Onde su onde…

LIGO Gravitational Wave Chirp – YouTube.

Se non fosse per alcune, luminose, ciocche brizzolate, che aggiungono un tocco di curata nonchalance al suo aspetto e al suo (da me invidiatissimo) taglio di capelli rasato da un lato, Laura la potresti benissimo scambiare per una delle nostre decine di studentesse di moda, tanto giovanile e tanto scattante è la sua figura anche solo nel salire di corsa le scale dell’istituto dove entrambi insegnamo e dove spesso ci fermiamo per due chiacchiere al volo. “Mi tengo in forma facendo kitesurf” mi ha confessato una delle ultime volte, aggiungendo “è magnifico, dovresti provare”, sorvolando sulla mia espressione particolarmente dubbiosa e sulla leggera ansia provata al solo pensiero dell’esistenza di una disciplina sportiva da eseguire appeso come un fagotto ad una sorta di aquilone. “Grazie del consiglio, dovrei ricominciare sul serio a prendermi cura di me, ma ripartirei forse da qualcosa di più soft” mi svincolo io con la solita diplomazia, e lei placida e fiduciosa “allora potresti intanto farti seguire da un personal trainer, no?”, riuscendo al momento perfino a farmi provare un po’ di tenerezza nei confronti dell’ipotetico e sventurato coach incaricato in futuro di raddrizzare le sorti di questo corpo inesorabilmente in declino e soprattutto latitante dal lontano ’98 da una qualsiasi palestra (o forse era il ’97? Vabbe’, non che faccia troppa differenza). “Benissimo”, replica Laura di recente, con un sorriso a dir poco contagioso, a uno dei miei mattutini “Come stai?” che a volte troppo distrattamente rivolgiamo agli altri sperando non ci incastrino con lo stesso quesito (“escludendo insonnia e allergia di stagione, la solita mezz’ora di ritardo del treno e la giornata stressante che mi aspetta benone anch’io” credo sia stata la mia risposta), suscitando così tutta la mia curiosità per quella sua aria beata e serena, introvabile alla stessa ora (ma anche più tardi) nella maggior parte degli individui e prerogativa in genere di chi ha da poco ricevuto la più confortante delle notizie. “Quindi? Da dove ti arriva tanto buonumore?” la incalzo io, e lei, con fare gentile e allo stesso tempo spiazzante “Le hai mai sentite le onde gravitazionali? Siamo riusciti a dare voce all’universo, non è incredibile?”, avvicindandomi quindi all’orecchio il suo smartphone per farmi apprezzare il suono del video qui allegato. Ora, di tutta questa storia della recente e parrebbe sensazionale scoperta dell’esistenza reale delle onde gravitazionali io (ma non credo di essere il solo) non che c’abbia capito poi granché, se non il fatto che ci sarebbe di mezzo una delle tante intuizioni del buon vecchio Einstein (spesso scomodato anche per faccende più banali, fosse anche per il vuoto di fantasia che ci costringe a ricorrere alle sue citazioni da condividere su Facebook), e che in sostanza consisterebbero in un’increspatura, una deformazione anomala del nostro tessuto spazio-temporale, avvenuta forse miliardi di anni fa. Come e perché la loro certa individuazione, a detta della scienza fondamentale, dovrebbe incidere sulle nostre piccole e travagliate esistenze, così legate e assoggettate ad un ben più modesto tran – tran quotidiano, scandite da ritmi talvolta assurdi e autoimposti, da essere piuttosto semplice quale sono, totalmente immerso nelle sole questioni  terrestri (che già trovo abbastanza astruse) fatico un tantinello a comprenderlo. Ciò non toglie che abbia trovato la loro presunta melodia di una bellezza inspiegabilmente ipnotica, quasi un moderno e altrettanto seducente canto delle sirene: ricorda il gorgoglio del mare quando rimango a lungo immerso sott’acqua per sfuggire alle partite di pallone urlate sulla spiaggia, evoca il battito rallentato del nostro cuore o il respiro della persona che ci dorme accanto al cui ritmo proviamo a prendere sonno (sempre che non russiate, come il sottoscritto). Possiede perfino il sottile potere distraente dei corpi vorticosi, come in quei minuti interminabili in cui rimaniamo a fissare imbambolati il rincorrersi delle pale eoliche o, da eterni bambini, l’oblò della lavatrice in moto (ditemi che lo fate ancora anche voi), di gran lunga più efficace dell’antistress amatoriale fabbricato dalla mia collega Martina con un comunissimo barattolo in vetro per alimenti, un liquido bluastro e tanti glitter ed orgogliosamente esibito sulla sua scrivania (vi pubblicherò un tutorial al riguardo, prima o poi). Per una sola settimana l’ho addirittura utilizzato come principale suoneria del mio cellulare, rimpiazzando così per qualche tempo la vocina registata di mia nipote o i brani trash – pop di Britney Spears (e non voglio commenti al riguardo), ma, dopo una dozzina di chiamate perse ogni giorno sono dovuto purtroppo ritornare sulle mie vecchie scelte. Come a dire, il richiamo dell’universo sarà pure affascinante, ma le necessità quotidiane di noialtri comuni mortali indiscutibilmente più urgenti.

Buon lavoro, dottore!

▶ Il prof. dott. Guido Tersilli – Alberto Sordi – La marcia di Esculapio – YouTube.

Nonostante gli scandali continui sollevati dai gravi episodi di malasanità purtroppo sempre così tristemente presenti nelle pagine di cronaca nazionale, nonostante lo stupore collettivo provocato ogni volta dallo smascherare qualche finto professionista, abilissimo invece nello spacciarsi per un luminare plurispecializzato, anche per anni, senza mai destare attorno il benché minimo sospetto (fatemi capire, ma solo a me fanno le pulci ad ogni curriculum inviato?), nonostante l’immaginario televisivo e cinematografico faccia da tempo la sua parte per sottolineare un certo arrivismo, i mezzucci, le pecche di una categoria professionale in passato maggiormente protetta da un’aura di intoccabilità (dalle innumerevoli serie di filone ospedaliero, alla ER o Grey’s Anatomy per capirci, passando per un indimenticabile Alberto Sordi ne Il medico della mutua del 1968, video allegato) la figura del dottore, più di altre, è forse destinata per sempre a smuovere, nell’opinione comune, parole come credibilità, competenza, efficienza. E’ se non basta a spiegare tutto ciò il nostro, mai superato, smisurato e inconscio bisogno di delegare, con cieca fiducia o quasi, a mani più sapienti le sorti di questo corpo imperfetto e materiale in cui ci siamo ritrovati a vivere e a cui tanto teniamo, pur ignorando spesso i meccanismi basilari del suo funzionamento o reputandoli comunque del tutto incomprensibili, ecco che adesso anche la moda, strano a dirsi, ci viene incontro con una sua, forse non originalissima, ma comunque interessante, teoria. Stando infatti ai curiosi risultati di uno studio condotto dal professor Adam D. Galinsky, docente di Management presso la Kellog School della Northwestern University, nel lontano stato americano dell’Illinois, e pubblicati di recente sull’autorevole quanto sconosciuta (a me soprattutto, ma temo di non essere l’unico) rivista scientifica Journal of Experimental social psychology (http://www.journals.elsevier.com/journal-of-experimental-social-psychology/) andrebbe proprio attribuita all’abito (in questo caso al camice di ordinanza) la capacità di fare non tanto quel “monaco” del celebre proverbio che ci piace scomodare ogni tre per due, ma più in generale il buon lavoratore. Pare infatti che tra i vari esperimenti compiuti da Galinsky e la sua equipe per avvalorare certe, apparentemente bizzarre, teorie, ci sia stata la richiesta di far indossare ad un gruppo di volontari dei semplici camici, per poi far svolgere loro diverse mansioni, con la sola differenza che mentre ad una metà veniva detto che quel camice, per quanto immacolato, fosse “da dottore”, all’altra metà lo stesso indumento veniva indicato come una tenuta “da pittore”. Ebbene, la conclusione di questa importantissima ricerca, che immagino da oggi in poi potrebbe cambiare drasticamente le vostre vite oppure procurarvi infinite notti insonni a domandarvi “possibile?” è che i lavori migliori siano stati naturalmente compiuti dal gruppo degli “pseudomedici”, dimostratisi più accurati, prudenti, ordinati, rispetto al gruppo dei finti pittori. Vale a dire: sarebbe sufficiente indossare una qualsiasi divisa per risvegliare immediatamente in noi certe caratteristiche professionali in genere associabili a questo o a quel mestiere, perché l’abito è in grado di per se’ di rivestrirci delle qualità tipiche, appannaggio di una classe di professionisti, o comunque di poterci condizionare in tal senso. Credibile o no, lo studio non può che condurci a due ulteriori, altrettanto strampalate, riflessioni: innanzitutto cosa spinge a bistrattare i pittori e a considerarli poi dei lavoratori così caotici, approssimativi o comunque più inaffidabili di un medico? (rientrassi nella categoria, ad, esempio, mi offenderei un pochetto). Seconda è più importante domanda: cosa diamine penserebbe di me Galinsky se gli inviassi una foto con addosso quella tuta da benzinaio presa in prestito da un amico (e mai più riconsegnata) che sfoggio quando tento di sbrigare da solo alcuni lavoretti domestici? Professionista dai costi sempre in rialzo o tipino facilmente infiammabile?

Girl power

Verizon Commercial 2014 | Inspire Her Mind – Extended | Verizon Wireless – YouTube.

Succede raramente, ma a volte, proprio come in quelle scene dei film in cui la telecamera si innalza a poco a poco sul protagonista per abbracciare nell’inquadratura tutto ciò che lo circonda, ho come una sorta di alienante e più oggettiva percezione di me, un punto di vista estraneo e quasi sospeso nel tempo, che mi spinge a chiedermi cosa stia facendo lì in quel preciso istante e cosa penserebbe, casomai, un qualunque, sconosciuto, spettatore. Sono naturalmente attimi di riflessiva lucidità in cui a prendere il sopravvento è quella spiacevole ed umanissima sensazione di sentirsi a disagio, direi forse fuori luogo, nella maggior parte dei casi terribilmente stupidi e in questo, tra l’altro, in ottima compagnia. Ed è ciò che ho avvertito con chiarezza, rimanendone in parte turbato, quando proprio l’altro giorno, per lavoro, mi sono ritrovato in un chiassoso parterre ad assistere ad una sfilata di un noto brand di moda per bambini. Ebbene, all’uscita finale, con tutti i piccoli modelli che avanzavano tra gli applausi e gli schiamazzi di stampa, compratori e genitori presenti intorno alla mini-passerella, ho provato a lanciare uno sguardo più obiettivo e critico alla curiosa scena intorno a me, così riassumibile: decine di adulti sovraeccitati che osannavano e incitavano i loro pargoli, alcuni dei quali apparivano divertiti, altri disinvolti, molti altri invece intimiditi per non dire addirttura terrorizzati. Non discuto la necessità e la, spesso presente, qualità riconoscibile nelle tante collezioni di abbigliamento per l’infanzia: in numerosi casi si tratta di lavori eccellenti, frutto dell’impegno di piccole e medie imprese, anche italiane, che vantano decenni di tradizione nel settore e una cura ineccepibile nella confezione di vestiti, calzature e accessori, fiore all’occhiello di una vocazione artigianale ancora oggi, per fortuna, esistente. Si tratta piuttosto di rivedere il perché sia ritenuto comunemente accettato o accettabile il tradurre alla lettera una modalità di presentazione di un prodotto, nello specifico una sfilata o un servizio fotografico, che, se ancor oggi valutati come gli strumenti di diffusione mediatica più adeguati o funzionali al comune alafabeto del fashion – system, appaiono però una dissonante forzatura una volta calati nel mondo dei più piccoli. Me lo sono chiesto per tutto il giorno, quando ho continuato ad incrociare, nella frenesia dei backstage, graziose e vivaci bambine innaturalmente atteggiate a top – model, la freschezza tipica dei loro visi nascosta e stravolta da make – up e capelli ossigenati, talvolta trainate ed esibite come merce da esporre da genitori smaniosi di un briciolo fugace di fama o di approvazione. E continuo a chiedermelo ancora oggi, quando, di fronte al nuovo, efficace, spot della compagnia di telecomunicazioni americana Verizon (video allegato), centinaia di altre domande del tutto simili si rincorrono e si moltiplicano: è giusto pretendere da una bambina, sin dai primi anni, di adeguarsi alla rigidità di un desiderio sociale che ne enfatizzi solo la piacevolezza e la cura estetica, è giusto sottoporla alla discutibile pressione di corrispondere a un modello universale basato su un’immagine stereotipata, tutta moine e civetteria, con cui il mondo femminile viene spesso e superficialmente liquidato? Proviamo allora a fermarci solo per un minuto, quello necessario per capire il messaggio dello spot: e proviamo davvero a scoprire se esiste una profonda ragione per cui femminilità debba fare più spesso rima con quella sana curiosità in ogni settore, che occorrerebbe, al contrario, rispettare, salvaguardare e coltivare.

Cattivissimi noi

Maleficent – Trailer Ufficiale italiano | HD – YouTube.

Ci rimuginavo per l’appunto l’altra sera, ma come di frequente accade durante quel percorso sconnesso in cui si muovono le mie, spesso astruse, riflessioni, senza riuscire propriamente a fornire una risposta del tutto adeguata come anche solo a dare pace a certi inutili quesiti che continuano così a rimbalzare irrisolti tra le pareti di questa mente bizzarra. E ciò che non finirà mai di stupirmi è che, il più delle volte, a innescare dentro di me infinite e intricate serie di domande, siano normalissimi episodi quotidiani, occasioni superficiali o frivole, situazioni facilmente definibili come ordinarie o banali, sufficienti però a smuovere qualche interrogativo o questione di troppo. D’accordo, vado al sodo (ma quanto mi piacerà tirarla per le lunghe, eh?): decido, in linea con la mia indifendibile inclinazione al pop, di guardare l’ultima pellicola della Disney, Maleficent (nel video allegato il trailer), che poi altro non sarebbe che l’ultima versione per il grande schermo di una delle più celebri fiabe di tutti i tempi, quella della Bella Addormentata, narrata però questa volta da un punto di vista, almeno nelle intenzioni, più originale, quello del cattivo, anzi della cattiva, di turno, la fata Malefica appunto (lo so, pensavate fosse una strega. Anch’io. No, per quanto non esattamente docile, sempre di fata trattasi. Credetemi). E nonostante un riadattamento estetico del personaggio a dir poco affascinante, che ammanta la protagonista Angelina Jolie di una macabra e spettrale eleganza, regalandole due zigomi geometrici, che la nostra Ferilli parrebbe smunta al confronto, e un’intrigante collezione di copricapi dalle corna ritorte come solo certe antilopi africane, quella pura cattiveria che ci si aspetterebbe scorrere nelle vene di Malefica viene invece diluita nel film dalla narrazione di una serie di episodi che (non vi anticipo, tranquilli) spiegherebbero le ragioni della sua nota malvagità. Una piccola delusione insomma. Voglio dire: se c’è un pregio che possiedono le fiabe, tutte, è sempre stato il potere di ridurre i meccanismi della vita alla semplice contrapposizione tra bene e male (a parte la differenza fondamentale che nelle favole sia sempre e solo il bene a trionfare, e vissero tutti felici e contenti) di metterci di fronte, sin da bambini, alla consapevolezza che la cattiveria, il disprezzo, l’astio siano emozioni realmente esistenti, negli altri come in noi stessi, con cui un giorno dover purtroppo fare i conti. Abbiamo davvero bisogno di giustificare, mitigare, approfondire le ragioni di un’azione crudele, di un pensiero sprezzante, di un dispetto o di uno sgambetto fatto per il sadico gusto di farlo, tirando invece in ballo una qualsiasi altra motivazione o circostanza passata che sia la vera e recondita causa di certe umane e non proprio edificanti pulsioni? Occorre sul serio trasformare la strega cattiva delle fiabe in una fata dal vissuto traumatico così da poter comprendere meglio e addolcire ogni sentimento più odioso, allontanando dunque da noi l’idea che si possa semplicemente e intenzionalmente essere talvolta scorretti, immorali, diabolici? Perfino la stessa scienza sembra riabilitare certi comportamenti dettati da un pizzico di perfidia, ai quali dovremmo necessariamente ricorrere per metterci al riparo dalle delusioni in agguato dietro l’angolo, per garantirci qualche soddisfazione in più nella vita professionale e privata, per scansare infine tutte quelle inutili illusioni che una visione troppo ingenua e ingannevole delle persone e delle situazioni circostanti potrebbe al contrario fornirci (http://www.staibene.it/psicologia/articoli/single_news/article/la_cattiveria_e_utile_ecco_perche/?refresh_cens). Ma prima della sua presunta utilità dovremmo riuscire ad acquisire la consapevolezza della sua innegabile e non sempre giustificabile esistenza. Fingere che la cattiveria di per sé non ci appartenga affatto, questo sì, equivarrebbe a raccontarsi una vera, infondata, favola.

Provaci ancora prof!

Mi ero ripromesso che non ci sarei mai più cascato. Ero serenamente giunto alla conclusione che non fossi la persona più adatta, che difetto di autorevolezza, di polso, di pazienza, che per appropriarmi del titolo di insegnante non avessi la giusta esperienza, la formazione necessaria, l’adeguato temperamento. Non nego che sia stata un’esperienza magnifica quanto impegnativa: nei due anni che mi hanno visto salire (indegnamente?) in cattedra per una nota scuola di moda ho tenuto sei diversi corsi, mi sono confrontato con decine di studenti appassionati, vulcanici, talvolta diffidenti, mi sono domandato di continuo se avessi davvero qualcosa da trasmettere loro, anche solo quel piccolo consiglio, da fratello maggiore più che da professore, a cui sarebbero potuti ricorrere in futuro. Ricordo ancora il timore della prima lezione: l’aula più grande di quanto mi aspettassi, sessanta allievi già seduti e incuriositi, centoventi orecchie e occhi fissi su di me, su ciò che tentavo di dire, sulla mia voce incerta e cavernosa amplificata dal microfono (che da allora non ho più usato), sul mio nervoso passeggiare su e giù tra loro simulando una calma e una sicurezza mai possedute. Ho avvertito col tempo calare il disagio iniziale, perché letteralmente travolto dall’entusiasmo impetuoso tipico della loro età, dalla loro ansia di crescere, di mettere in discussione ogni singola frase o certezza. Mi sono più volte scontrato con i loro legittimi dubbi, con i loro sottili moti di arroganza o di presunzione, con la loro voglia di urlare al mondo “ci sono anch’io, fatemi spazio!”. Mi infuriavo quando non si impegnavano, mancando di rispetto soprattutto al proprio talento, quando arretravano o si accontentavano di risultati modesti, perché a vent’anni invece bisogna rischiare e non adagiarsi, quando si abbattevano di fronte alla prima delusione, perché nella vita le delusioni sono più utili dei successi. E’ stato divertente sentirsi chiamare “profe” o “prof” anche se non lo sono e mai lo sarò, è stato decisivo attingere dalla loro energia e dalla loro stima per affrontare le difficoltà della mia vita, è stato infine doloroso attraversare la loro esistenza per poi doverne uscire, lasciandoli liberi di cavarsela da soli. Perché vorresti invece continuare a incoraggiarli, sostenerli, proteggerli. E invece no, un bravo insegnante capisce anche quando arriva il momento di farsi da parte. No, non faceva proprio per me, ne ero certo.

E infatti, dopo neanche tre anni, sono già tornato sui miei passi. Mi sono lasciato convincere, tra l’altro nel giro di poche ore, dalle parole lusinghiere e calorose di un’affabile ex – collega, ho messo da parte tutti i precedenti dubbi e i timori sotterranei che il tempo aveva comunque smorzato, ho soprattutto avvertito di nuovo, con chiarezza, la voglia e la necessità di misurarmi con un piccolo uditorio, con l’imprevisto di domande e osservazioni non immaginate, con l’interesse o la noia che le mie lezioni possono ugualmente suscitare. Ho accettato d’istinto, volentieri, senza ripensamenti né riserve, perché questa volta c’è, a dire il vero, una differenza fondamentale: l’età dei miei allievi. Che, un eccesso di politically correct impone di definire over, perché ormai anche i termini “anziani” o “maturi” sono diventati forieri di una sfumatura dispregiativa e dunque inaccettabile. Mentre i miei nuovi studenti, dimostrando molta più saggezza, dignità e autoironia di certe etichette esterofile, nel descriversi si lasciano tranquillamente sfuggire dalle labbra aggettivi come “vecchierelli” o “vecchietti”. Consapevoli naturalmente di non esserlo affatto, soprattutto nei loro slanci di vitalità contagiosa, nel coraggio e nell’umiltà che rivelano mettendosi ancora una volta in discussione, nel desiderio mai sopito di apprendere, di stare tra la gente, di scoprire che esistono sempre milioni di motivazioni valide per andare avanti. Anche quando la vita ti ha beffato con pessimi scherzi, quando ti ha privato del tuo più grande amore, quando ha cominciato a regalarti qualche acciacco di troppo, quando i ricordi e le esperienze accumulate si fanno ormai più numerose delle aspettative. Sulla carta d’identità potrebbero essere tutti benissimo i miei genitori, qualcuno perfino mio nonno; il più delle volte hanno un atteggiamento rispettoso, signorile, oppure materno e protettivo, a tratti al contrario simpaticamente indiscreto, specie quando azzardano qualche quesito impertinente sulle mie origini o sulla mia vita privata. Sono volenterosi, organizzati, instancabili, scrivono pagine e pagine di appunti, intervengono in maniera intelligente e composta, citando fatti d’attualità, personaggi noti, la storia e la letteratura che ricordano dai tempi della scuola. Mi accolgono con la bontà dei loro dolci fatti in casa, mi salutano con altrettanto affettuosi inviti a prendere un tè o un caffè, con il progetto di una pizza o una gita tutti insieme a cui non posso assolutamente mancare. Mi fanno sentire apprezzato, utile, speciale. E anche questa volta sono io ad aver tutto da imparare.