A causa di uno strampalato, e per questo inconsueto, spirito d’osservazione, motivato dalla mia singolare inclinazione a memorizzare, perché affascinato, certi dettagli superficiali, ho maturato nel tempo la seguente convinzione: le donne che ostentano i tagli di capelli e le acconciature più bizzarre o coraggiose, talvolta al limite di un comune e accettabile buon gusto, appartengono, nella maggior parte dei casi, a due sole categorie professionali, le infermiere e le giornaliste di moda. Per quanto riguarda le prime credo che ciò derivi dall’inevitabile monotonia dovuta all’indossare tutti i giorni un necessario quanto mortificante camice, ragion per cui, se vuoi azzardare un minimo tocco d’estro, puoi solamente intervenire mutando le “estremità” della tua figura, cioè la testa (e quindi i capelli) e i piedi (già penalizzati da quegli zoccoli, orrendi e comodi, guarda caso, diventati negli anni sempre più coloratissimi). Per le seconde si tratta invece di ribadire, attraverso la personalizzazione del proprio look, un ruolo preciso e un determinato status quo: in un ambiente in cui la parola d’ordine è cambiamento e tutto si trasforma, di continuo, a ritmi vorticosi, l’immutabilità di un’acconciatura, posta al di là delle mode passeggere (quindi d’ispirazione rétro o al contrario volutamente kitsch) può diventare sinonimo di immediata riconoscibilità, etichettando all’impronta una professionista “super partes”, immune al variare delle tendenze, e per questo in grado di giudicarle. Basti pensare al solito, imperituro e comunque inadatto all’irregolarità del suo viso, caschetto geometrico di Anna Wintour, dispotico e strapagato direttore di Vogue Usa, o alla languida pettinatura, tutta onde anni ’40, un po’ Milly Carlucci vecchia maniera, di Franca Sozzani (che la leggenda vuole frutto di un lavoro certosino di un hair – stylist quotidianamente incaricato di stirarle i ricci), per non parlare del fiammante taglio di sapore punk, da porcospino psichedelico, esibito dall’onnipresente-in-tv-e-su-qualsiasi-altro-magazine Giusi Ferré. Ma la palma per l’originalità e, perché no, per la tenuta di taglio, spetta senza dubbio al ciuffo rockabilly, (cioè a banana, per intenderci), di quelli che avrebbero fatto impallidire perfino James Dean, da decenni campeggiante sulla testa dell’autorevole firma dell’International Herald Tribune, Suzy Menkes (foto allegata).
Per chi mastica un po’ di moda Suzy Menkes non è semplicemente una brava giornalista esperta in materia. E’ “la” giornalista di moda per antonomasia; colei che tutti gli stilisti temono, che tutte le altre giornaliste stimano (o forse invidiano), colei che chiunque voglia fare questo mestiere ha sognato almeno una volta di poter incontrare, intervistare, perché no, scalzare od offuscare. Io ho avuto il privilegio di parlarle soltanto due sole volte nell’arco della mia esistenza e dei miei infiniti 15 anni di gavetta (ah, già, quanti anni vi avevo detto di avere? Vabbè, ho cominciato molto presto!). La prima volta successe per una casualità inaspettata, essendoci ritrovati fianco a fianco, in un’affollatissima stazione, sotto un implacabile tabellone luminoso che annunciava il nostro treno in arrivo con quasi due ore di ritardo. “Anche lei va per caso a Milano?” mi chiese in un timido ma corretto italiano, ed io, reagendo proprio come farebbe un teenager qualsiasi di fronte al proprio idolo, cominciai a balbettare “Ma lei…mio Dio…Suzy Menkes…non ci credo…ma davvero? Naaaa…cioè…”, al che la signora, senza scomporsi, si allontanò a poco a poco sfoggiando un sorrisino tirato e uno sguardo stralunato che significava “ecco, ho beccato pure l’imbecille di turno” (un’altra figura meschina del genere l’ho fatta a suo tempo con la top model Christy Turlington, prima o poi vi racconterò anche quella!). La seconda volta, per fortuna, andò meglio: invitata qualche anno fa a Firenze all’anteprima della selezione espositiva della Galleria del Costume di Palazzo Pitti, a cui avevo collaborato, presi la palla al balzo e la fermai, da sola, intenta ad osservare una vetrina del museo con un magnifico abito anni ’50, per avere una sua sincera opinione sul lavoro che mi era costato tanto tempo e sudore. “Oh, it’s so refreshing” si limitò a dirmi, sorridendo (almeno questa volta non devo essergli sembrato troppo cretino, pensai) ma lo sguardo stralunato venne a me, perché spiazzato da un aggettivo che in genere si addice a una granita o a una limonata, più che ad una mostra. Riflettendoci bene in seguito, solo chi davvero possiede un gusto ricercato e tutt’altro che banale nella scelta delle parole poteva rispondermi in quel modo: “è bella, interessante, piacevole” sono concetti che avrebbe potuto tirare fuori anche il primo cane di passaggio. “E’ rinfrescante” solo Suzy Menkes; un’assoluta autorità in fatto di moda e costume, amante del massimalismo, della teatralità dell’haute couture, dell’esagerazione di forme e colori. Come ha dimostrato di recente nella sua collezione personale di abiti ed accessori raccolti in quasi cinquant’anni di carriera, solo qualche giorno fa messa all’asta da Christie’s sul web (http://www.christies.com/sales/in-my-fashion-july-2013/) e che ha registrato in poco tempo un numero record di presenze e offerte. Un saggio magistrale e un superbo condensato della storia recente dell’alta moda e del prêt – à portér internazionali, filtrata dall’occhio critico di una delle maggiori protagoniste di sempre della stampa del settore; una galleria di capi (virtuale e non) magnifica, imperdibile, sensazionale. Come altro potrei definirla? Ah, si: rinfrescante.