Just me and you…

“Vuoi che ti passi dell’insalata?” “No, grazie, non mangio cibi verdi!” “Davvero? Ma pensa, neanch’io!”. Ero incredulo, quasi sconvolto, soprattutto sollevato. Ho perfino provato forte il desiderio di tuffarmi al di là del tavolo dove era seduta anche lei, durante un pranzo fra colleghi, solo per abbracciarla, manifestarle tutta l’improvvisa e sconquassante gioia per la fine dell’attesa pluridecennale di un altro essere umano che pronunciasse quelle stesse, fatidiche parole, esultare in pubblico per il piacevole e inaspettato conforto dovuto alla speranza colmata di ritrovare nei gusti altrui la mia identica e forse un po’ bizzarra consuetudine, universalmente considerata dal 99% degli abitanti del pianeta una stramba e capricciosa rarità. “E le zucchine?” “Dipende da come sono cucinate, ma in genere non mi fanno impazzire” “Uguale! E il radicchio?” “No, ma scherzi? Non sarà verde ma ha quella consistenza lì” abbiamo proseguito nella nostra trascinante ed empatica conversazione, probabilmente suonata un tantinello surreale alle orecchie degli altri presenti, quanto così familiare e gradevolmente prevedibile per me, ipnotizzato com’ero dai suoi racconti su lattuga, spinaci o broccoli, talmente sovrapponibili ai miei stessi aneddoti sull’argomento, da darmi quella gratificante sensazione di riascoltare la melodia di una vecchia canzone imparata un tempo a memoria e mai più sentita per anni. Perché se si è speso inutilmente più dei due terzi della propria esistenza per convincere parenti e amici della fondatezza di quella tua, chiamiamola così, irragionevole repulsione, oltre a tutta la propria infanzia a buttar giù bocconi interi di bietole o cavolfiori da non sfiorare mai neppure con lingua e denti, stufo di esser sempre additato come l’ospite esigente e incontentabile, quello che puntuale, dopo ogni invito a cena, riceve la solita telefonata del tipo “ma neanche i carciofi mangi? e gli asparagi? allora cosa posso cucinarti?”, incontrare la comprensione e la solidarietà di un’altra creatura affetta dalla stessa, forse rara ma comunque esistente, abitudine, equivale a un impagabile attestato di appartenenza ad una delle tante schiere imperfette dell’umanità. E visto che abbiamo tutto da guadagnare dal condividere o dal riscontrare nel prossimo le nostre stesse vulnerabili pecche o le nostre più illogiche manie o consuetudini, anche solo per non sentirsi isolati da una muraglia di singolari usanze erroneamente ritenute fuori dal comune, vi invito, come faccio io di seguito, ad uscire allo scoperto e a raccontare qui tranquillamente tutte le vostre stranezze, con la concreta possibilità che appartengano anche all’insensato repertorio di comportamenti e di azioni bislacche di qualcun altro, fino adesso mai purtroppo incontrato. Ecco le mie:

- I barattoli della cucina (caffé, zucchero, sale, etc) devono essere, sui miei scaffali, sempre pieni fino all’orlo. Già se scendono sotto la metà del proprio contenuto vanno riempiti (meno non se ne parla proprio). E per evitare il rischio del ricambio costante della parte superficiale a discapito di un fondiccio ristagnante a lungo, svuoto con cura ciascun barattolo, lo riempio per circa metà dell’altezza direttamente dalla confezione, per poi riversare di nuovo lì sopra il contenuto tolto poco prima. Almeno un paio di volte a settimana.

- Il volume della tv, dell’autoradio, dello smartphone, di qualsiasi altro diabolico congegno atto a riprodurre suoni deve segnare sempre, e dico sempre, un numero pari, mai dispari. Stessa cosa vale per tutte le mie sveglie: mai potrei sintonizzarle, che so, alle 7.37. Più difficile semmai estendere la stessa discutibile mania agli orologi comuni: voglio dire, se quel minuto è dispari, è dispari. Allora lo fisso a lungo, finché non diventa pari. Poi sto meglio.

- Gli acquisti da porre sul tapis – roulant di una cassa in qualsiasi negozio non saranno mai buttati lì in ordine sparso o, peggio ancora, messi a casaccio, sbilenchi, a formare torri pericolanti di spese da imbustare, ma posti ordinatamente in maniera perpendicolare gli uni agli altri. Come in una sorta di Tetris tridimensionale, le cui pedine sono però scatole di scarpe in saldo, pezzi di mobili impronunciabili dell’Ikea o confezioni d’acqua lievemente gassata. Indicibile è la vastità di espressioni sgomente da parte delle commesse avvistate negli anni.

- Il mio oculista di fiducia ormai se n’è fatto una ragione e mi fissa direttamente l’appuntamento annuale di controllo verso le 6 del pomeriggio, l’ultimo della giornata. Perché tanto prima delle 8 non uscirà di lì: di sicuro gli ci vorranno quelle due ore anche solo per potersi avvicinarsi alle mie pupille, pensiero che a rievocare anche adesso mi provoca sudarelle fredde e nausea. Ebbene sì, più di ogni altra cosa al mondo mi terrorizzano le visite agli occhi: in compenso non batto ciglio di fronte al dentista, sulla cui poltrona riesco spesso ad addormentarmi. Qualcun altro può vantarsi di fare altrettanto?

Saldi subito!

“Chiedo a lei?” mi domanda, senza un filo di cortesia, dopo essermi giunta in silenzio alle spalle, come in un agguato bellico, una biondissima signora più appariscente che elegante, troppo botox sul viso e troppe sigarette nella voce, entrata d’improvviso nel negozio dove mi trovavo, accompagnata a poca distanza dal marito visibilmente rassegnato, la cui espressione spenta tradiva con chiarezza il desiderio di essere ovunque, tranne che lì. “No, mi spiace”, replico io un po’ imbarazzato, cercando nel frattempo con gli occhi la commessa che avevo intravisto poco prima e che forse era riuscita miracolosamente a squagliarsela o a svanire nel nulla a dispetto di tutto l’inferno di persone là intorno, “non lavoro qua”. “Ma se stava piegando tutte quelle magliette!” incalza di nuovo la tenace signora, direi poco convinta dalla mia risposta, tentando inoltre l’epica impresa di aggrottare la fronte senza però piegare alcun muscolo facciale (“a me sarebbe già sbucato un solco profondo come un canyon”, pensai), e congedandosi subito dopo con un “bah” di stupore, ancora in preda però ai suoi legittimi dubbi, tutt’altro che placati dal mio fiacco “Ehm, si lo so…ma vede, ce l’ho di vizio”. Il fatto, più drammatico che buffo se vogliamo, è che davvero, tra le mie mille stramberie e pulsioni maniacali, annovero anche una sorta di intolleranza visiva agli oggetti ammassati alla rinfusa o temporaneamente vacanti dal proprio posto, e così, per placare quest’illogica, sgradevole, sensazione e forse bilanciare il mio assiduo disordine interiore, provo almeno ad arginare come posso quello esteriore, riposizionando nel modo giusto tutto ciò che mi sembra finito fuori da un più naturale e prestabilito schema. Ed è ciò che mi succede ad esempio al supermercato, quando abbandono il mio amore in fila al banco della gastronomia, sotto il suo sguardo comprensibilmente sgomento, per andare a riallineare quei cinque o sei flaconi di detersivo rimasti secondo me troppo indietro o per riportare di nuovo accanto ai suoi simili quella povera confezione di patatine abbandonata sullo scaffale sbagliato. Inutile aggiungere come anche tra le mura di casa lo stesso bislacco e rigido sistema venga dal sottoscritto applicato indifferentemente ad oggetti di ogni tipo, piatti, bottiglie, saponi per il bagno, libri (rigorosamente divisi tra l’altro per argomento e altezza su diverse mensole), camicie e t-shirt (radunate invece per modello e colore), decine di calzini e biancheria intima, perfino lenzuola ed asciugamani. Pensate quindi che cosa significhi per la mia testa stramba doversi aggirare nell’insostenibile caos di milioni di capi spostati e maltrattati da orde di acquirenti che assaltano i negozi di abbigliamento durante i saldi: un’infinita, continua, martellante tortura.

Se a tutto questo si aggiunge inoltre la mia più totale e pressoché inspiegabile indifferenza al piacere personale dello shopping, a dispetto dei quasi 15 anni professionali spesi ad occuparmi esclusivamente di moda in varie redazioni, showroom, scuole e musei, vi sarà forse più chiaro quanto mi atterrisca e mi getti nello sconforto l’urgente necessità di rinnovare il mio guardaroba a causa di un lieve (e sottolineo lieve) ingrassamento e di una serie di appuntamenti più o meno eleganti e mondani in programma. Perché, per quanto mi diverta e mi mandi in fibrillazione l’ipotesi di andare in cerca dell’abito o dell’accessorio più adatto per qualche parente, collega, amico/a da accompagnare nei suoi acquisti e da sommergere di consigli e di dritte in materia, quando si tratta della mia stessa pelle perdo invece di smalto e di obiettività. Dover scovare, provare, comprare vestiti è in altre parole la mia sola, annichilente kryptonite: difficilmente mi vedo qualcosa bene addosso, m’innamoro di capi che una volta in camerino si trasformano in drammatici sbagli o profonde umiliazioni, di rado azzardo qualche follia (di cui poi mi pento all’istante), più spesso mi irrito dopo pochi minuti e finisco sempre per portarmi a casa i soliti modelli, i soliti colori, la solita, ennesima, inutile, camicia bianca (ne ho una collezione paragonabile solo a quella di Renzi). E sarebbe finita di sicuro nello stesso modo anche stavolta se non mi fosse arrivata quel giorno in soccorso tutta l’incontenibile energia ed esuberanza di Giancarlo. Se il mio amore si decidesse finalmente a coronare la nostra felice e ventennale storia con un’inarrivabile seppur gradita proposta di nozze (e dopo i dettagli sulla mia psiche narrati in questo come in altri post capite perché non lo faccia) Giancarlo diventerebbe tecnicamente mio cognato. Per adesso si limita invece a istruirmi, piuttosto invano in realtà, su quel mondo a me ostile e sconosciuto dello sport, della salute e della forma fisica: è solo grazie a lui che ho scoperto l’esistenza, altrimenti ignorata, delle proteine spray sublinguali, degli antiossidanti naturali come la bacche di Goji (dal gusto terribile, non le provate), di tutta una serie di massacranti ma efficaci espedienti domestici per tonificare muscoli e perdere peso. Ma è soprattutto un vero fuoriclasse dell’acquisto in saldo, un maratoneta dello shopping estremo: è con lui che ho rastrellato interi reparti di negozi a cui da solo non mi sarei mai neanche avvicinato, è merito suo se sono finalmente riuscito a sperimentare su di me tagli, tinte o fantasie che non indosserei mai nemmeno se mi trovassi dall’altra parte del pianeta al riparo dai commenti ipercritici di amici e conoscenti. Mostrandomi alla fine il lato più scanzonato e divertente nel trascorrere ore e ore di shopping: anche se neanche lui ha saputo però farmi desistere dal comprare un altro paio di semplici, classici, banali pantaloni blu.