Al mio tre…

Rischierò di apparire più maniacale di quanto non sia in realtà (oddio, se vi fosse già capitato di leggere qualcuno dei miei vecchi post credo sia tardi per poter rimediare a questa dannosissima impressione), ma, come vado ripetendo ormai ogni Dicembre dal 2012, anche stavolta ci tenevo a ricordarvi che, ad oggi, sono trascorsi esattamente tre anni dall’avventuroso, zoppicante e incredibilmente duraturo avvio di questo blog. Per la precisione poco più di 36 mesi (cifra che fa tanto etichetta di giocattoli provvisti di minuscole parti che potrebbero essere facilmente ingerite), o se preferite 1097 giorni (considerando l’assenza di un anno bisestile e le 48 ore di ritardo sulla scadenza puntuale del terzo anniversario); eviteri però di specificare i minuti, ma vi assicuro che mi basterebbe poco per poterli contare con esattezza, visto che ricordo ogni singolo istante relativo alla nascita di questo spazio virtuale catartico, modellato con urgenza al fine di placare, per mezzo della scrittura, la maggior parte delle mie inquietudini interiori. Anche se da allora mi sembra di aver davvero vissuto, proprio come uno di quei numerosi gattini che andate condividendo con incomparabile gioia (la vostra) su Facebook, sette diverse e schizofreniche esistenze. Perché in questo lasso di tempo sono arrivato a cambiare qualcosa come cinque differenti professioni e almeno otto luoghi di lavoro, trasferendomi o spostandomi di continuo fra tre, per fortuna splendide, città, cominciando soprattutto a detestare quella in cui avevo deciso di vivere per motivi sentimentali, ma che si è poi rivelata ai miei occhi particolarmente arida e poco stimolante. Prendendo, per sopravvivere, centinaia di treni, accumulando stress e ore di ritardo, perdendo il convoglio in partenza almeno una dozzina di volte (e maledicendo di corsa mezzi e/o personale), sbagliando in due occasioni binario, per ritrovarmi così a trascorrere un intero pomeriggio nella squallida stazione di Zagarolo (meta sconsigliabilissima), o un venerdì notte su e giù per l’Italia, in una triangolazione insensata fra Milano – Roma – Firenze, ad ubriacarmi con del pessimo vino rosso offerto da Trenitalia. Oppure percorrendo in auto, io che oltretutto detesto guidare, migliaia e migliaia di chilometri, tenendo a bada la solita ansia al volante con personali e strazianti performance di canzoni di Mina o Whitney Houston scelte come sottofondo e con il mio amore spesso a fianco, che puntualmente si addormenta dopo cinque minuti esatti dalla partenza per risvegliarsi a cinque minuti dall’arrivo, annunciati da un suo candido “Già arrivati?”.

Ho inoltre ripreso a insegnare, dopo una secca e credevo definitiva rinuncia, più di un ripensamento, un paio di offerte allettanti e, ad oggi, già circa duecento nuovi allievi, fra i 18 e gli 85 anni, nei cui singoli sguardi provo di continuo a scorgere il reale interesse, trovandovi talvolta anche la noia, perfino una diffidenza sottile, per fortuna anche autentica passione o, più di rado, una stima spropositata nei miei confronti. Ho ugualmente tentato di insegnare a mia nipote qualcosa di altrettanto fondamentale, riuscendoci solo in parte con le costellazioni che le mostro sul mappamondo luminoso tenuto in camera da letto, le sole e le stesse tra l’altro che ricordo sin da bambino perché imparate all’epoca da mio padre in certe piacevoli sere d’estate. Sono sceso a patti con il tempo che passa, trovando raffinata la scelta di mia madre di lasciarsi finalmente imbiancare tutti i capelli, accettando un po’ meno volentieri ogni mia nuova ruga avvistata allo specchio, sorprendendomi ad ogni “ma non sei cambiato affatto!” ripetuto da chi incontro dopo tempo, replicando “sai, una spruzzatina di botox ogni tanto” e pensando in realtà “starà fingendo o davvero non ha notato questa nuova graticola di solchi intorno agli occhi?”. Sono riuscito a ingrassare di ben 12 chili, per poi perderne a fatica 8 e sconsideratamente riprenderne altri 3, e adesso che si avvicinano le feste ho già stilato per il 2016 un nuovo programma di mantentimento/sport/rinunce che manderò di sicuro all’aria entro il 10 Gennaio. Ho aspettato decine di strabilianti tramonti sul mare pensando sempre che valesse la pena vivere solo per poter godere di uno spettacolo del genere e ugualmente invocato la morte ogni volta che mi sono trovato a risalire faticosamente da quelle lontanissime spiagge, a piedi, in mezzo al buio pesto, per aver fatto tardi a guardare il sole scendere. Ho scoperto, in una sorprendente serata lavorativa passata con dei divertenti ex colleghi, che riesco a guardare su YouTube i video sui vermi carnivori degli abissi, non trovandoli poi neppure creature così ripugnanti, almeno non come i rospi, che al contrario considero fra gli esseri più disgustosi, come ho appurato pochi mesi fa quando, fuori casa di mia sorella, ne ho scovato uno gigantesco e non sono riuscito a muovere un muscolo per alcuni minuti. Sono finalmente riuscito a liberarmi di molti oggetti inutili collezionati negli anni, attribuendo più valore al pensiero dei ricordi che non alle cianfrusaglie accumulate, assaporando con più gusto il presente senza dover ricorrere continuamente alla presenza fisica o agli indizi del passato, e ora che ci penso, ho perfino lasciato per due volte il mio indispensabile spazzolino da denti a casa degli stessi amici che spesso mi ospitano e che adesso sospettano una mia sotterranea volontà di trasferirmi da loro. Ho imparato soprattutto a convivere con il dolore per chi se n’è andato troppo presto, con la delusione per chi ha deciso di voler uscire dalla mia esistenza o comunque di ridimensionare, tralasciare, o troncare il rapporto che ci legava, perché per quanto sia penoso salutare le persone che vorresti continuassero a far parte della tua vita, non si può certo obbligarle a far coincidere il loro cammino con il tuo. Insomma, anche grazie a questo blog, mi riguardo con lucidità e mi riscopro diventato nel tempo più tollerante, maturo (oddio, più o meno) sereno (quello sì).

E già che ci sono, aggiungerei un’ultima, sincera, considerazione: ho quasi quaranta, spaventosi e bellissimi, anni. Gli ultimi tre dei quali, zeppi di scivoloni e tentennamenti, singolari disavventure e speranze concrete, mi sono ritrovato a narrare, forse con passione discontinua ma, spero, con la doverosa ironia, su questo strampalatissimo mezzo virtuale. E adesso come adesso, per nessuna ragione al mondo, vorrei tornare indietro, anche per un solo giorno, ai miei pur piacevoli, spesso allegramente dichiarati, eppure, oggi ai miei occhi così imperfetti e lontani, ventinove.

Caro buon vecchio stile…

Joan-Didion-Celine-Spring-Summer-2015-1-660x400

Che l’estenuante e non sempre fruttuosa ricerca di un testimonial ideale, il volto noto e forse inaspettato da immortalare in una campagna pubblicitaria, replicata poi all’infinito sulle pagine dei giornali come su migliaia di manifesti per strada, sia un sentiero ormai battuto da decenni dalla stragrande maggioranza dei brand di moda, non é più certo una novità. Curioso è semmai constatare come per la prossima primavera/estate si sia invece aperta una vera e propria battaglia tra gli eterni fautori, nelle foto patinate, del necessario binomio bellezza/giovinezza, stavolta ahimé surclassati per intuzione, coraggio e ritorno mediatico da marchi che hanno invece scommesso sull’originalità di visi e nomi solitamente ignorati dagli obiettivi più glamour, anche per motivi anagrafici. Insomma difficile far passare sotto silenzio la radicale trasformazione in atto, se non altro per quella singolare ventata di freschezza che, al contrario, pare non aver sfiorato alcuni colossi della moda, cristallizzati su scelte a questo punto più simili nei toni a repliche sbiadite di soluzioni già proposte in passato che a spiazzanti novità. Uno su tutti Calvin Klein, il gigante del ready to wear e dell’intimo a stelle e strisce, forse colpevole di averci ammaliato nel tempo con la bellezza acerba e imperfetta di Brooke Shields e Kate Moss o con la muscolatura da manuale di anatomia di Antonio Sabato jr e di Mark Wahlberg (in versione precinematografica, quando con lo strambo pseudonimo di Marky Mark tentava di farsi largo nel mondo del rap), e che questa volta ripiega con fiacchezza, tra il banale e il prevedibile, sul faccino imberbe del ventenne cantante canadese, idolo delle ragazzine, Justin Bieber. Lasciando svanire così nel nulla ogni accento sexy o provocatorio a cui ci avevano abituato, sin troppo bene, le sue storiche campagne in bianco e nero, l’ultima, quella con l’angelico e monoespressivo Bieber protagonista, seppur affidata alle mani esperte del duo fotografico Mert & Marcus. E se in tutta risposta brand come Givenchy e Versace hanno optato rispettivamente per il fascino più maturo, seppur altrettanto inflazionato, di due dive planetarie come Julia Roberts e Madonna, arriva però da Céline, storica masion francese dal 2008 capitanata dalla designer britannica Phoebe Philo, la più azzeccata e controversa scelta di questa stagione. Momentaneamente accantonati gli splendidi visi o i corpi scultorei di attrici e supermodel, lasciati ad altri l’uso massiccio di levigazioni innaturali da photoshop, sempre soprattutto in linea con quell’ideale di assoluta raffinatezza e zero concessioni al cattivo gusto, con quel mood sofisticato e un po’ snob che permea le collezioni del marchio, ha chiamato come testimonial la non più giovanissima scrittrice statunitense Joan Didion. Che, al di là della sua meritatissima e inarrivabile fama di penna colta e tagliente (è stata giornalista di Vogue negli anni ’60, autrice di saggi e romanzi pluripremiati, da Prendila così del 1970 a L’anno del pensiero magico del 2005) si è lasciata ritrarre, non senza un briciolo di coraggiosa ironia, dal fotografo Juergen Teller nella totale brutalità dei suoi ottant’anni appena compiuti (foto allegata); senza il bisogno di ricorrere a strati di make – up o a ritocchi digitali, ma con l’unico, studiato espediente di quei grandi occhialoni neri che ne occultano in parte il volto, aggiungendone, se possibile, un accento più chic. Sottolineando infine ciò che la moda sembra spesso purtroppo dimenticare: l’eleganza passa anche tra le pieghe del cervello, a qualunque età.

Di notte specialmente

“Ti ricordi, vero, che stasera siamo a cena con i miei colleghi?”. Sono quasi le 18.30, devo tassativamente consegnare per il giorno seguente un articolo di 8.000 – 10.000 battute su una serie di negozi di moda, e come al solito, quando mi ritrovo immerso nella scrittura, perdo ogni riferimento spazio – temporale. A riportarmi all’urgenza della realtà ci pensa appunto la premurosa telefonata del mio amore. “Ma certo” replico io, tentando nel frattempo di dare un senso compiuto alla frase che mi è rimasta tronca sul monitor, “stavo chiudendo un pezzo, ma posso tranquillamente finirlo dopo. Tanto la sera sono più rilassato e faccio più in fretta. A che ora è l’appuntamento?” “Alle 8. E cerca di essere puntuale. Ci vediamo lì”. Peccato che “lì” significhi un paesino semisperduto arroccato su una collina distante almeno una mezz’ora di curve che si snodano a mo’ di mulattiera nella campagna toscana. Peccato che sia da ore pietrificato davanti allo schermo per cercare un aggettivo che non abbia già usato in precedenza nel mio testo, e non sia neanche al primo step del serrato programma ‘doccia – barba – stirati la prima cosa che trovi pulita – cerca anche di abbinarla – ricordati dove hai parcheggiato la macchina’, necessario per arrivare in tempo alla cena. Riesco però nel miracolo. Alle 20.05 (cinque minuti di ritardo, direi trascurabile) sono già, quasi impeccabile, nel posteggio del ristorante. Arrivato prima di tutti, tra l’altro. Forse un tantinello nauseato per la corsa in auto. L’articolo però e rimasto incompiuto. Ma posso terminarlo più tardi. La sera di solito scrivo più rapidamente. O così credevo.

Ore 23.44: rientriamo dalla cena. Divertiti, sazi, per fortuna neanche un po’ brilli, perché devo rimettermi per forza sul mio pezzo. Sottovalutando forse l’incidenza che il fritto di antipasti e la doppia porzione di cheesecake possono avere sulla mia creatività, riaccendo il pc. “Ti dà fastidio se guardo un po’ di tv?” mi chiede il mio amore, sprofondando sul divano e facendo partire sullo schermo le repliche di The Voice. “No, figurati, qui ho quasi fatto”. In effetti devo solo parlare degli ultimi due negozi. Scopro però di avere al riguardo delle cartelle stampa telegrafiche, in inglese. E delle foto minuscole. E ora, che scrivo?

Ore 00.31: “Vado a dormire, tu che fai?”. “Tra poco ti raggiungo, spero”. “Lascio accesa la tv?” “NOOO, ehm no…anzi, semmai togli il volume, così mi concentro meglio” “Ok, ‘notte”. Solo, in salotto, dal televisore ormai muto sbuca Shakira che pubblicizza uno yogurt e Kevin Costner in uno spot di una nota marca di tonno. Ho le allucinazioni? Tolgo gli occhiali, guardo dalla finestra, mi sembra di vedere una capra. Rimetto gli occhiali, la capra è in realtà un tizio che sta spingendo a piedi uno scooter. E’ ufficiale, ho le allucinazioni. Oltre a una pessima vista.

Ore 01.03. L’articolo è quasi pronto. Do un’occhiata alle battute: 7596. Troppo poche. Decido di dare avvio a quella che in gergo tecnico si chiama “operazione allunghiamo il brodo”. Comincio a spargere nel testo parole dalla funzione riempitiva, una pioggia di “così” “dunque”, di avverbi in “mente” che prendono sempre tanto spazio, potessi scriverei anche “supercalifragilistichespiralidoso” ma credo che non me lo passerebbero mai. Riconto le battute: 8891. Ci siamo. Le frasi sullo schermo restano però selezionate, pigio distrattamente con il gomito qualche tasto sul pc e puf, ecco che mi sparisce tutto l’articolo. Che non avevo più salvato. Mandando così in fumo l’ultima ora e qualcosa di lavoro. Tocca ricominciare. Di nuovo. Sgrunt.

Ore 01.34: Tra imprecazioni e scoraggiamento tento di ricostruire l’ultima parte del testo andata irrimediabilmente persa. Contemporaneamente la mia vicina di casa brasiliana, nota per esibirsi spesso alle 6 del mattino, all’aperto, in una discutibile interpretazione di Like a Virgin, opta questa volta per una variazione sul tema “annaffiamento notturno del giardino con lite con il fidanzato”. E’ sufficiente per fortuna una mia comparsata alla finestra, tipo pontefice, ma con la faccia visibilmente più scura, per farli rientrare, in silenzio. Torno a scrivere.

Ore 02.12: Passaggio preoccupato nel corridoio, con occhio chiuso e voce intrisa di sonno, del mio amore. “Sei ancora lì?” “Lasciamo perdere. Ma ci sono quasi, eh!”. Biascica qualcosa di incomprensibile, poi si dirige di nuovo in camera. Che cosa diamine avevo scritto di questo negozio? Se solo avessero messo due informazioni invece di questa cartella stampa così risicata. O un’altra immagine. Incompetenti.

Ore 02.39: L’articolo è finito. Per la seconda volta. Le battute sono più di 9000. Poi l’avrò salvato almeno un centinaio di volte. Tranquillo, la situazione è tutta sotto controllo. Grande respiro di sollievo, posso andare a dormire.

Ore 02.44: In bagno mi tolgo i gioielli che in genere indosso, due catenine, tre bracciali, quattro anelli. Quello in argento al medio sinistro decide, proprio stanotte, di non venire via. Tento con l’acqua fredda, con il sapone, con una forza che di solito basterebbe a staccarmi di netto il dito. Niente da fare: l’anello non sale oltre la seconda falange. Pazienza, dormirà con me. Piombo finalmente sul letto.

Ore 03.56: Mi sveglio di soprassalto. Il dito con l’anello recalcitrante adesso è più gonfio e leggermente dolorante. Non sarà che la mano si è ingrossata perché ho scritto troppo? MA L’HO INVIATO IL PEZZO? NOOOO? Mi alzo di colpo, non trovo gli occhiali, inciampo in un paio di scarpe, raggiungo stordito il pc, lo riaccendo, controllo la posta elettronica. La casella dei messaggi inviati è vuota. Riesco a scrivere due righe deliranti al mio direttore, allego finalmente l’articolo, spedisco il tutto. Furioso, stanco, demoralizzato, ritorno a letto.

Ore 05.17: A svegliarmi stavolta è il forte dolore proveniente dal dito incriminato, che non riesco più minimamente a muovere o a piegare. Mi alzo sfinito per la seconda volta, vado in cucina, accendo la luce, al posto del medio mi sembra di avere qualcosa vagamente somigliante a un salsiciotto violaceo, con addosso un collare d’argento. Provo a ungerlo con l’olio (il sonno aguzza l’ingegno), fino a che, circa al ventesimo strattone tentato, tra urla soffocate e smorfie di sofferenza, riesco finalmente a sfilarmi l’anello. Torno un’altra volta in camera, deciso a  rimanere a letto, l’indomani, fino all’ora di pranzo.

Ore 07.02: Suona la sveglia del mio amore. Che in genere non sento. Ma proprio oggi? Ma perché poi quei due minuti in più dopo le 7? Bah.

Ore 08.22: Scopro che quella che credevo una professione ormai estinta, cioè l’arrotino, non lo è affatto. E nel peggiore dei modi, poi. Perché, forse uno degli ultimi rimasti in circolazione, si piazza, con tanto di registrazione autopromozionale diffusa a gran volume da un altoparlante, proprio sotto la mia finestra. Ok, mi alzerò. Niente riposo a oltranza. Il dito, almeno, si muove. Non che abbia pensato di salutare l’arrotino con un gestaccio (però, come se lo sarebbe meritato). Vabbè, rassegnato, comincio a prepararmi la colazione. Quasi quasi più tardi mi metto a scrivere anche qualcosa per il blog. Ho deciso che di mattina, d’ora in poi, mi riuscirà meglio.

If we took a holiday

Vi confesso che sto cominciando seriamente a preoccuparmi. Perché, per carità, costante e affidabile sarebbero forse gli aggettivi meno adatti alla frequenza con cui da un anno e mezzo, ormai, compaio su questo blog, fra la consueta insensatezza e la ridicolaggine che contraddistinguono la maggior parte dei miei stessi post. Però poi, in genere, era sufficiente una notizia, anche assurda, letta distrattamente sul web o sul giornale sbandierato dal vicino occasionale in bus, oppure un incontro casuale o un appuntamento concordato da tempo, di quelli a cui vai malvolentieri perché ne annusi la barbosità in anticipo, e che poi invece si rivelano, a sorpresa, piacevoli e scoppiettanti, ed ecco che la mia testolina già si attivava per selezionare e rielaborare tutte le informazioni, le frasi, i dettagli, che sarebbero serviti da cornice o addirittura da contenuto per il mio prossimo, irresistibile (non sempre), forse illogico (più spesso), racconto. Così, tra alti e bassi, per mesi, ricevendo inaspettati quanto graditi apprezzamenti, talvolta qualche critica, rimanendo spiazzato e orgogliosamente stupito dal numero di visitatori e di letture sempre in ascesa (soltanto lo scorso Marzo il nuovo record) sperando soprattutto di trasformare spunti e idee in qualcosa di leggibile, attraente, originale, tentando di curare, per quanto possibile, forma e sostanza di ogni intervento e finendo invece per fare letteralmente a pugni con l’italiano, lingua difficilissima da padroneggiare. D’un tratto, gli scorsi giorni, il black out. L’apatia, la svogliatezza, perfino la tentazione di mollare queste pagine, senza rimpianti, al vuoto candore del proprio destino, con il cervello che si fa impermeabile ai, pur esistenti, input esterni da cui poter trarre comunque ispirazione e neppure la minima, ragionevole o disperata, reazione. Blocco creativo? Bah. Ciclica crisi stagionale? Forse. Torpore misto a spossatezza, effetti di un ingiustificato e deleterio relax giunto di colpo dopo un inverno di affanni, impegni, speranze e tentennamenti, ecco la formula che più si avvicina all’intera questione. Insomma, con la testa chiaramente finita in panne, o in una modalità simile a una forzosa e anticipata vacanza, non rimaneva che fare una sola cosa: seguirla, ovunque fosse andata.

Poco lontano, per fortuna, nonostante l’esplicita voglia (per niente assecondata dalle finanze) di un viaggio nomade e rigenerante, meglio se dall’altro lato del pianeta, per il momento (ma solo per il momento) rimandato e sostituito da una più fattibile e altrettanta necessaria parentesi di puro relax in riva a quel mare dove sono nato e cresciuto. Così, rinviato il rinviabile, fuggito da responsabilità e scadenze, avvertite le (poche) persone che vedo e sento abitualmente, forse allarmate tutte le altre, lanciati a caso qualche straccio e tre libri in valigia, a poco più di due ore dalla mia repentina e salvifica decisione ero già in spiaggia. Dove tuttora vado trascorrendo gran parte dei miei pomeriggi: ridotte al minimo le interferenze tecnologiche, quasi inesistenti internet e cellulare, impiego invece molto più volentieri il mio tempo in lunghe e distensive passeggiate, leggendo, guardando stordito l’orizzonte o rabbrividendo al contatto con l’acqua gelata, regalando soprattutto alla mia mente quei preziosi e rarissimi attimi di totale e benefico nulla. Ed è stupendo: sottoposti gran parte dell’anno a ritmi sfiancanti e serrati, abituati a infarcire le nostre giornate di ogni sorta di impegni (lavoro, studio, hobby vari ed eventuali) per essere ed apparire operativi, produttivi, energici ventiquattro ore al giorno, giudichiamo peccato mortale o un assoluto e nocivo spreco di risorse abbandonarsi invece al normalissimo e comprensibile desiderio di una pausa, da tutto e da tutti. Senza mai pensare, al contrario, che il tempo che si sceglie consapevolmente di perdere non è mai davvero perso, ma assume piuttosto le sembianze di un insolito e apprezzato dono per la nostra anima. Dunque, fuori forma, fuori stagione, mi sono concesso un breve anticipo di estate, graziato dal clima che mi ha già arrostito le braccia e lasciato la prima impronta degli occhiali sul viso. Con la complicità degli amici: quelli di una vita, quelli che rivedi dopo mesi e ti sembra di aver salutato cinque minuti prima, quelli che potrebbero un domani ricattarti con le tue nefandezze, che conoscono bene, o con le tue terribili foto da adolescente. Quelli con cui puoi permetterti di ridere fino alle lacrime se ti raccontano le loro recenti disavventure sentimentali o professionali, senza mai il rischio di apparire insensibile ai loro occhi. Quelli sinceri fino al midollo, che hanno già rimpiazzato il loro “ma che ti è successo? Hai una faccia!” di questi primi giorni con un “certo che l’aria di mare ti fa proprio bene”. Ed hanno, al solito, perfettamente ragione.

Nonsoloblogger…

Non è una caratteristica particolarmente edificante, e farei di sicuro una figura migliore a non parlarne affatto. Ma dato che spesso sono già uscito allo scoperto qua sopra raccontandovi (gran parte de)i miei difetti, che il lunedì grigio e l’umore di una tonalità del tutto simile non mi sono di aiuto nella riuscita di un incipit come si deve, comincerò rivelando  onestamente quello che è il mio rapporto con la lettura. Un disastro. Per quanto non riuscirei a tollerare la mia esistenza se privata della scrittura, per quanto le parole rimarranno in eterno la mia passione e la mia dannazione, per quanto vada considerando da quasi 15 anni quello di fashion contributor (che detta così fa fighissimo, a dispetto di una ben più squallida realtà) per alcune redazioni, a volte anche prestigiose, il mio principale lavoro (e calerei un pietoso velo su tutti le altre professioni che nel tempo mi hanno permesso di pagare affitti e bollette), non sono e non potrò mai essere un buon lettore. E’ sempre stato così, sin dai tempi della scuola, da quando la mia prof di italiano al ginnasio (di nome Lolita, in contrasto con un’immagine e un’età tutt’altro che da ninfetta) mortificava le mie aspirazioni adolescenziali di scrittore schiaffando sistematicamente un’insufficienza ai miei temi e aggiungendo, con un pizzico di perfidia, “Ti prendi troppe libertà. Leggi di più, i classici soprattutto. Guarda lì come bisogna scrivere”. Ma, insofferente già da allora a certe imposizioni e incapace di appassionarmi a ciò che avvertivo come distante dalla mia realtà di sedicenne (e Manzoni o Carducci lo erano abbastanza), ho sempre finito per abbandonare, in genere dopo poche pagine, quei testi, seppur importantissimi (ci mancherebbe), consigliati a scuola, in favore di letture che Lolita non avrebbe mai approvato (le riviste di moda, ad esempio). Riassumendo, ancora oggi, pur riconoscendo il valore di un buon libro, di un pilastro della letteratura o di un semplice bestseller, impiego a volte perfino mesi a scovare un volume che riesca davvero a concludere, mentre rimango un consumatore avido di magazine e giornali, che conservo disseminati in pile sbilenche, sparse ovunque per casa, dal bagno alla dispensa, e che vado consolando da anni con frasi del tipo “non temete, vi troverò una sistemazione adeguata, è una promessa!”.

E’ stato proprio grazie a questa, forse insana, mania, che circa tre anni fa faccio la conoscenza di una nuova rubrica, pubblicata su di un noto settimanale (uno dei più noti, peraltro) tenuta da una giornalista che nasconde, nella foto, parte del volto dietro un notebook aperto e la sua identità dietro il buffo nickname di Elasti. Una folgorazione. Rimango subito colpito dall’ironia del suo stile, dal suo lessico accessibile eppure ricco, dalla particolare sensibilità che traspare in ogni sua singola parola. Devo saperne di più: indago, cerco in rete, scopro che Elasti (al secolo Claudia de Lillo) è da qualche tempo l’autrice di un blog seguitissimo, nonsolomamma (http://www.nonsolomamma.com/), in cui narra le prodezze quotidiane della sua vita rocambolesca divisa tra tre piccoli figli maschi, un marito economista marxista “pendolare” a Londra e un lavoro di giornalista finanziaria part – time. A quel punto credo di non aver fatto altro, per una decina di giorni, che rileggermi per intero il suo blog, dal principio, giorno e notte; come ho continuato a fare, da quel momento, ogni mattina. Perché non rientrerò esattamente nei canoni del suo pubblico (composto principalmente da donne e mamme), ma c’è qualcosa di così attraente nei suoi post, la capacità di dar voce a certi meccanismi umani universali innanzitutto, di descrivere con esattezza certi grovigli emotivi, di porre e di porsi con insolito coraggio certe domande, così piacevole inoltre, singolare, commovente, che attraversare il suo blog è un’altalena di sensazioni da consigliare a chiunque. Solo due giorni fa, finalmente, il nostro primo incontro di persona: dal suo account Twitter, in cui la seguo con l’assiduità dello stalker, scopro che Elasti sarà a Campi Bisenzio, vicino Firenze, per l’inaugurazione di un circolo ricreativo culturale, il Porto delle Storie, (http://www.portodellestorie.it/). Butto all’aria i programmi già fatti da tempo per il week-end, obbligo il mio amore a seguirmi cercando il posto dove è previsto il suo intervento e dove arriviamo con mezz’ora di anticipo (“perché con me sei sempre in ritardo?” mi chiede difatti la mia dolce metà). Elasti è già lì. Minuta, sorridente, gli occhi enormi pieni di riflessi come solo nei vecchi cartoni animati giapponesi tipo Candy Candy. Vinco le mie resistenze di ex – timido, le vado incontro, mi presento, la saluto, lei ricambia con il calore di una vecchia amica che non vedo da tempo. Parliamo fitto per alcuni minuti, delle nostre famiglie, di lavoro, dei nostri progetti, anche di quelli zompati per il week-end. Ogni sua frase conferma le qualità già dimostrate nel suo blog: quelle di una persona umile, spiritosa, di talento. Tutto ciò che ogni blogger vorrebbe e dovrebbe essere.