Ammettiamo, da creature benevole quali siamo, di essere disposti a sorvolare sui suoi, pur consistenti, certo non così memorabili, trascorsi televisivi, quando all’inizio degli anni ’90 il nome (ma soprattutto il corpo) di Simona Tagli, biondissima e procace ex soubrette purtroppo caduta da tempo nel dimenticatoio catodico, era noto ai più per merito di alcuni “stacchetti” sexy (sarebbe troppo definirli balletti) che introducevano forse il momento più alto della sua intera carriera, quando ricopriva cioè con successo il ruolo di valletta semimuta, incaricata di girare le caselle del Cruciverbone in una celebre (e vecchia ormai di 25 anni) edizione di Domenica In. Ed era quanto di più piccante si potesse vedere all’epoca sul piccolo schermo, se pensate che lo spirito bacchettone da sempre imperante nella tv di stato arrivò addirittura a vietare alla bella showgirl minigonne troppo corte, che, a causa dei suoi sgambettamenti provocanti e soprattutto dei pericolosi inchini necessari per completare le definizioni in basso, arrivavano facilmente a svelare al pubblico, forse fino a quel momento assopito sul divano, un po’ di più che un bel paio di gambe. Confessiamo pure senza vergogna che in anni più recenti abbiamo provato perfino un po’ di simpatia e di tenerezza per la stessa Simona, toccata, al pari di altre colleghe improvvisamente svanite da un qualsivoglia programma o intero canale, da quel crudele destino mediatico riservato a tante bellone che, superata però la critica soglia degli “anta”, vengono gettate via come carta straccia o relegate in discutibili comparsate in qualche salotto pomeridiano o, nella migliore delle ipotesi, esiliate a vita a vendere scomodissimi attrezzi ginnici o set da tavola componibili in ridicole televendite notturne. Non però lei, che al contrario, mostrando al tempo stesso delle doti insospettabili come spirito d’iniziativa, tenacia, autoironia, si era riciclata, con tutte le lodi del caso, in un attività rispettabilissima, quella di parrucchiera (anche se il passaggio professionale tardivo assumeva un po’ il sapore amaro di un ripiego) aprendo a Milano un proprio salone, tutt’oggi esistente, dal nome forse non così sobrio né azzeccatissimo, questo va detto, Vispa Teresa. Più sconcertante è semmai assistere, in questi giorni, a quella che sembra annunciarsi come la terza rinascita dell’inarrestabile Tagli che, a 52 anni suonati e forte di una buona forma ritrovata (“ho perso da poco 24 chili” sostiene…beata te, aggiungiamo noi), tenta stavolta la strada della politica, candidandosi nella sua città per la carica di consigliere comunale nella lista di Fratelli d’Italia, a sostegno dell’esponente di centro – destra Stefano Parisi. Peccato per quel programma così rigoroso di cui la combattiva Simona non fa mistero illustrandolo, un po’ confusamente a dire il vero, su numerose interviste rilasciate a giornali e radio, condite di affermazioni intransigenti su argomenti che meriterrebbero più fatti e meno slogan, come immigrazione (“Sì agli stranieri, se pregano il nostro Dio”…nostro di chi?), diritti alle coppie omosessuali (“L’importante è che le persone etero non diventino anormali”, e qui è superfluo ogni commento), infine curiosamente scagliate anche contro biciclette e piste ciclabili (“Sono motivo di insicurezza e bloccano il traffico”…le bici, mica i Suv!). Peccato soprattutto per quel manifesto (foto allegata), che più che il rilancio cartaceo di un nuovo volto politico sembra assumere piuttosto le sembianze di un siparietto patetico sul suo passato televisivo, rimarcato proprio da quell’orrenda grafica a cruciverbone in cui s’intrecciano i capisaldi della sua, già criticata, agenda (comprensiva di parole ingiustificabili come “amore” e “corro”…ma perché?). E che, impresa davvero ardua, è riuscito a scalzare perfino i manifesti fotoscioppati con una pseudoavvenente Giorgia Meloni (guarda caso candidata a sindaco di Roma con lo stesso partito) dal podio della più insulsa campagna elettorale di questi tempi.
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Mostruosi ricordi!
The Addams Family TV Show Opening 1964 – YouTube.
Nella convulsa quotidianità di un adulto, definzione che in base a quella cifra incontestabile presente alla voce “data di nascita” sulla carta d’identità dovrebbe inculdere anche me, trovarsi a ripescare occasionalmente nella testa i ricordi un po’ offuscati della propria infanzia rappresenta in molti casi un piacevole e non sempre pianificabile passatempo, una distrazione placida e imprevista in cui immergersi quando la memoria ti coglie di sorpresa divertendosi a spalancare a casaccio alcune finestre sul tuo vissuto. Naturalmente è così anche per me: quel misto di tenerezza e imbarazzo che mi provoca rievocare la mia immagine di bambino perennemente sbrindellato, sudacchiato, un po’ selvatico, che rientrava a casa solo quando era impossibile continuare a ignorare i richiami via via più minacciosi di mia madre alla finestra, con i calzoni della tuta sempre macchiati d’erba e un’immancabile crosta di sangue al ginocchio sinistro, di cui conservo una simpatica cicatrice ancora oggi, si accompagna all’enigma mai risolto di come abbia fatto a trasformarmi negli anni in un esemplare di persona oggi comunemente ritenuta mite e piuttosto affidabile. Non che fossi un tipino poi così irrequieto e scavezzacollo: ma dietro quell’apparenza calma e assenata, frutto di un’indole quasi timida e di un rendimento scolastico medio – alto, dovuto al dono provvidenziale di una memoria da elefante che mi ha sempre garantito buoni risultati con il minimo sforzo, rimaneva da gestire un’energia anche fisica che talvolta finiva per essere incanalata in pericolosi svaghi, dal salire appena possibile sugli alberi nei giardini all’eseguire ovunque capriole e giravolte rischiose, con un’agilità poi purtroppo svanita chissà dove. Questo per chiarire maggiormente quale trauma possa aver rappresentato per me affrontare a circa 8 anni, di fronte a una platea di altri classi semiannoiate, il mio primo e unico ruolo ottenuto in una recita scolastica, la sola che le mie insegnanti ci permisero di mettere in scena, giustificando la propria evidente incapacità di tenerci a bada in simili occasioni con un banale “sono troppo vivaci”. Per di più, invece di legare l’evento, come da consuetudine, alla sentita tradizione religiosa, che prevedeva l’allestimento di uno spettacolino amatoriale verso Natale o Pasqua, con bambini in vesti rabberciate a mo’ di angioletti, pulcini, fiocchi di neve o fiorellini, le mie maestre, dimostrando senza dubbio originalità e un senso dell’umorismo un tantinello lugubre, decisero, forse ambiziosamente, di farci addirittura cimentare nella Famiglia Addams, il celebre telefilm che proprio questi giorni va compiendo 50 anni dalla sua prima messa in onda negli States (nel video, la sigla originale). E dato che Stefania, la mia compagna di classe colpevole di avermi dimostrato con troppo entusiasmo la sua cotta colpendomi con una sedia dritto sulla testa, era stata ritenuta perfetta per la parte di Morticia, ma un mio eventuale affiancamento nei panni di Gomez avrebbe messo a rischio ancora una volta la mia incolumità e i nervi già provati delle insegnanti, la soluzione migliore fu quella di tenermi a debita distanza da lei assegnandomi il ruolo assai gratificante di, udite udite, Mano. Il che significò che per tutto il tempo delle prove così come per la durata stessa della recita, percepita come infinita, sarei dovuto rimanermene accovacciato e quatto quatto sotto alcuni banchi accostati, coperti da una polverosissima tovaglia bordeaux con le nappe, sistemata per nascondere l’apertura strategica da cui avrei far dovuto fuoriuscire la mia mano che faceva così la sua magica comparsa sbucando da una scatola di scarpe ridipinta. Un gran debutto artistico, non c’è che dire. L’unica consolazione era sapere (perché di riuscire a vedere qualcun altro, là sotto, non se ne parlava) che “sul palco” ci fossero altri compagni ancor più pubblicamente ridicolizzati: Merygiusy (mi pare si scrivesse così) ad esempio, a causa dei suoi lunghi capelli lisci color miele, fu scelta per impersonare il cugino It e costretta dunque a recitare in ginocchio, di spalle al pubblico, con un paio di occhiali da sole indossati al contrario sulla nuca. Emanuela, data la sua corporatura gracile e il faccino pallido perennemente imbronciato, divenne, con pochi piccoli accorgimenti, una copia quasi fedele di Mercoledì, e dunque poi condannata a fare i conti con quel cupo soprannome per alcuni anni a venire. Perché va precisato: uno dei motivi per cui tutti ricordiamo volentieri il telefilm, oltre al quell’efficace humour nero e alla stravaganza di vicende, dalle quali nei primi anni ’90 è stata tratta una riuscita versione cinematografica e adesso anche un musical, è per averci soprattutto fornito un noto e riconoscibile campionario di tipi fisici e relativi nomignoli con cui etichettare o sbeffeggiare chicchessia. Quello che ho pensato proprio qualche giorno fa quando ho dovuto rinnovare il mio tesserino di accompagnatore turistico: una rapida occhiata alla nuova foto, ed ecco che la mia infanzia traumatica di Mano ha lasciato adesso il posto ad una più spettrale maturità da zio Fester.
Campi minati
▶ Mina – La palla è rotonda [Mondiali di calcio Brasile 2014] – YouTube.
In determinate circostanze penso immediatamente che dovrei davvero ampliare la lista dei miei (scarsi) interessi, esplorare almeno una di quelle strade mai percorse che un nuovo hobby, in precedenza neanche preso in considerazione per un minuto, fosse anche il cake design o la danza sufi, potrebbe d’un tratto apririmi. Oppure provare a buttarmi coraggiosamente a capofitto nello studio di una materia fino adesso esclusa dalle mie limitate attenzioni, anche ripescandola tra quelle abbandonate troppo presto negli anni scolastici, come la chimica o la geografia astronomica, magari riscoprendo in loro un nuovo fascino che la mia accondiscendenza di uomo semi-maturo, a dispetto di certe rigide e giovanili repulsioni, sarebbe in grado adesso di riconoscere. E ci penso soprattutto in quelle rarissime occasioni in cui mi ammutolisco di colpo, la bocca silenziosa ma aperta per lo stupore, gli occhi che si fanno più sottili e attenti, perché letteralmente sedotto dalla potenza, dall’espressività e dal colore di altri linguaggi che, solo chi è avvezzo a praticare terreni da me poco battuti, riesce a padroneggiare o anche solo a comprendere. Talvolta ad esempio mi succede al ristorante, come quando l’altra sera, mentre la mia amica Simona mi chiedeva delucidazioni sulla crema al rosmarino (“Sai cos’è? L’hai mai mangiata?” “No, e dubito di farlo proprio oggi!”) ecco piombare tra di noi il sommelier, un ragazzo che dal viso non avrei giudicato troppo sveglio, a elencarci prontamente le qualità dei vini a disposizione da abbinare al nostro eventuale menu (“ma ‘sta crema poi la prendiamo?” “ma due fettuccine invece come le vedi?”). Ed ecco soprattutto dalle sue labbra schiudersi d’improvviso e prender vita davanti a noi mondi diversi e paesaggi pittoreschi, sentori e sapori anche lontani, evocati dalle sue parole con un’enfasi inaspettata, con un lessico barocco e iperbolico, che continuavo a trovare smisurato per poter essere tutto racchiuso in quella che ai miei occhi appariva ancora come una semplice bottiglia di vetro con del liquido alcolico all’interno. Ho capitolato infine di fronte al suo deciso sottolineare “al palato è tondo”, perché scosso dall’efficacia della presenza dell’aggettivo “tondo”, che posto a fianco del termine “vino”, potessi trascorrere anche interamente altre sei vite a scrivere, non mi salterebbe purtroppo mai in mente di utilizzare.
Stessa cosa mi accade quando, soprattutto negli assonnati e detestati lunedì mattina, mi accorgo di captare un po’ ovunque, a partire dal vocìo degli studenti scalmanati che affollano il bus ai capannelli di persone incaravattate fuori dagli uffici, delle colorite e originalissime (oddio, non sempre) discussioni di calcio. Tralasciando il limite della mia più cupa e scoraggiante ignoranza in materia, ciò che trovo avvincente è, oltre al calore e al trasporto che spesso permeano certi confronti post partita, l’uso di un vocabolario quasi epico, di espressioni ridondanti, di perifrasi ardite poggiate su termini che se utilizzati in altre situazioni quotidiane stonerebbero di certo perché troppo aulici. Che poi è decisamente lo stesso effetto che mi fa seguire i vari servizi sul pallone propinati da qualunque tg (me lo permettete un piccolo appello al direttore Mentana?: Enrì, uno a edizione sarebbe sufficiente, grazie!) in cui, a commento di quelle immagini che a me sembrano sempre identiche (un campo verde delimitato da due porte dove una ventina di giocatori corrono su e giù come forsennati) si intrecciano le più fantasiose e mirabolanti descrizioni, si indugia nella narrazione di azioni spettacolari e ipoteticamente mozzafiato, si ricamano parole immaginifiche che fatico ad abbinare alla visione di un qualche banale spezzone di partita. E che adesso ritrovo tutte fortunatamente concentrate, come in un approfonditissimo e senza dubbio ironico formulario, nel testo della nuova canzone della stravenerata (da me, in primis) Mina, La palla è rotonda (qui, almeno, sulla pertinenza dell’aggettivo non si discute), un samba coinvolgente, omaggio alla tradizione musicale del paese ospite degli imminenti Mondiali di calcio, il Brasile, per di più scelta da mamma Rai come sigla ufficiale delle trasmissioni del tanto atteso evento sportivo. Un brano più ritmato e trascinante della, pur onnipresente, colonna sonora dei Negramaro, Un amore così grande, di cui c’eravamo già occupati (http://www.tempiguasti.it/?p=2862), lanciata per la medesima occasione, il quale pare inoltre ribadire il ruolo, mai peraltro messo in discussione, della Tigre di Cremona come la nostra più eccezionale interprete di tutti i tempi, in grado, a 74 anni suonati, di essere ancora riconosciuta la sola degna di incarnare televisivamente le differenze dello sconfinato pubblico italiano che si radunerà di fronte alle partite. E che ho intenzione di imparare subito a memoria, se non altro per quell’uso sensazionale dell’aggettivo “ubriacante”, l’unico che forse avrei utilizzato, non proprio a casaccio, con il mio troppo saccente sommelier.
State buoni se potete
▶ The Voice IT | Serie 2 | Blind 2 | Suor Cristina Scuccia – #TEAMJ-AX – YouTube.
Ecco, adesso mi trovo in difficoltà perfino nello scegliere le prime parole. Perché, per una qualche bizzarra manovra della mia testa, in tutti i verbi che al momento mi affollano la mente e che sarebbero forse perfetti per cominciare questo post (scartati nell’ordine “confesso”, “credo”, “prego”) mi pare di cogliere un qualche “doppio senso” religioso del tutto involontario, che finirebbe per caricare queste poche righe di un significato più blsafemo o irriverente di quanto in realtà ci sia nelle mie intenzioni. Così come vorrei evitare di trasformare la seguente, profondissima (no, eh?) riflessione, scaturita dalla risonanza planetaria che l’esibizione e il relativo successo riscosso da Suor Cristina al talent canoro di Raidue The Voice of Italy (video allegato), nell’ennesimo, balordo o insensato racconto sulla mia vita. Il fatto però è che i termini “suora” e “canto” nella stessa frase, mi risvegliano tutta una serie di ricordi, quasi traumatici, legati alla mia infanzia di bambino scontroso e taciturno spedito a tre anni, con il grembiulino nuovo fiammante e un voluminoso panierino per il pranzo, al vicino asilo gestito appunto da tre (apparentemente bonarie) ecclesiastiche. In cui sono rimasto, prima di attuare la prima, avventurosa e indimenticabile, fuga della mia esistenza, solo pochi giorni: spaventato da quelle che vedevo come donnone enormi ricoperte da un’inspiegabile sorta di mantello nero, che mi costringevano a imparare canzoncine insulse da ripetere in (forzata) allegria, a giocare rigorosamente solo con i maschietti (“ma io voglio andare sul trenino con mia sorella” “ma lei è una femmina, e deve stare con le sue amichette, capisci?” “no. a casa stiamo sempre insieme”), a prendere l’abitudine di un sano riposino pomeridiano (“ma io non ho sonno” “ma ora devi dormire” “e perché?”) non ho retto. Intollerante (già da allora) a quelle che ritenevo imposizioni ingiustificate, ne approfittai del cancello lasciato aperto da mia nonna che mi aveva accompagnato quella mattina, per scappare in tutta fretta e inseguirla di soppiatto, a pochi passi di distanza, facendo così ritorno a casa, tra la preoccupazione generale, soprattutto quella di mia madre, che da quel momento mi avrebbe più o meno sorvegliato a vista per i seguenti tre decenni. Sicché, l’eventuale cattiveria di fondo o la sottile perfidia che con tutta probabilità troverete nelle prossime parole potete tranquillamente ascriverla (ma solo in parte) a una recondita ed esplicita insofferenza verso la figura della suora in genere, che affonda le sue radici nel mio pseudo-ribelle vissuto. Il fatto è che quest’enorme e melensa ondata di buonismo, che ha impregnato ogni santo (santo lo posso scrivere?) articolo o i milioni di servizi del tg visti in tutto il mondo, relativi alla ormai celeberrima apparizione televisiva di Suor Cristina, mi ha, sinceramente, un po’ stufato. Pur riconoscendo infatti la sua indiscutibile bravura, il suo possedere evidenti ed eccezionali doti canore, il suo riuscire a mantenere un’intonazione perfetta grazie a un timbro vocale cristallino, mi domando se, senza quell’abito che ha destato in primis lo stupore dei giudici della gara (Noemi, J-Ax, Carrà e Pelù) e poi del pubblico in generale, il suo talento sarebbe stato altrettanto lodato (lodato invece lo posso scrivere?). Perché, alla fine, come già hanno scoperto e insinuato altrove, la giovanissima ecclesiastica, prima di diventar tale, era una ragazza, come tante altre, piuttosto avvezza a calcare diversi palcoscenici, così come a presentarsi ai provini per vari programmi tv, senza che però nessuna trasmissione in precedenza si fosse mai accorta del suo talento tanto da investirci. Tralasciando inoltre che la stessa conversione di Suor Cristina sia avvenuta solo successivamente alla sua frequentazione della Star Rose Academy, la scuola fondata dalle Orsoline e diretta dall’attrice Claudia Koll (adesso, dopo i suoi trascorsi osé, in una fase mistico-spirituale), e alla sua interpretazione di Suor Rosa, la fondatrice dell’ordine, in un musical, l’impressione purtroppo è che le sue ambizioni nel mondo dello spettacolo, vadano di pari passo, se non superino, la forza della sua vocazione stessa. Peccato (peccato, dai, fatemelo scrivere) infine anche per certe sue affermazioni non esattamente condite di umiltà (“mi aspetto una telefonata da Papa Francesco”, per esempio), che suonano un tantinello fuori luogo e non proprio in linea con il basso profilo che richiederebbe invece la scelta della sua “professione”. Il tutto ovviamente con il massimo rispetto per Suor Cristina e naturalmente per tutti i suoi numerosissimi fan: che di sicuro riusciranno a perdonare le crudeli opinioni di un blogger cattivello a cui piace fare, talvolta, l’avvocato del diavolo.
Ballo ballo
▶ Kevin Bacon’s Footloose Entrance – YouTube.
Se avete affrontato anche voi quel delicato, avventuroso ed indimenticabile passo che separa l’infanzia dall’adolescenza, nei lontani anni ’80 (vado ovviamente per ipotesi, sapete bene che, per motivi anagrafici, la mia memoria non potrebbe arrivare sin là), la vostra crescita sarà stata di sicuro turbata dall’esistenza di capi d’abbigliamento o di accessori oggi fortunatamente estinti (o quasi). I piumini dai colori fluorescenti, gonfi come dirigibili, ad esempio, una sorta di necessaria uniforme giovanile diffusa anche in luoghi dalle temperature non esattamente artiche, oppure quei terribili mollettoni per capelli ornati con grandi margherite o gerbere posticce, per non parlare delle antiestetiche e (purtroppo) usatissime spalline rimovibili in gommapiuma con striscia adesiva in velcro. Se all’epoca inoltre eravate ragazzini/e rompiscatole con l’ambizioso e deleterio sogno di un futuro nella danza, avrete quasi per certo pregato in ginocchio i vostri genitori perché vi acquistassero il vostro primo, inutile, paio di scaldamuscoli di lana, avrete rischiato più volte di compromettere gravamente qualche tendine nel tentativo di tirare su una gamba o di esibirvi in una spaccata degna di Heather Parisi, conoscevate infine Janet Jackson non tanto perché sorella minore del ben più famoso Michael ma soprattutto per il suo (superfluo) ruolo di Cleo nella fortunata serie tv Saranno Famosi. E chiaramente approfittavate dello spettacolo domenicale pomeridiano al cinema (il vostro coprifuoco scattava rigorosamente alle 18.30, di uscire la sera non se ne parlava ancora) per abbandonarvi, tra estasi adolescenziale e acerbi desideri di gloria, alla visione di una qualsiasi pellicola di quello sfruttatissimo filone musicale-romantico-ballereccio che, da Flashdance (1983) in poi, fino a Dirty dancing (1987), arrivò a sfornare almeno altri tre, quattro film, a stagione, pochi dei quali, a dire il vero, così altrettanto memorabili o anche solo guardabili. Eccezione naturalmente fatta per quel semi – inspiegabile caso di successo rappresentato da Footloose (1984). Che, a dispetto di un’indifendibile insulsaggine di trama (il paesino di provincia americana che mette fuori legge il ballo, causando la legittima ribellione del protagonista giunto da Chicago), di una sceneggiatura banalotta e priva di guizzi (“c’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo” la battuta più celebre, così sciatta in confronto a “nessuno può mettere baby in un angolo”), di pesanti (e comprensibili) stroncature da parte della critica, giunse invece a incassare oltre 80 milioni di dollari. Consacrando così Kevin Bacon al rango di nuovo e ambitissimo idolo delle (ormai più che adulte) teen-ager, nonostante la sua bellezza quasi anticonvenzionale, forte di una vaga somiglianza con Giorgio Armani in quel naso che finisce troppo presto scoprendo un labbro superiore troppo sottile. Oggi, a 30 anni esatti dall’uscita del film, che segnò anche il debutto cinematografico di un’allora bruna e sconosciuta (ancora per lungo tempo) Sarah Jessica Parker, è lo stesso Kevin Bacon, adesso 55enne dall’invidiabile forma fisica e dalla rispettabilissima carriera nel grande schermo (JFK, Codice d’onore, Apollo 13, Mystic River) a citare (e dunque a citarsi in) una delle scene più celebre di Footloose, quella appunto di un balletto eseguito al riparo dagli occhi di tutti. Riproposto “paro paro”, anche negli abiti, seppur con la giusta e necessaria dose di autoironia, all’interno del Tonight show di Jimmy Fallon, (video allegato), uno degli innumerevoli talk-show a stelle strisce capitanati da un conduttore/comico/cinico che intervista milioni di star sullo sfondo di una, sempre identica, visione notturna di New York. A fare la differenza, questa volta, la dimensione umor – nostalgica della coreografia di Bacon (evidentemente sostituito, nei passaggi più acrobatici, da un’atletica controfigura) che ha già ottenuto in pochi giorni quasi 7 milioni di visualizzazioni sul web, segnale che giocarsi con furbizia la carta del revival, in tv, vale ovunque. Lo sa bene chi, ad esempio, in Italia segue puntualmente The Voice sperando ogni volta in un’esibizione sfacciatamente kitsch della Carrà sulle note di Fiesta o Rumore. Ma, esattamente come chiarito all’inizio di questo post, anche stavolta non sto certo parlando di me.