soltanto lo scorso Febbraio alla prestigiosa Central Saint Martins di Londra, un paio di collaborazioni all’attivo con brand di tutto rispetto come Adidas e Bally, lo stilista ha mandato in passerella pochi giorni fa, per la settimana della moda maschile londinese, delle sorprendenti maschere di legno. Non proprio un romantico tributo all’Africa Nera, ma un accessorio a metà tra l’inquietante e l’ironico, simile nella forma a un’improvvisata scialuppa di salvataggio ottenuta con quattro assi  inchiodate. Importabile e bellissima. Perchè del tutto nuova, imprevista, cromaticamente rispettosa dell’opacità di fondo della collezione, di cui ne rispecchia altresì la ritmica di volumi destrutturati. Ancor più interessante perché, nel suo celare del tutto un volto, diviene negazione di un’identità: concetto che si ritrova anche nella altre collezioni di Craig (http://craig-green.com/) in cui il corpo è spesso imbrigliato come un ostaggio in creazioni dall’aspetto grottesco di giocattoli informi, impensabili nella quotidianità ma dall’indubbio merito di sondare nuove possibilità espressive. Perfettamente magnifiche nella loro assurdità.

A volte ritornano (2)

L’occasione è importante, quindi sarebbe doveroso parlarne. Anche se, girovagando in rete o leggendo sui giornali i titoli e i pezzi usciti in anteprima al riguardo, sembra di riavere tra le mani una di quelle poesie imparate a memoria a scuola: “Finalmente al via…da domani ritorna…questi i grandi numeri” e bla bla bla. E poi, se devo essere sincero fino in fondo, la moda uomo non è mai riuscita a entusiasmarmi più di tanto: difficile da innovare, molto più facile scivolare nel ridicolo. Però rimane una delle manifestazioni principali del settore al mondo, richiamo e attrattiva per tutto il popolo di stampa, buyer ed aziende che proprio dall’8 all’11 Gennaio si riverserà nei padiglioni della Fortezza da Basso di Firenze o nei vari punti della città che ospiteranno le numerose iniziative dell’83esima edizioni di Pitti Immagine Uomo. “Tanti gli eventi, le novità” (così sembra) “un calendario fitto di appuntamenti” (sto ancora prendendo in giro gli articoli letti ovunque oggi…peccato non aver conservato quelli dell’anno scorso, secondo me non cambia neanche la punteggiatura). Facciamo così: volete davvero sapere quello che succederà? Questo è il link del calendario tratto “pari pari”  dal sito ufficiale della manifestazione: http://www.pittimmagine.com/corporate/fairs/uomo.html. Inutile ripeterlo punto per punto, assumerebbe lo stesso fascino della mia rubrica telefonica. Inutile dirvi che non cambierà nulla neanche riguardo all’accoglienza che Firenze riserva due volte all’anno all’iniziativa: lamentele per il traffico immobile nelle strade interessate, le uniche due vie cittadine deputate allo shopping tirate a lucido, la solita processione di fashion  addicted (talvolta monster) che si snoderà dalla stazione Santa Maria Novella alla Fortezza stessa. Io comunque ci farò un salto. Forse. E se davvero dovesse sbucare qualche novità di enorme rilievo nei prossimi 4 giorni di Pitti, state pur certi che ne parleremo.