Creazioni di (buon)gusto…

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Che l’amore per il cibo e i piaceri della tavola si siano imposti, negli ultimi tempi, come la più ricorrente, contraddittoria e inflazionata passione/ossessione di questo millennio, pare ormai un’assoluta certezza. Impossibile difatti incappare in un solo canale televisivo, magazine o spazio social che non abbia pensato di scomodare il parere autorevole di qualche chef stellato o il consiglio per la spesa della prima conduttrice improvvisatasi un’esperta del settore, per dar luogo ad una rubrica, un contest, una cucina reale o virtuale in cui poter fare sfoggio delle proprie abilità amatoriali o professionali ai fornelli o della propria, oggi quasi indispensabile, approfondita cultura in materia di piatti e alimenti. Curato e spettacolarizzato allo stremo il suo lato estetico, previa necessaria presentazione scenografica da immortalare e condividere sul web ogni istante, ridotto spesso ad un voyeuristico piacere per gli occhi più che per il palato o per lo spirito, il mondo della tavola e la sua conseguente, spasmodica, dedizione si sono trasformati in una nostra priorità quotidiana quasi quanto lo stesso bisogno di mangiare, soprattutto nell’anno della discussa Expo milanese incentrata proprio sul tema dell’alimentazione. Che il linguaggio della moda abbia invece da sempre, ed è il caso di dirlo, “nutrito” un rapporto più sottile e complesso con il variegato universo del cibo, a cui ha molte volte guardato per attingere forma e ispirazione in maniera irriverente o al contrario evocativa – basti pensare alle note gorgiere seicentesche correttamente definibili “lattughe” o alle maniche “a prosciutto” degli abiti femminili di fine ’800 – è un aspetto non così scontato, senza dubbio più intrigante, più che mai attuale ed oggi finalmente indagato nella singolare quanto incantevole mostra L’eleganza del cibo. Tales about food and fashion (foto allegata), inaugurata soltanto lo scorso 18 Maggio presso i Mercati di Traiano a Roma. Oltre 160 prestigiose creazioni databili dagli anni ’50 fino ai giorni nostri, fra abiti raffinatissimi e divertenti accessori provenienti da diverse fondazioni, collezioni private, archivi di maison storiche, che rimaranno visibili al pubblico fino al 1 Novembre, tutte riunite dai curatori dell’esposizione Bonizza Giordani Aragno e Stefano Dominella sotto il comune denominatore di un continuo e stuzzicante dialogo sul cibo, in un gioco di rimandi e citazioni imperniato spesso sull’ironia o sulla sperimentazione materica. Si va dai grandi protagonisti del prêt – à – portér italiano (Krizia, Gianfranco Ferré, Antonio Marras, Romeo Gigli) in un vortice di stampe, moduli decorativi, soluzioni grafiche o tessili ispirate agli alimenti più vari, alle spiazzanti e coloratissime trovate che arricchiscono i capi firmati Enrico Coveri, Moschino, Agatha Ruiz della Prada, fino ad ardite invenzioni come il completo di Gattinoni ornato con spighe di grano e biscotti veri o il suggestivo abito del giovane Tiziano Guardini interamente realizzato con radici di liquirizia intrecciate. E poi ancora nomi celebri come Giorgio Armani, Emilio Pucci, Etro, Jacques Fath, Ken Scott, Laura Biagiotti e le loro calibrate ed originali interpretazioni sullo stesso tema: una mostra davvero unica, consigliabile soprattutto a chi pensando al binomio moda e cibo riesca soltanto a ricordare quell’abito di carne rossa indossato da Lady Gaga.

Pura eleganza!

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Contrasti e paradossi sono il vero motore stilistico della moda, il terreno alle base di tutte le trasformazioni più radicali nel gusto, la sola chiave di lettura per comprendere ogni principale rivoluzione estetica in materia di abbigliamento. Solo nel corso del secolo scorso, ad esempio, i creatori annoverati tra le maggiori personalità che hanno contribuito, con la loro visione innovativa, a modificare i canoni di un ideale di femminilità in perenne mutazione, nel ridefinire sul piano dello stile il concetto stesso di donna, hanno attinto a piene mani, in maniera apparentemente assurda, proprio dalla moda maschile. Coco Chanel nel suo processo di semplificazione formale degli abiti femminili traeva continua ispirazione dalla più elementare struttura dei capi ideati per gli uomini, a Yves Saint Laurent si deve invece il merito di aver reso lo smoking, il completo simbolo dell’eleganza maschile, un richiamo di assoluta sensualità per le donne. Per non parlare dei tailleur e delle giacche di Giorgio Armani, superbi esempi di rigorosa raffinatezza e cross – road tra generi, o della camicia bianca, classico passepartout onnipresente nel guardaroba di ogni uomo, divenuta tra le mani di Gianfranco Ferré un pretesto per dar luogo, in ogni sua collezione, ad un immaginifico processo di reinvenzione della silhouette femminile. Ad omaggiare e a rendere giustizia al formidabile contributo dell’architetto della moda, scomparso nel 2007, e alle sue geniali creazioni, che l’hanno distinto nel panorama contemporaneo e non solo, della couture, è oggi una mostra, “La camicia bianca secondo me”, inaugurata lo scorso 1 Febbraio al Museo del Tessuto di Prato (http://www.museodeltessuto.it/il-percorso-espositivo/esposizioni-temporanee/la-camicia-bianca-secondo-me-gianfranco-ferre, fino al prossimo 15 Giugno) voluta e organizzata con il supporto della stessa Fondazione Gianfranco Ferré. Ventisette strabilianti e fantasiose interpretazioni della camicia bianca, ideate nei suoi quasi trent’anni di attività, in cui la semplicità di struttura di partenza del capo viene ogni volta rifuggita e messa in discussione, in un processo creativo teso a dilatarne o riscriverne componenti e dettagli (polsini, collo, maniche) in un’arditezza di forme e volumi difficile anche solo da poter immaginare. Perché le creazioni di Ferré sono un’esplosione di creatività, sono meduse, nuvole, geyser, sono architetture rampicanti che si appropriano dei corpi per ridisegnarne la fisicità nello spazio, sono pezzi scultorei che mescolano riferimenti storici, epoche e stili, facendoli convivere in un insieme di straordinario ed insolito equilibrio. Così come chiariscono anche i numerosi bozzetti originali, gli scatti delle riviste patinate e le proiezioni delle sfilate che fanno da contraltare all’intera esposizione, tra cui si distinguono le immagini del direttore artistico Luca Stoppini (foto), che nel loro singolare effetto a raggi x forniscono un diverso piano di lettura strutturale e un punto di vista totalmente inedito sulle stesse camicie in mostra. E per quanto si possa rimaner amareggiati dalla notizia, diffusa quasi in concomitanza con l’inizio dell’esposizione, della definitiva chiusura della stessa maison Gianfranco Ferré (http://www.iltempo.it/cronache/2014/03/02/il-marchio-ferre-chiude-i-battenti-1.1225205) poter ammirare nuovamente le sue idee in tutta la loro energica potenza significa anche prendere consapevolezza di come una simile genialità sia impossibile da rimpiazzare.

Ma si’ nato in Italy!

Krizia

Per anni si è parlato di lei come di una delle poche donne in grado di tenere testa, in quanto a talento e successo, all’apparente strapotere dei suoi colleghi maschi, in un periodo in cui, agli albori del prêt – à – portér, il mestiere di stilista sembrava quasi esclusivo appannaggio degli uomini. Per lungo tempo è stata considerata tra le personalità più colte, lungimiranti e innovative dell’intero settore della moda, lei che tra i primi, insieme a Missoni e a Walter Albini, decise di eleggere Milano, all’epoca nascente realtà industriale italiana, come vetrina ideale per la presentazione e la produzione delle sue collezioni, voltando così definitivamente le spalle a Firenze. Da un paio di giorni invece il nome di Krizia, o meglio, quell’ingegnoso pseudonimo, scovato in un dialogo di Platone sulle vanità, dietro cui si cela da sempre l’identità e l’intenso lavoro di Mariuccia Mandelli, 60 anni di attività nel fashion – system, un impero da circa 200 milioni di euro l’anno e centinaia di punti vendita sparsi nel mondo, dalle Antille all’estremo Oriente, ha tenuto di nuovo banco su tutti i giornali, non tanto per la coincidenza con le note settimane della moda, quanto perché si tratta (purtroppo?) dell’ultimo, eclatante caso di una prestigiosa griffe nazionale finita in mano di una qualche holding straniera (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2014/02/24/Krizia-passa-cinesi_10138742.html). Ritrovandosi ad ingrossare così le fila, insieme ad altri storici marchi italiani come Gucci, Valentino, Bulgari, Fendi, Emilio Pucci, delle maison del lusso passate sotto il parziale o totale controllo di società estere, in grado di rivitalizzarne quotazioni in borsa e capitale, ma che, forse, in nome del profitto, ne mortificano la storia o ne sacrificano, inevitabilmente, l’identità. Considerato soprattutto che nel caso di Krizia, brand che in anni recenti riusciva ancora a distinguersi per scelte all’avanguardia – come la prima trasmissione di una sfilata in streaming sul proprio sito o l’apprezzata collaborazione con giovani designer come Alber Elbaz, Giambattista Valli, Gianluca Capannolo e Fulvio Ruggiero – non si tratta di una cessione o di un passaggio ad uno storico gruppo francese, che, almeno, in fatto di moda potrebbe vantare un’altrettanto rinomata tradizione, ma all’azienda cinese Shenzen Marisfrolg Fashion, di proprietà della fondatrice, Zhu ChonYu, che si troverebbe dunque a ricoprire il doppio ruolo di presidente e direttore creativo. Per capire davvero con quali risultati occorrerà attendere ancora un anno, quando verrà finalmente presentata la prima collezione Krizia di nuova ideazione, quella per l’autunno/inverno 2016, che ci auguriamo non stravolga del tutto la fantasia e l’arditezza tipica delle note creazioni del marchio. Alcune delle quali, come i celebri capi dai tessuti metalizzati ispirati allo skyline di New York o le copiatissime maglie raffiguranti creature feline esotiche e dirompenti come in una tela di Ligabue, pare siano state selezionate, proprio in questi giorni, per l’imminente mostra sulla storia del made in Italy in programma al Victoria and Albert Museum di Londra, The Glamour of Italian fashion 1945 – 2014, (http://www.vam.ac.uk/content/exhibitions/exhibition-the-glamour-of-italian-fashion-1945-2014/), curata dalla storica Sonnet Stanfill, artefice di uno straordinario lavoro di ricerca tra gli archivi di numerose case di moda nazionali durato svariati anni. Il risultato è un’esposizione concepita come un viaggio articolato attraverso l’affermazione di un’industria e di un gusto ancora oggi riconosciuti a livello mondiale, dalla nascita del concetto stesso di moda italiana, alla fine del secondo dopoguerra, all’indiscusso apice del fenomeno, alla seconda metà degli anni ’70 (grazie a nomi quali Giorgio Armani, Gianfranco Ferré, Gianni Versace), fino a giungere ai nostri giorni, in cui gli stilisti paiono ritornati ad una condizione di semi-anonimato, offuscati dal peso e dall’ingombro del nome stesso del brand. Sempre che, di qui al 5 Aprile, data in cui è prevista l’inaugurazione della mostra, non si aggiunga qualche altra azienda storica a quelle per cui, le parole made in Italy, come Krizia, abbiano assunto ormai solo il sapore di un glorioso e nostalgico passato.

Post-upendo!

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E’ bene sottolinearlo subito, questa volta si tratta di un post autopromozionale. In maniera diretta, esplicita, oserei dire sfacciata, mi servirò insindacabilmente del mio blog per affrontare e pubblicizzare il mio lavoro. Le ragioni mi paiono chiare: qui sopra decido io, senza possibilità di appello, ed essere liberi di scrivere scemenze, di sfogarsi, di sparire per giorni senza dover rendere conto a nessuno (se non ai soliti dodici miei lettori che lamentano le mie brevi fughe), digitare eventualmente parole senza senso tipo “qwertyuiop”, rimane di certo uno dei lati più divertenti del possedere un proprio spazio on-line. L’altro, e forse più importante motivo, è che amo profondamente quel che faccio: ho scelto di assecondare una passione dirompente, di lanciarmi in una professione straordinaria e insicura, in ambienti talvolta ostili, disorganizzati, aridi di opportunità e di solide prospettive per il futuro. Ma rimango uno storico del costume: risposta che quando fornisco a chi mi domanda “e tu, di cosa ti occupi?” suscita spesso facce perplesse, angoli della bocca ripiegati in modalità dubbiosa, espressioni tra il risibile e il compassionevole. Quindi, tanto per chiarire, sono un modesto e squattrinato esperto di abiti e di moda (precisazione che aggiungo sempre alla risposta di cui sopra…la parola “moda” intendo, non le delucidazioni sul mio conto perennemente in rosso): lavoro che affianco necessariamente ad altri impegni o collaborazioni, perché non rientro di certo tra le figure più richieste in questo paese, perché in pieno terzo millennio vivere di “vecchi stracci” da studiare è arduo, perché alla fine non rinuncio neanche a mettermi in discussione e ad affrontare nuovi o diversi settori. Ma quando mi si presenta finalmente l’opportunità di misurarmi nel campo che più di ogni altro avverto come mio, ne ricevo un’iniezione di pura vitalità che mi ricarica per lungo tempo, che mi ripaga delle mille difficoltà e delle spiacevoli, inevitabili delusioni, e che non penso alla fine di essere mai riuscito a saper trovare altrove. Fortunatamente, da ben cinque anni, collaboro con la Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze, unica istituzione museale nazionale deputata ad illustrare la storia della moda dal passato sino ai nostri giorni: il capitolo seguente sarà perciò il resoconto della sua ultima, imperdibile, mostra.

Ci sono voluti ben due anni di riunioni interminabili, di scambi di e.mail al vetriolo o di lunghe telefonate di sostegno tra tutta l’equipe, di intere giornate trascorse nei depositi del museo a valutare, misurare, analizzare le creazioni ritenute più adatte all’esposizione, il tutto coordinato dall’infaticabile talento della direttrice Caterina Chiarelli. Il risultato è la nuova e coinvolgente selezione espositiva Donne protagoniste del ’900, inaugurata lo scorso 12 Novembre e che rimarrà ad impreziosire le sale della Galleria per i prossimi due anni, secondo l’appurato criterio che un abito non possa rimanere al pubblico per lungo tempo, pena subire uno stress fisico tale da comprometterne la conservazione. La sfida rimane perciò ogni volta quella di assecondare la particolare natura dinamica del museo stesso, che avvalendosi della continua rotazione di opere e manufatti da esporre rimane un unicum nel suo panorama, e di riuscire inoltre a legare i singoli abiti, in base ad un principio già adottato nelle ultime mostre, da un tema comune che si snodi lungo tutto il percorso. Questa volta il fil rouge si tinge quindi di rosa, perché volto ad illustrare l’intero universo femminile degli ultimi due secoli, mettendo in scena le creazioni e il guardaroba di donne che si sono distinte nei più diversi settori, assegnando ogni volta alla moda un ruolo di spicco nella propria vita. Ci sono dunque volti noti dello spettacolo, come Patty Pravo, visibilmente emozionata e lusingata il giorno dell’anteprima, che ha deciso di donare alla Galleria alcuni suoi abiti storici indossati a Sanremo, come il celebre kimono in maglia di metallo creato da Gianni Versace nel 1984 (foto allegata), appositamente collocato sulla sommità di una lunga scala che ricorda proprio quella del festival canoro. Ci sono, per la prima volta orgogliosamente esposti in un museo statale, le raffinate e stravaganti creazioni di Anna Piaggi, la più eccentrica e colta giornalista di moda, scomparsa di recente, che nella sua straordinaria carriera di musa e amica dei più importanti stilisti ha collezionato pezzi rarissimi come manti e mise di primo ’900 firmati Poiret, Gallenga, Schiaparelli. Ci sono i semplicissimi ed emozionanti abiti privati di Eleonora Duse, attributi all’artista spagnolo Mariano Fortuny e risalenti al breve periodo di lontananza dalle scene dell’attrice. E ancora i pregiati e rappresentativi vestiti di Cecilia Mattuecci Lavarini, annoverata tra le più importanti collezioniste mondiali di haute couture, di Rosa Genoni, prima creatrice nazionale ad introdurre nel secolo scorso il concetto di Made in Italy, i ricercati e divertenti bijoux di Angela Caputi. E molte altre superbe e spettacolari creazioni, che non vi svelo, sicuro che vogliate accorrere ad apprezzarle di persona.

Like a mom

Si può accusarla di tutto. Di essere, ad esempio, una vera e propria cantante sui generis, una riconosciuta anomalia apparsa da tempo sulla scena musicale, forse addirittura l’unica artista capace di costruire una delle carriere più redditizie e longeve che si ricordino, senza aver mai posseduto una voce particolarmente incantevole o memorabile. Di essere poi riuscita a colmare le sue scarse doti canore a suon di scandali e di altri criticabili espedienti mediatici, di essersi ogni volta ingegnata a trovare il modo giusto per far parlare continuamente di se’, per essere ricordata come rivoluzionaria e trasgressiva icona sexy, per non sparire dalle pagine dei giornali sopraffatta dall’avvento e dal fascino di nuove e più talentuose star. Di non essere stata in grado di domare quell’irrisolto tormento artistico chiamato grande schermo, di aver più volte fallito al cinema inanellando una serie da guinnes di pellicole insignificanti, brutte oppure rivelatesi poi catastrofici flop al botteghino. Di non sapere arrendersi infine agli anni che passano inesorabili, ostinandosi, a un’età in cui le cantanti in Italia pubblicizzano ormai prodotti contro l’irritabilità e le vampate da menopausa, a rivendere la propria immagine come quella di un’eterna e a tratti ridicola teenager più che di una sofisticata (e ahimé ritoccata) cinquantenne. Ma non si può negare che quello dell’indiscussa regina del pop Madonna (nel caso non fosse ancora chiaro parliamo di lei) con la moda sia un rapporto privilegiato, in quanto, ogni minima tendenza passata, anche per caso, tra le sue mani, diventa subito fenomeno da esportare, trend da imitare, diktat da seguire. Una mostra di alcuni suoi storici abiti di scena perciò, come quella che si è tenuta pochi giorni fa da Macy’s a Los Angeles, (http://www.ansa.it/web/notizie/collection/videogallery_spettacolo/04/27/Angeles-mostra-Material-Girl_8620218.html) aveva tutta la possibilità di trasformarsi in una ghiotta occasione per celebrare e ripercorrere i trenta anni di un’attività, come poche altre nello show business, basata sul look e sul trasformismo. Peccato che le (poche) vetrine, in cui si trovavano allestiti alcuni suoi costumi indimenticabili, come il corsetto con i seni a cono creato da Jean Paul Gaultier nel 1990 o l’abito da sposa  indossato agli MTV Music Award del 1984 (foto allegata) siano servite solo per fare da sfondo alla presentazione della linea di abbigliamento Material Girl (chiamarla in un altro modo?) disegnata (così pare) dalla figlia della popstar, la sedicenne Lourdes Leòn. Evento per altro a cui la signora Ciccone non si è neanche degnata di partecipare. E che assume quindi tutti i contorni di una sbrigativa, insulsa e superflua operazione di marketing. Che siamo disposti a giustificare solo pensando che “ogni scaraffone è bello a mamma soja” e che lo scaraffone in questione necessitava dell’aiuto di mammà, diva mondiale, ma forse, come tante altre mamme, incapace di dire di no alla progenie.