Alla terza segnalazione che mi giunge sull’argomento in meno di 48 ore, credo sia arrivato il momento di affrontarlo. Anche perché la vicenda, curiosa forse, se vogliamo surreale, per alcuni versi perfino ridicola, innesca in realtà tutt’una serie di riflessioni che possono scaturire appena si sfiora la delicata questione dei prezzi (esagerati?) di un capo firmato in confronto al suo effettivo valore commerciale. E, altra importantissima ragione, perché a richiedere esplicitamente il mio parere al riguardo sono due fra i più affezionati lettori di questo blog (circa la metà del totale, quindi) a cui si è aggiunta oggi stesso mia madre in una delle sue scoppiettanti telefonate mattutine, di quelle che riesco a malapena a fronteggiare replicando con suoni gutturali del tipo “mmmmh mmmmmh”, l’unica risposta che sono in grado di fornire (non solo a mammà) quando la mia voce ancora fatica a svegliarsi. Ma per rispetto all’autorità genitoriale (e perché, in fondo, mamma va pubblicizzando questo blog ovunque, con quella tenera fierezza, tipica di ciascun genitore di fronte all’inutilità dei progetti dei propri figli) e all’assiduità delle vostre e.mail, intrise della piacevole illusione che qualcuno sulla faccia della terra tenga davvero in considerazione i miei vaneggiamenti online, vi chiarirò finalmente la mia tanto attesa opinione. Non senza aver prima precisato un punto: non appartengo alla categoria dei fashion – victim, di quelli cioè che difendono a spada tratta la moda perché soggetti all’idolatria del marchio, degli abiti firmati, della griffe a tutti i costi. Possiedo sei paia di scarpe, tre per stagione, non ho mai speso più di 30 euro per dei jeans, e spesso utilizzo capi di seconda mano, dismessi da amici e parenti, anche se di una taglia diversa dalla mia. Questo per sottolineare che la mia nota passione per la moda nasce dal considerarla soprattutto un affascinante e singolare linguaggio, un insieme di segni di cui ciascuno si appropria, come crede, per comunicare qualcosa di se’, che vada al di là delle parole stesse. Una puntualizzazione necessaria, perché forse nelle righe che troverete qui di seguito affioreranno considerazioni diverse da quelle lette altrove, rispetto alla vicenda in questione, che non vorrei mai venissero attribuite a un mio eventuale, totale e acritico, asservimento alle leggi del fashion – system.
Vicenda che a questo punto conviene riassumere: riportata per la prima volta qualche giorno fa dal tabolid inglese Daily Mail (http://www.dailymail.co.uk/femail/article-2412137/Woman-sues-Prada-unable-remove-stain-971-silk-skirt.html) e quindi ripresa anche da autorevoli testate nazionali (http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/12/prada-macchia-che-ci-riporta-alla-realta/709334/) si tratta dell’assurda storia di Catherine Whitty, fisioterapista 40enne australiana, che, dopo l’acquisto di una gonna di Prada da indossare ad un party, alla non modica cifra di 1600 dollari (circa 1150 euro), ha chiesto il risarcimento totale della stessa, accordatogli dal giudice, dal momento che il costoso capo, durante l’occasione mondana per cui era stato scelto, si era indelebilmente macchiato di champagne. A motivare la decisione del giudice la valutazione del valore oggettivo della creazione, che tra qualità del tessuto (a occhio e croce un taffetas, ma stabilirlo dalla foto è difficilissimo) taglio e confezione, seppur pregevoli, raggiungeva una cifra notevolmente inferiore al prezzo di acquisto. E di qui il moltiplicarsi delle accuse al sistema moda in toto, colpevole, anche a detta dei nostri giornalisti, di vendere l’illusorietà di oggetti esclusivi e staordinari che poi si rivelano per quel che sono, cioè abiti, fatti di stoffa, che quindi si macchiano. Ma pensa. Ok, mettiamo un po’ di ordine. Primo: sostenere che una gonna, per il solo fatto di averla pagata cara, sia automaticamente esentata dalla possibilità di macchiarsi, lacerarsi, rovinarsi è come voler affermare che il Titanic non sarebbe mai potuto affondare (e invece sappiamo tutti la fine che ha fatto). Secondo: la signora avrebbe potuto acquistare un capo nuovo ovunque, dal mercatino sotto casa ai grandi magazzini di cui anche l’Australia sarà piena: ma ha scelto una griffe internazionale, pagando, oltre al prezzo della qualità stessa del capo, la possibilità di essere additata al party come una donna dai gusti raffinati, aggiornata in fatto di moda, di una certa estrazione sociale e di un certo censo (perché non è che siano abiti per tutte le tasche), attributi in più che derivano solo dall’indossare una creazione firmata. Eccolo il valore, soggettivo ma condiviso al momento dell’acquisto dalla sbadata fisioterapista, della famigerata gonna: che non risiede esclusivamente nella materia prima, della stoffa appunto, che si può macchiare di champagne, ci mancherebbe, ma da una serie di altre prerogative che gli abiti di una grande firma del settore trascinano con se’. Che avrebbe a questo punto il solo dovere di specificare nell’etichetta “Attenzione: è pur sempre una gonna. Si può danneggiare!”