Così cominciava la primissima, e allora giudicata interminabile, filastrocca sui mesi, imparata non senza qualche difficoltà alle elementari e sfortunatamente mai più scacciata dalla testa, che la maestra Paola ci aveva insegnato a ripetere al ritmo della medesima cantilena sincopata con cui a scuola, qualche decennio fa, ti portavano ad interpretare un po’ tutto, dalla preghiera mattutina (ci toccava anche quella) alla tabellina del nove. “Vien Gennaio freddoloso, con la barba di ghiaccioli” e poi giù, tutto l’elenco serrato dei mesi a venire, a cui spesso ricorrevo mentalmente per ricordare la giusta collocazione di Aprile e Maggio durante l’anno, perché a 6 anni mi poteva capitare di invertirne l’ordine, così come di ignorare il significato di qualche aggettivo presente nella stessa poesiola, tipo “brullo”, indicato più avanti per descrivere Novembre, e che io all’epoca reputavo una sorta di insulto fantasioso, perché si avvicinava nel suono al mio toscano e già utilizzatissimo “grullo”. “Vien Gennaio freddoloso, con la barba di ghiaccioli” mi sorprendo ancora oggi a ripetere in silenzio, quando al mattino presto, appena alzato, per prima cosa mi affaccio per sbirciare il giardino sepolto da una coltre di scaglie biancastre, tra cui talvolta rinvengo le mie mollette per i panni, cadute dalla finestra, come fossero piccole meteoriti coperte da una corazza sottile di ghiaccio, o quando mi fermo a guardare compassionevole l’unica rosa gialla presente nel vialetto chiedendomi se troverà la forza di rifiorire anche quest’anno, quando mi scontro soprattutto con la mia solita inettitudine all’inverno e arrivo a contare esattamente i giorni che mi separano dalla tanto agognata estate (ad oggi 149). E’ inevitabilmente arrivato Gennaio anche quest’anno insomma, con il suo carico di aspettative bislacche e buoni propositi da stilare per poi accartocciare, con il primo appuntamento con cui in genere scandisco il tempo che passa, il compleanno di mia cugina (e coetanea) Francesca, che stavolta ho raggiunto nella sua nuova e labirintica casa nella campagna senese, tra camini accesi e vecchie stufe di ghisa, finendo naturalmente per ricordare durante il viaggio tutto il fantasticare sulle nostre vite fatto insieme in passato, quando da bambini spericolati e agilissimi sognavamo al contrario un futuro da ballerini, ginnasti o trapezisti, e ci sembrava davvero l’impresa più facile del mondo poterlo un domani realizzare. E’ giunto Gennaio, e del tutto indifferente all’umano e comprensibilissimo desiderio di cominciare l’anno nel migliore dei modi, ci ha sadicamente privato in maniera trasversale di alcuni artisti che hanno in qualche modo arricchito le nostre esistenze o forse, senza esagerare, l’umanità stessa, che può comunque ancora benissimo annoverare tra il suo patrimonio le superbe canzoni di David Bowie o i capolavori cinematografici di Ettore Scola, ci mancherebbe, ma la scomparsa dei loro autori ce li riveste adesso di una nuova e così triste luce. E con Gennaio ho dovuto salutare per sempre anche Marina, che non è di certo famosa come gli altri personaggi qui sopra citati, e forse non l’avrebbe mai neppure desiderato, perché spesso dimentichiamo quanto sia rara e straordinaria l’umiltà delle persone che scelgono invece di rimanere nell’ombra, con il solo e concreto scopo di alleggerire le vite altrui. “Vien Gennaio freddoloso, coi suoi undici figlioli. Che simpatica famiglia”, continuava la filastrocca, e a pensarci bene nei miei ricordi di allora non provavo nessun fastidio o stupore per questa frase riferita a una realtà forse atipica, un padre, nessuna madre, un numero esorbitante di figli, eppure né io né alcuno dei miei compagni si sarebbe mai sognato di mettere in discussione il valore di quella parola lì usata, “famiglia”, perché i bambini, dietro cui spesso ci barrichiamo o nascondiamo il nostro bigotto e ottuso integralismo, mostrano al contrario una naturale e disinvolta apertura mentale che tanti adulti (e politici?) dovrebbero forse prendere ad esempio. E proprio mentre in questi giorni il dibattito maggiore, anche pubblico per fortuna, riguarda appunto diritti e riconoscimenti delle famiglie, leggi necessarie e unioni civili, tutti passi rivoluzionari che mi auguro possano finalmente arrivare a breve, sorrido mentre mi trovo a credere che la migliore e più calzante definizione anche per gli stessi nuclei familiari sia proprio quella scovata nella filastrocca per descrivere i diversi mesi dell’anno: “nessuno si somiglia e a suo modo, ognuno, è bello”.
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Un anno meraviglioso?
“Da guardare” in realtà, come recita la categoria in cui vado ad inserire il presente post, l’ultimo in programma per questo, a tratti sfibrante, 2014, c’è ben poco, niente di più che un’immaginetta quasi dozzinale da utilizzare come semplice appiglio a ciò che avrete di sicuro già visto, forse sino alla nausea, ampiamente condiviso, a volte con reale ed incomprensibile entusiasmo, da decine di vostri amici di Facebook sulle proprie pagine del citato social. E cioè la schermata iniziale di quella stuzzicante e utilizzatissima funzione in grado di garantire a chiunque una veloce ripassatina virtuale dell’anno ormai agli sgoccioli, una rapida e disorganica narrazione per foto, ripescate tra quelle più cliccate o commentate ogni mese sul proprio diario, dei passati 365 giorni, una sorta di best of personale, inaspettato e, a quanto pare, gradito regalo, di cui la magnanimità miliardaria di Mark Zuckerberg ci ha da poco omaggiati a sorpresa. E poco importa se dopo quell’universale scritta “è stato un anno meraviglioso”, che inaugura indifferentemente il presunto viaggio elettrizzante nel 2014 di ciascuno, compare poi uno scatto impietoso del vostro ciambellone carbonizzato che a Febbraio avevate dimenticato in forno, rischiando di mandare a fuoco l’intera cucina, o il drammatico selfie del vostro faccino ricoperto da pustole rosse perché in preda a una devastante reazione allergica che vi ha spedito al pronto soccorso soltanto lo scorso Settembre. Al generatore automatico dei recenti momenti felici di Facebook non si può certamente richiedere buongusto, più cuore o un maggior tatto nel frugare tra le nostre migliaia di pessime foto che noi stessi abbiamo avuto il fegato di condividere, per vanità, leggerezza o errore, negli ultimi 12 mesi, con risultati più o meno riprovevoli. Perché, in sostanza, quella funzione è quanto di più lontano esista dalla nostra reale quotidianità: un banale e parziale condensato di vita appena trascorsa, riesumato per freddo volere di un algoritmo, che arriva a riproporre alcune immagini già pubblicate a seconda dei loro consensi ottenuti. Fine. Non c’è più alcun nostro criterio di valutazione, non essendoci naturalmente la nostra sensibilità chiamata a scegliere questo o quello scatto, soprattutto non c’è più la minima traccia di un concreto aggancio emozionale con il nostro vissuto, svanita com’è da un pezzo la ragione che ci aveva spinti allora ad azzardare una più vasta condivisione sul web: con la prevedibile conseguenza che quei brevi ma ormai inevitabili fotoracconti illustrati del 2014 di Facebook risultino alla fine, tra la generale insulsaggine dei disegnini colorati che li incorniciano, tutti così mediocremente simili gli uni agli altri.
So che quanto sto per scrivere sembrerà illogico, campato in aria, forse perfino di cattivo gusto, ma tra poche ore mi aspetta un funerale (tra l’altro sono quasi certo che la persona che andrò a salutare per l’ultima volta avrebbe apprezzato questa frase un po’ cinica, oltre al mio personalissimo modo di dedicarle un pensiero qua sopra): circostanza che quando piomba di colpo in pieno clima di feste sembra ancor più fuori luogo, come se il dolore fosse qualcosa di facilmente relegabile in momenti più opportuni o come se esistessero davvero periodi più o meno appropriati alle lacrime. Ebbene, è da qualche giorno che non faccio altro che ripercorrere nella testa gli ultimi miei ricordi legati alla persona in questione: niente di eclatante, solo frammenti di episodi qualunque che avrei abbandonato alla memoria se adesso non assumessero ben altro valore. Il fermarsi a raccogliere insieme delle conchiglie sulla riva mentre gli altri optavano per un estenuante giro in pedalò, un piccolo album di disegni, raffigurante soprattutto mani, mostrato con timore ed orgoglio di fronte ad un aperitivo, dei consigli su come utilizzare un cedro enorme ricevuto in regalo e rimasto ad ingiallire sotto i raggi di una finestra minuscola ma luminosissima. Situazioni ordinarie, vissute allora con distratta superficialità, che non avrei mai immaginato un giorno di dover affannarmi a proteggere dallo scorrere del tempo e che solo adesso si ripresentano ai miei occhi rivestiti di una nuova e speciale luce. Non avrebbero di certo ricevuto molti “like” se le avessi condivise al momento sulla mia pagina, difficilmente sarebbero comparse in un eventuale riassunto virtuale ad opera di un social, ma non si può certo negare il loro essere entrate di diritto tra i miei ricordi più importanti di questo anno ormai al termine. Ecco allora il mio personale augurio per l’imminente arrivo del 2015: provate nei prossimi mesi a prestare la necessaria attenzione per riconoscere chi o che cosa varrebbe davvero la pena di ricordare, e non solo qui, tra 365 giorni esatti. Che sia realmente per tutti voi un anno meraviglioso.
Una certa classe…
Da quando abbiamo scoperto, per caso, di abitare a poche curve di distanza sulla medesima stradina sconnessa che si addentra semisilenziosa in questa porzione di campagna toscana, nota soprattutto agli stranieri per essere una vecchia e pittoresca via di accesso alla ben più famosa zona del Chianti, e a qualche conoscente con buona memoria e un discutibile gusto per il macabro, per una triste e sanguinaria vicenda del mostro di Firenze (“non dirmi che non lo sapevi?” “certo che no!” “ma non ti sei informato prima?” “perché, tu quando cerchi casa, indaghi su eventuali omicidi avvenuti nei dintorni?”), io e Chiara tentiamo di rivederci almeno due, tre volte al mese. Sottolineo tentiamo, perché tra i suoi mille impegni di donna soggiogata dai ritmi di una vita densa e organizzatissima (lavoro, marito, figlio, scuola, palestra e ancora palestra…ma come fa?) e il suo carattere simpaticamente inquieto, è tutto un continuo fare e disfare programmi, anche quando sono ormai stabiliti da tempo, il più delle volte rivoluzionati da messaggi dell’ultimo minuto, tipo “e se invece di andare lì si andasse di là?”, a cui mi trovo spesso a rispondere, sbuffando, quando sono già al volante, in arrivo nel posto precedentemente concordato, sempre lontano dal “nuovo” chilometri e chilometri. Daniele invece vive da tempo a Milano, con una compagna di cui ricordo soprattutto il piacevolissimo sorriso e due piccoli figli maschi che purtroppo non ho mai visto, uno dei quali, a suo dire, piuttosto somigliante a lui, come mi confessa nel momento più tenero della nostra recente conversazione telefonica, in cui a poco poco riconosco finalmente l’accento tipico del nostro paese farsi spazio tra la musicalità meneghina di espressioni che ancora fatico ad abbinare alla sua voce. Anche Francesca, nonostante le sue vecchie e contrarie convinzioni in proposito, è diventata genitore, per la prima volta da poche settimane, di una magnifica e in apparenza tranquilla bambina di nome Bianca, che mi trovo ad ammirare, commosso e divertito, in alcune foto che lei stessa mi ha inviato e che ne mettono in risalto, da qualunque angolazione le si guardi, due splendide guance perfettamente circolari, diventate adesso di sicuro l’attrazione principale della sua raffinata casa con le pareti rosse, in cui qualche volta ho cenato con gusto quando ancora lavoravo a Roma.
Poi ci sono Anna e Silvia, entrambe incontrate casualmente nei giorni scorsi, per ironia della sorte proprio nello stesso punto, e che ho visto bene di sommergere subito con la mia affettuosa smania di saluti, causa di quei soliti, lunghi e strambi discorsi che spingono il mio amore, ormai rassegnato alla mia vacua e inarginabile parlantina, a piantarmi lì, con una scusa, in mezzo alla via, per venirmi a recuperare solo molto tempo dopo (e difatti io ero ancora lì a chiacchierare). C’è Guido, che sono riuscito a riconoscere nonostante fosse di spalle, con su addosso divisa e cappello da vigile urbano, e che ho tentato di distrarre con un potente colpo di clacson che ha fatto sobbalzare un’intera piazza (tranne lui) e c’è Sara, che ha invece deciso di ridurre al minimo la sua presenza su Facebook, e così mi tocca vincere la mia nota pigrizia e chiamarla di persona per comunicarle ogni volta, per prima, come faccio da anni, le novità principali della mia vita professionale. E poi ci sono gli altri, tanti altri, che vedo o sento più raramente, alcuni dei quali a dire il vero, forse non riconoscerei più o che forse (più probabile) non riuscirebbero a riconoscere me. Qualcuno che ho perduto chissà dove, qualcuno la cui complicità si è andata affievolendo col tempo, ma la cui importanza nella condivisone degli anni lontani della scuola rimane insostituibile: gli anni in cui ogni sentimento prende corpo come un’emozione gigantesca e devastante, in cui i timori sono rumori assordanti e amplificati, le paure si mischiano indissolubilmente alle aspettative, le ambizioni si fanno smisurate almeno quanto le delusioni. Ma resta la consapevolezza che essere stati una classe, al di là dei suggerimenti e dei compiti copiati, significasse soprattutto spalleggiarsi dentro, tra i banchi, per tentare di affrontare la vita fuori, quando di vita, in realtà, non ne sapevamo ancora abbastanza. E anche adesso che, in qualche caso, conosciamo poco o nulla delle nostre reciproche esistenze, della nostra diversissima e adulta quotidianità, succede che quando ci ritroviamo, siano davvero tanti i sorrisi e la soddisfazione, perché anche se le nostre strade ingarbugliate ci hanno condotto in posti lontani da quelli che avevamo un tempo immaginato, alla fine ci piace riconoscere che sì, forse, siamo stati anche capaci di combinare qualcosa di buono.
Sarà la nostalgia…
Sarà che l’estate vola via. E dai, non facciamo tanto i precisini, lo so anch’io che tecnicamente la bella stagione prenderà l’avvio solo domani, e stare a disquisire adesso sulla rapidità del suo passaggio, dopo mesi di attese, burrasche e tentennamenti meteorologici, soprattutto a poche ore dal suo sospirato inizio, sarebbe, a dir poco, inopportuno. Era soltanto per prolungare nell’incipit la citazione canora presa in prestito per il titolo. Ah, no, di quale brano si tratti di preciso non ne ho proprio idea. Sarà sicuramente una di quelle vecchie canzoni melodiche nostrane, le cui rime baciate cuore-amore mare-nuotare-pescare rimangono da sempre incollate come francobolli alla memoria a dispetto della tua ostinata volontà di sbarazzartene. Sarà che ad ogni benedetto Giugno sento l’anima soffrire e scalpitare sotto il peso dell’afa cittadina, per supplicarmi in ginocchio di fuggire, il prima possibile, nella selvaggia solitudine di qualche lido sperduto, di quelli zeppi di tronchi ricurvi e biancastri finiti chissà come sulla riva, accarezzati dalla freschezza delle onde, la stessa che sembra rigenerare anche te non appena arrivi a sfiorarla con i piedi. Sarà che invece per il momento non mi è sembrato abbastanza regalarmi un fugace week-end all’isola del Giglio, dove, tra l’altro, provato da un decennio di nullafacenza sportiva e dall’età, quella vera, che difficilmente confesso, mi sono sentito in buona compagnia alla vista un relitto (e se vi sembra di cattivo gusto una battuta sulla tragedia della Concordia, dovreste vedere i centinaia di babbei che ancora fremono sin dall’arrivo in porto per immortalarsi in un selfie con la nave naufragata). Sarà che implacabile, sulla bilancia, è comparsa esattamente quella cifra reputata un tempo irraggiungibile, stabilita come limite teorico oltre il quale avrei ripreso a prendermi cura del mio fisico in prolungato stato di abbandono, e fedele alla promessa a me stesso (accidenti alla coerenza) ho sfidato pigrizia e pubblica ridicolaggine per provare a correre di nuovo, ogni giorno, anche solo per pochi minuti, sufficienti però per farmi sentire a posto con la coscienza e, più spesso, a un passo dalla morte. Sarà che mi rendo conto da solo di avere un’inguaribile tendenza all’esagerazione, in tutto, e so benissimo che il mio nuovo peso potrebbe rientrare tranquillamente nei canoni di una buona forma di un uomo adulto di 1.75 m di altezza, eppure continuo a pensare che ritrovarsi nei panni di Giuliano Ferrara a questo punto sia un attimo (Apro bislacca parentesi sull’altezza. Sì, sono 1.75 m, secchi. Non cominciamo con quel “no, ma via, sarai di più, almeno 1.80″. No. Non vedo la necessità di barare sull’altezza, io. No, perché più di una volta mi sono ritrovato in discussioni del tipo “Ma non è possibile, sarai più alto. Ma se sono io 1.68 m, ce l’ho scritto anche sulla carta d’identità”. Già, come se l’impiegato comunale dell’anagrafe fosse stato lì a misurarvi davvero centimetro per centimetro, o come se non vi foste appositamente presentati quel giorno col tacco 12 o in punta dei piedi). Sarà che in questi giorni è un gran parlare dappertutto di esami di maturità, e nonostante dal mio siano trascorsi quasi due decenni (e della tanto decantata “maturità” in questa vita, neanche una pallida ombra), stuzzicato nei ricordi della mia adolescenza irrequieta e spensierata, ho trascorso ore al telefono con quei vecchi compagni di scuola con cui sono ancora in contatto, a sostituire i nostri vecchi e infinti arrovellamenti su interrogazioni e compiti da copiare con il progetto concreto di una cena tutti insieme, con le ultime novità su bebé in arrivo, crisi professionali e complicazioni sentimentali. Sarà che ho sempre evitato con attenzione di comparire sui social o di farmi taggare in quelle tristi foto ingiallite risalenti alla mia infanzia, eppure quando la mia storica e preziosissima amica Loredana ha ritrovato e pubblicato quella che vedete qui, datata (ahimé) 1979, che avevo visto una sola volta, alle medie, ho rischiato sul serio di commuovermi. Sarà che trovo così teneramente buffo il mio aspetto di allora, i capelli con la frangia sbilenca che mi facevano tagliare da mia zia (perchè poi?), le orecchie grandi e a sventola (no, non le ho rifatte, nel caso vi fosse venuto il legittimo dubbio, sono andate a posto da se’. Il destro però è rimasto più grande e sporgente), quell’aria fuori luogo da bambino pseudo-iracheno ritratto in mezzo a una famiglia norvegese, tutti più o meno biondi, quasi tutti sorridenti, tranne me. Forse sarà quel medesimo e mai sedato senso di inadeguatezza, di spaesamento, di perfettibilità che, beffardo e puntuale, provo anche oggi. O forse, davvero, sarà solo un po’ di nostalgia.
Era il 2013…
▶ Daft Punk – Get Lucky (Official Audio) ft. Pharrell Williams – YouTube.
A differenza del Natale, che ogni anno mi piomba addosso come un meteorite, lasciandomi stordito nonché arricchito di qualche regalo riciclato, chilo o herpes labiale di troppo, nutro per il Capodanno, per il suo eccitante e febbrile clima di attesa, condito di programmi incerti, countdown per il brindisi, auguri urlati e fuochi d’artificio, un’adorazione sconfinata. Tanto per fare della psicologia spicciola, credo che ciò sia dovuto soprattutto all’ansia di mettere da qualche parte un punto per chiudere un vecchio capitolo e cominciarne finalmente uno nuovo, di riuscire a guardare al futuro come sede di altre e più brillanti opportunità, di lasciarsi alle spalle passi falsi e intoppi che hanno caratterizzato il cammino appena compiuto, fiduciosi che la strada d’ora in poi sarà più sgombra o agevole. Il nuovo anno alle porte trascina immancabilmente con sé l’attesa per giorni e occasioni memorabili, ci riveste dell’illusione che difficoltà e ostacoli siano ormai acqua passata, ci coccola, per qualche giorno, con quell’inspiegabile certezza di poter fare spazio nella nostra vita a milioni di nuovi progetti, anche i più assurdi o complicati (ad esempio la dieta), sicuri che tutto sia realizzabile. Quando poi, diciamocelo, basta lasciar trascorrere la prima settimana di Gennaio per renderci conto che nulla in realtà è così cambiato, che i buoni propositi sono solo parole da inserire in liste già stracciate, che la nostra vita, imperfetta ma tutto sommato accettabile, è esattamente la stessa dell’anno precedente. Non preoccupatevi, avete davanti 365 giorni per deprimervi a dovere, e se fra oggi e domani, ma facciamo anche fin verso il 4 o il 5 del mese prossimo, siete invasi come me da un insensato delirio di onnipotenza e dalla frenesia di poter rivoluzionare tutta la vostra esistenza, godeteveli, non è mai detto che stavolta non portino i loro frutti. Detto questo, per siglare al meglio sul blog (oddio, spero) l’anno che sta per lasciarci ho pensato bene di riproporvi una formula che in un vecchio post aveva riscosso un enorme e inaspettato successo, e che adesso si ripresenta più adatta che mai a ripercorrere in parte il nostro 2013 insieme: un bel test (quanto vi ho fatto felici, eh?). Approfittando di queste ultime righe per farvi intanto i miei migliori auguri di un 2014 più sereno che mai, con la speranza di ritrovarvi tutti di nuovo qui l’anno prossimo, anche di più (e non preoccupatevi per un’eventuale nuova sparizione del blogger, sarei in vacanza anch’io).
Test: Conosci il 2013?
1) Qual è, secondo la rivista Rolling Stones, la migliore canzone dell’anno che sta per finire (video allegato)? A) Get Lucky dei Daft Punk B) Guarda che c’è scritto all’inizio del post C) Non so/non ricordo/mi fa fatica scorrere la pagina
2) A Febbraio si tengono in Italia le elezioni politiche. Qual è la parola che ricorre più spesso per definire il drammatico risultato: A) Ingovernabilità B) Mapporcatroia C) Non so/non ricordo/ forse Silvio
3) A Marzo viene eletto il nuovo papa Francesco. Quanto era durato però il pontificato del suo predecessore Benedetto XVI (ancora in vita)? A) 8 anni B) Benedetto chi? C) Non so/non ricordo/ma non si chiamava Wojtyla?
4) A Maggio il calciatore David Beckham annuncia il suo ritiro. Come si chiamano i suoi 4 figli avuti dalla ex – Spice Girl Victoria Adams? A) Harper, Brooklyn, Romeo, Cruz B) Mel C., Mel B., Emma, Geri C) Non so/non ricordo/ H&M?
5) A Novembre New York elegge il suo nuovo sindaco di origini italiane. Chi è? A) Bill De Blasio B) Quello con il figlio dalla cesta immensa di capelli C) Non so/non ricordo/ John Frusciante?
Com’è andata? Avete indovinato qualcosa? Non vi aspettavate mica di trovare pure la descrizione di un profilo serio dopo la sconclusionatezza di un test del genere, vero? Ancora auguri.