Nella variegata e a tratti poco comprensibile carriera professionale del vostro blogger preferito (perché, non lo sono ancora?), abituato, anzi, quasi rassegnato, per spirito di sopravvivenza, a destreggiarsi tra i lavori più disparati, lontani dalla sua indole, dalla sua formazione, dalle sue ambizioni mai accantonate e spesso da un compenso adeguato all’impegno e al tempo profusi, fa da tempo la sua curiosa comparsa anche il singolare e alienante mestiere di bigliettaio museale. Lavoro che se non fosse per gli spazi angusti da dividere inevitabilmente con le manie o l’esuberanza dei colleghi (i vani delle biglietterie sono spesso comodi quanto un acquario per una balenottera azzurra), per la ripetitività delle solite frasi da recitare a memoria, in tre/quattro lingue diverse, migliaia di volte al giorno (con lo stesso entusiasmo manifestato da una mucca sulla via del macello) e per l’infinità dei conti a fine turno, impossibili da affrontare con la lucidità necessaria, resterebbe con un unico, insormontabile problema: i turisti. Categoria in cui, prima o poi, nella vita, rientriamo tutti, se non altro per la banale considerazione che almeno uno o due viaggetti l’anno, fossero anche a Mirabilandia o a Medjugorje (o in entrambe le discutibili mete), riusciamo a concederceli, senza forse la piena consapevolezza di quanto possiamo diventare terribilmente insopportabili per coloro che invece di turismo vivono. Perché il turista in vacanza, nel 90% dei casi, esige o dà per scontate la gentilezza e la disponibilità di qualsiasi altro lavoratore incrociato anche solo per caso, idealmente ed obbligatoriamente incluse, in ogni suo acquisto, nel pacchetto “pago – pretendo – mi rilasso”. Così, guai a rendergli esplicito il disgusto o lo sconforto che ti assale ad ogni conferma di un’ignoranza raccapricciante (“ma quale Venere del Botticelli c’è qui, la scultura o il dipinto?”), di una maleducazione indicibile (“perché, non posso cambiare il pannolino a mio figlio nel museo?”), di un’assenza evidente del più elementare abc sul funzionamento di uno spazio espositivo (“la galleria chiude alle 18.30 cosa vuol dire”?): ogni richiesta, anche la più inutile ed inopportuna, andrebbe, dal suo punto di vista, sempre ed esclusivamente accolta dalla benevolenza di un (quanto meno falso) sorriso.
In questo, e la circostanza dovrebbe consolarci almeno un po’, gli italiani non rientrerebbero però tra i popoli annoverati come i più sgarbati quando si tratta di aver a che fare con le numerose e non sempre ortodosse esigenze del turista; primato che invece l’immaginario collettivo, qualche stereotipo di troppo e probabilmente una serie infinita di aneddoti (nostri come dei nostri amici e parenti) assegnerebbero ai francesi e in particolar modo ai parigini. Scommetto che anche voi avete un cugino o un conoscente che quella volta, proprio sotto la torre Eiffel o lì di fronte a Notre-Dame, alla classica richiesta di un’informazione rivolta al passante di turno, ovviamente parigino doc (come se fosse possibile riconoscerli ad una sola occhiata) si è sentito snobbato, volutamente incompreso o ignorato perché non si era espresso con l’accento giusto, con la “r” smorzata nella maniera corretta, con quella “e” chiusa impossibile da pronunciare senza una ridicola smorfia delle labbra. Leggenda? Forse non del tutto: perché un briciolo di verità deve pur esserci se la Camera di commercio cittadina e il Comitato regionale del turismo hanno deciso all’unanimità di diffondere, tra i professionisti del settore, una sorta di prontuario su come trattare i milioni di visitatori, specialmente stranieri, che fanno di Parigi una delle mete più ricercate al mondo. Ecco che allora, tra negozianti, ristoratori e addetti vari hanno fatto la loro comparsa circa 30.000 copie del curioso fascicoletto che, come riportato dal quotidiano Le Parisien (http://www.leparisien.fr/espace-premium/val-de-marne-94/les-commercants-parisiens-pries-d-etre-sympas-avec-les-touristes-18-06-2013-2905927.php) si limita ad elargire consigli su come riuscire a risultare più simpatici ai turisti provenienti dai cinque continenti, senza però pretendere di insegnare nulla (perché poi, si dice che i parigini siano anche permalosi). Una piccola rivoluzione insomma, che pare intaccare il noto sciovinismo dei nostri cugini d’Oltralpe e che si accompagna casualmente ad un altro lieve terremoto nelle abitudini, stavolta alimentari, degli stessi francesi. Stando infatti ai risultati di un recente sondaggio, un altro simbolo dei loro usi e costumi come la baguette (http://www.ansa.it/web/notizie/specializzati/terraegusto/2013/06/26/Francesi-tradiscono-baguette-preferiscono-pasta_8932515.html), il tipico, fragrante filoncino, dallo scomodissimo formato, che non entra mai, neanche spezzato, in nessuna borsa, andando così sempre a finire, poco igienicamente, sotto l’ascella, verrebbe soppiantato, soprattutto dai giovani, da altri tipi di preferenze in fatto di pane. Oggetto che per fortuna, tra le varie e bizzarre richieste (vende anche poster? ombrelli? un caffè macchiato?) effettuate dai turisti al mio sportello in biglietteria non risulta. Almeno non ancora.