Cari papà…

▶ Elton John – Sorry Seems To Be The Hardest Word – YouTube.

…chi vi scrive, sperando di non rovinarvi l’unica giornata durante l’anno in cui tutti paiono finalmente ricordarsi anche di voi (pensiero che spesso prende forma in una letterina affettuosa e sgrammaticata dei vostri figli, scritta sotto dettatura di mammà o di qualche premuroso insegnante, o in un piatto di frittelle unte/abbrustolite, messe insieme copiando alla meno peggio la ricetta di Benedetta Parodi in tv) è forse la persona più lontana dal vostro movimentato trantran e più scettica riguardo la vostra, radicale e a tratti incomprensibile, scelta. Quella, naturalmente, di diventare genitori, di aver deciso con giusta (spero) lucidità e consapevolezza che da un certo momento in poi della vostra esistenza avreste dovuto dedicare la maggior parte del vostro tempo, della vostra pazienza, delle vostre forze, sottratte alla quotidianità di mille altri schiaccianti impegni, professionali in primis, ad educare, guidare, sorreggere un’altra creatura, prepararla come meglio potevate a quella temibile e meravigliosa avventura chiamata vita, nella quale non saprete di certo evitarle delusioni e disastri (anche se lo desiderate sopra ogni cosa), sempre comunque pronti ad esser lì a spronarla e a consolarla, quando accadranno. Voi che considerate normale e fate spallucce se accantonati nelle attenzioni dei figli in favore del più presente o forse ingombrante affetto materno, sempre in secondo piano quando si tratta di dover parlare apertamente di sentimenti e scomodati invece quando è richiesta autorevolezza, chiamati soprattutto in causa o peggio ancora incolpati dei difetti o delle mancanze della prole (“tutto suo padre” è la frase più abusata in caso di evidente immaturità filiale) e che allo stesso tempo andate convincendo chiunque di quanto sia straordinaria e appagante la paternità. Vi chiedo: lo è davvero? Perché per chi, come me, in tutto questo vede più rogne che soddisfazioni, che considererebbe insormontabile l’ingratitudine o l’indifferenza serbata un domani da un figlio, che giudica poi sfiancante, una faticaccia immane, tutto l’inevitabile repertorio di nottate insonni, pannolini, compiti a scuola, quel crescendo insomma di richieste, anche pratiche, che l’esser padri implica, che reputa infine tutt’altro che una una privazione o una menomazione non aver pargoli per casa, ecco, siete un po’ degli eroi, a prescindere. Immagino sappiate anche quanto siano altrettanto numerose, per fortuna, le persone che non la pensano come me: per uno che non coglie, per ammessa, limitata sensibilità, cosa ci sia di ugualmente indescrivibile ed eccezionale nell’essere padri, potrebbero esistere migliaia, forse, milioni di individui invece a voler condividere e a covare in segreto questo desiderio. Vi chiederei perciò di non liquidare frettolosamente tutto l’increscioso episodio rigurado ai nuovi e curiosi fautori della famiglia “tradizionale” (leggi Dolce & Gabbana, come hanno di recente ammesso in una contestata intervista) e i suoi infiniti strascichi in rete (la reazione comprensibilmente indignata di Elton John, ad esempio) come una banale lite tra stilisti bizzosi e qualche cantante eccentrico, ma di coglierne al contrario lo spunto per una più riflessione più approfondita al riguardo, voi che dovreste saper riconoscere più di ogni altro in cosa consista l’unicità di un’esperienza, quella paterna, che in molti sentono di voler e poter affrontare. Chiedendovi infine scusa se ho approfittato così del vostro tempo e se vi ho in qualche modo sbeffeggiato, all’inizio di questa lettera e in quest’occasione di festa. Che poi scusa sembrerebbe davvero la parola più difficile da pronunciare, o così dice letteralmente una splendida canzone proprio dello stesso Elton John (video allegato). Ed è, tra l’altro, uno degli insegnamenti più importanti che ho ricevuto da un suo grandissimo fan: mio padre.

Sorry

Mina – Sì l’amore – YouTube.

Avrei un sacco di ottime scuse. Potrei ad esempio ricorrere, come le vecchie giustificazioni che firmavo a scuola, a volte anche rubandole dai libretti dei miei compagni (le mie finivano sempre così in fretta) ai classici “motivi di salute” o “familiari”, formule che poi comprendevano un po’ tutto, dal vero/ma più spesso finto mal di testa/denti/pancia al “mi è morto il pesce rosso e mamma ha tanto insistito perché gli facessimo un degno funerale!”. Potrei parlarvi di impegni improvvisi, catastrofi inevitabili, rapimenti alieni, e giù con tutto un repertorio di avventure incredibili che mi avrebbero impedito, cosa che ero riuscito a fare finora con una puntualità di cui sono il primo a stupirmi, di aggiornare a dovere questo blog (colgo l’occasione anche per ringraziare quanti oggi, più o meno carinamente, hanno lamentato l’assenza del post del lunedì). Dicevo, potrei, ma non voglio: ho già avuto un inizio di settimana che definire rocambolesco è poco, motivo per cui non mi va di lagnarmi o di perdere altro tempo per scovare poi chissà dove una ragione plausibile per il mio ritardo quotidiano, di cui mi dichiaro profondamente pentito, anzi, potessi allegherei un mio video con tanto di meritata fustigazione, ma non so quanto sarebbe poi gradito al pubblico del web (di sicuro, non a quello che frequenta questo blog). Ciò che forse risulta più grave, nella generale sconclusionatezza di questa giornata, sfuggitami di mano direi dopo solo 15 minuti dalla sveglia, è che stavo per dimenticarmi di una ricorrenza che invece ogni anno mi fermo a celebrare con il giusto e doveroso coinvoglimento: il compleanno della mitica Mina (il 73esimo per la precisione. Auguri). A questo punto diventa obbligatorio, nel post (ritardatario) di oggi, oltre a rinnovare le mie scuse, pubblicare un suo splendido brano, tra i miei preferiti, lo stesso che proprio l’altra sera a cena tentavo di spiegare a una mia conoscente, che replicava “Il titolo non mi dice niente, come fanno le parole poi?”. “Quali parole?”.