Non ricordo il momento esatto di quella drastica e, speravo, salvifica decisione, ma non escludo che possa essere avvenuto in treno. A pensarci bene la colpa è forse proprio di quegli ultimi due faticosissimi anni vissuti da pendolare, la sveglia da sintonizzare ogni sera a ridosso dell’alba, le corse forsennate al mattino per raggiungere quanto prima la stazione, il sonno ancora così insistente sulle palpebre mischiato al timore quotidiano di perdere il convoglio in partenza. E poi tutto il tempo trascorso inutilmente lungo i binari, al riparo dal vento, maledicendo i continui e sfiancanti ritardi, e ancora quello speso invece sui vagoni ad osservare l’umanità variegata e stanca toccata dalla stessa, poco invidiabile sorte, a rimuginare soprattutto, nelle tre ore giornaliere di viaggio, sull’andazzo scriteriato e poco gratificante che la mia esistenza aveva allora irrimediabilmente assunto. Abitavo, o meglio, vivacchiavo in una città e lavoravo in un’altra, vittima io, come molti altri, di quegli spericolati equilibrismi con cui tentiamo, alla meno peggio, di tenere ugualmente in piedi vita sentimentale e professionale, penalizzando in molti casi l’una e annaspando nell’altra, perennemente in cerca dell’entusiasmo necessario alle nostre giornate, smarrito tra la confusione di una testa sempre altrove, indaffarata al contrario a pianificare, recuperare, centellinare ogni attimo di una realtà così serrata. Semplicemente, ad un certo punto, non ho più retto. E mi sono allora illuso di poter individuare il colpevole di tanto insopportabile sfinimento al di fuori di me, in quel mostro vorticoso e fagocitante di energia che è la città con i suoi meccanismi astrusi, la sua umanità distante, la sua labirintica e spersonalizzante facciata, giudicata schiacciante per le mie forze modeste. Prova a fare un passo indietro perciò, mi dissi, guarda bene a fondo ciò che davvero sei e da dove vieni, alla fine sei rimasto quel ragazzotto (?) di provincia che non si affrancherà mai dal costante senso di inadeguatezza che ti suscita ogni volta il dover fare i conti con la frenesia della vita metropolitana. Sei cresciuto scorazzando nei vicoli di un piccolo centro che gli anni, la nostalgia e la lontananza hanno a poco a poco mutato in un posto avvertito come meno soffocante di un tempo, in cui tutti gli altri conoscono in parte la tua storia o almeno il tuo nome, in cui il tuo disperato bisogno di radici e di sentirti totalmente a casa non è stato mai altrettanto appagato altrove. La possibile soluzione, credevo, poteva essere liberarsi con urgenza dalla mia movimentata quotidianità, divenuta fin troppo rocambolesca, per abbracciarne un’altra che fosse innanzitutto più ridotta, stabile, accogliente.
Ed è la ragione per cui, quattro anni fa oramai, sono approdato in questo minuscolo, ruvido e disorganizzato paesino, che la gioventù locale, per comodità o forse per donargli una sfumatura di figaggine in più, piuttosto assente a dire il vero da queste parti, è solita indicare con tre lettere lapidarie, Tav, nome che sembra evocare più un cantiere a cielo aperto che una ridente e vivibile cittadina al confine con l’aperta campagna. Un cantiere apparentemente interminabile, in realtà, di quelli seguiti, sin dalle prime ore del mattino, da stuoli di pensionati che commentano immobili da dietro le transenne, con le mani intrecciate sulla schiena, c’è anche qui, giustificato da un progetto di riqualificazione di una (o meglio, dell’unica) piazza, che ha di fatto smantellato la sede dell’antica stazione dismessa, per fare spazio ad un’enorme e grigia tettoia, per adesso paragonabile a un gigantesco distributore di benzina, così fuori scala poi rispetto all’altezza contenuta delle altre palazzine circostanti. Un centro né particolarmente gradevole né memorabile dal punto di vista estetico, in cui sono rimasto imbrigliato, secondo quella prevedibile logica che governa ogni piccolo paese, nell’etichetta con cui si tende a identificare ciascuno degli abitanti, nel mio caso quella del tizio con l’accento diverso, il “forestiero”. Lo sono per l’edicolante da cui vado a ritirare, ogni sabato mattina, le riviste che mi ha messo da parte durante la settimana e che mi porge sbuffando il solito buongiorno annoiato, lo sono per Marco, il gentile e stralunato proprietario della sola ma fornitissima cartoleria, lo sono per la farmacista petulante, dalle riconoscibili origini partenopee, che tenta sempre di rifilarmi qualche costoso prodotto di bellezza (“Lo vuole provare questo siero per il contorno occhi?” “E’ un modo carino per farmi notare che ho le zampe di gallina?” “Certo che no, è solo una promozione. Preferisce forse una crema snellente per l’addome?”). Fino a ieri, appunto, quando la monotonia imperante in questo posto, in cui l’episodio più eccitante è rappresentato ogni anno da quei tre, quattro turisti stranieri che si spingono fin qui, per sbaglio, nel tentativo di raggiungere a piedi la vicina zona del Chianti, è stata scossa, è proprio il caso di dirlo, da un terremoto di media – lieve entità avvenuto nella notte ed avvertito un po’ ovunque nei dintorni, finito il giorno seguente per diventare il fatto più commentato sulla bocca di chiunque.
“Io un me la son sentita di rimanere in casa, con la Piera la siam scesi in macchina e abbiam dormito lì” esordisce il signore in coda davanti a me in lavanderia, dove sono passato per ritirare la trapunta color glicine che ho sottratto poco tempo fa da camera dei miei, perché l’ho trovata perfetta in abbinamento alle mie lenzuola verdi. “L’era tutt’uno sbatacchiare i’ letto, tu sentissi, anch’io l’ho passato tutta la notte a giro, icché tu credi? e c’eran tutti!” controbatte la signora dall’altro lato del bancone, dotata di una pettinatura così ardita come solo quelle della compianta Rita Levi Montalcini “le bambine poi, l’hanno avuto una paura, porine, un l’avevan mai sentito” aggiunge poi una terza, più giovane e squillante voce, che sembra giungere dal locale posteriore “i’ mi’ nonno poi m’ha sempre detto che il terremoto quello brutto del 1909 l’è stato proprio qui, eh!” (“ecco, pure zona sisimica”, penso io “un altro posto dove venire a vivere proprio non c’era, no?”). “E lei?” mi fa d’un tratto il primo signore menzionato “l’ha sentita che botta stanotte? Dove l’è andato?” “Ecco, ehm, io, veramente…sono rimasto a casa perché…no, via, non ho sentito niente….dormivo!”. Scende di colpo silenzio. La signora più giovane si affaccia perfino dall’altra stanza per guardarmi in faccia. “Ah, e già che c’è dovrei ritirare la trapunta, quella color glicine…quella lì, sì, grazie!”. Me la porge. Nessuno ha più detto una parola. Credo che d’ora in avanti, qui si ricorderanno di me per altri motivi: il forestiero che in caso di terremoto toccherà andare a controllare se stia bene, lì tra le macerie, magari avvolto nella sua trapunta…ma di che diamine di colore è poi?