“Guarda qui cos’ho preparato oggi!”. E’ quasi ora di pranzo, annoiato e impaziente desidero solo poter scendere dal treno, come al solito, in ritardo, il servizio gratuito di connessione wi-fi reclamizzato ogni minuto sullo stesso convoglio sembra procedere altrettanto a rilento, e per visualizzare l’immagine inviatami via Whatsapp dalla mia amica Loredana devo aspettare di ritrovarmi una mezz’ora più avanti solo, al tavolo di un bar, di fronte ad uno squallido tramezzino, divorato in quei pochi secondi che precedono il mio appuntamento di lavoro, in altre circostanze neppure sufficienti ad ordinare un velocissimo pasto. “Sembrano davvero buoni!” riesco, non so come, a replicare, mentre mi ustiono il palato buttando giù un caffé troppo bollente, e la vista di quel succulento piatto di spaghetti alle vongole, campeggiante nella foto inviatami poco prima, non fa che accrescere l’acquolina in bocca, oltre alla comprensibile voglia, mista ad invidia sottile, di barattare il mio misero pranzo con quella pietanza immortalata, in apparenza ben più gustosa. Direi che il suo messaggio ha ottenuto senza dubbio l’effetto desiderato: perché è per questo che, smartphone alla mano, fotografiamo come forsennati milioni di portate rese esteticamente impeccabili, grazie a quella dedizione spasmodica, un tempo appannaggio esclusivo di personaggi da libro di ricette come Wilma de Angelis o suor Germana. E’ per questo che curiamo allo stremo impiattamento e presentazione di qualsiasi prelibatezza, vera o presunta, uscita dalle nostre mani, sempre in preda alla criticabile ma diffusissima smania di condividerla sui social non appena poggiata quell’ultima foglia di basilico sulla sua sommità. Per cercare, nel più vasto pubblico del web, maggiore o incondizionata approvazione, consensi e commenti lusinghieri, per coccolare il nostro ego culinario con il moltiplicarsi costante di like, stelline o cuoricini, per ottenere in risposta quell’entusiasmo che mariti, mogli, fidanzate/i o figli troppo distratti a tavola non sembrano ugualmente riservare ai nostri piatti così amorevolmente preparati, spesso al contrario demoliti da critiche del tipo “però manca un po’ di sale” o “secondo me è sbagliata la cottura!”. Per metterci in mostra, e forse anche alla prova, su di un terreno più familiare, democratico, a portata di mano, come lo è poi la cucina, per regalare finalmente una vetrina degna e spaziosa alle nostre supposte abilità ai fornelli, fino ad oggi tenute nascoste fra le mura domestiche o al massimo svelate a parenti e amici utilizzati come cavie dei nostri peggiori esperimenti con il cibo. Contagiosa moda collettiva o frontiera recente della vanità 2.0, il foodspotting (questo il termine corretto per descrivere la mania di inondare la rete, Instagram in primis, con foto di piatti tutte noiosamente uguali a sé) è anche l’ultimo bersaglio della nuova e riuscitissima campagna Ikea (video allegato), l’arcinoto colosso svedese di arredamento colpevole di aver riempito le nostre case con mobili dai nomi impronunciabili e di aver trasformato in un incubo i nostri week-end di shopping forzato tra mensole da misurare e piumoni talvolta esagerati per le più miti temperature nostrane. Con la medesima ironia e l’efficacia già notate nelle precedenti pubblicità ideate dallo stesso gruppo, lo spot citato si scaglia così contro l’inutile ossessione quotidiana di fotografare e condividere sulle proprie pagine internet i piatti prima ancora di poterli assaggiare, mettendo in scena un raffinato ambiente aristocratico settecentesco e ipotizzando la ricerca di potenziali gradimenti virtuali in quell’epoca, in un tripudio di costumi sfarzosi, volti pallidamente truccati e parrucche (peccato quest’ultime non tornino di moda, ne approfitterei subito). Con un messaggio finale piuttosto esplicito “Let’s relax. It’s a meal“. Rilassiamoci, è solo cibo. Parole che terremo bene a mente quando, magari contro la nostra volontà, ci ritroveremo proprio all’Ikea a rigirare tra le mani un piccolo barattolo di SILL SOMMAR (aringhe marinate), tentando di intuirne, forse invano, il contenuto.
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Eterni bagliori
Fate pure tutti gli scongiuri del caso, ricorrete tranquillamente, se vi sembra opportuno, a tutto il necessario, più o meno simpatico, talvolta volgare repertorio di gesti e gestacci di natura scaramantica, di quelli che spesso ci troviamo ad eseguire con studiata nonchalance, di nascosto, sotto i tavoli o appena voltate le spalle al nostro interlocutore, quando il viso rimane a lungo congelato in quell’espressione tirata e indefinita di vago disagio, al contrario delle nostre mani che, prontamente trasformate in corna di circostanza, cercano il contatto con il ferro o con altri intimi gingilli. E adesso che vi siete premuniti a dovere contro le eventuali sciagure potenzialmente attirate, come orsi dal miele, dall’argomento di tono funereo e vi sentiti al riparo nonché refrattari ad ogni forma di disgrazia incombente, grazie alla comprovata efficacia di tutti i vostri più strambi e collaudati rituali di superstizione, tirate un respiro profondo e servitevi allegramente della giusta dose di leggerezza occorrente per affrontare il prossimo, delicatissimo, tema. Perché parliamo di morte. Allora? Via quelle mani di lì, ho detto. Ma possibile che basti scomodare quella semplice parolina, cinque, comunissime lettere, m-o-r-t-e, ed ecco sgorgare fiumi di terrore e di angoscia a riempire indistintamente occhi, cervello e cuore, mentre nella testa si fa sempre più forte una vocina spaventata a suggerirci con prontezza “vabbè, parliamo pure d’altro!”?. Eppure, per quanto sia umano e comprensibile allontanarne di qualche galassia più in là il solo, agghiacciante pensiero, dovremmo esserci ormai abituati o rassegnati all’idea di un suo, inevitabile e perciò detestato, arrivo: voglio dire, questa meravigliosa, spiazzante, talvolta schizofrenica ma senza dubbio straordinaria (e naturalmente speriamo anche lunga) esperienza chiamata vita, per goderci e forse complicarci la quale siamo stati messi al mondo, dall’età in cui più o meno acquisiamo (più o meno) la nostra ragione sappiamo perfettamente averla ricevuto in dono con una sua (misteriosa, questo ve lo concedo) data di scadenza. E allora perché non preoccuparsi già, con un pizzico di audacia e di tempismo, del futuro destino che desideriamo riserbare a questo nostro corpo effimero, una volta che sarà diventato un’ingombrante e deteriorabile carcassa, se non altro per quell’enorme rispetto che indifferentemente tutti gli dobbiamo dopo averlo, per decenni, ignorato o maltrattato più che curato e coccolato? Soprattutto se, al pari del sottoscritto, rientrate anche voi nella cinica e materialistica categoria di chi non aspira affatto a sopravvivere sotto forma di anima per godersi l’eterna beatitudine di paradisi ameni (o per arrostire nei secoli tra il guizzo di alte fiamme di dannazione), o meglio, di chi non si illude di possedere neanche una minima traccia di una qualsivoglia sorta di anima, ed è anzi fermamente convinto che, lasciata a malincuore questa vita, quel giorno non ci sarà ad attenderci proprio niente e nessuno, nessun santo “chiavi in mano”, nessun luogo concreto, forse solo lo stesso, indefinibile, dove abbiamo distrattamente albergato prima di nascere. E se rabbrividite almeno quanto me alla sola, spiacevole, ipotesi di passare chissà quanto tempo sigillati e compressi (ma ben vestiti) dentro una scomoda bara, e preferite al contrario che i vostri resti vengano definitivamente bruciati per essere poi conservati in un’urna da due soldi, dispersi al vento o dati in pasto ai pesci (ah, quest’ultima sarebbe la mia opzione, mi raccomando, adesso che è tutta nero su bianco, vediamo un domani di metterla in pratica, che non potrò essere lì a vigilare direttamente sulle vostre azioni), ebbene, da qualche anno abbiamo anche un’ulteriore scelta: quella di essere trasformati in pietre preziose. In diamanti, per la precisione, come promette, con un filo di macabro sarcasmo, la campagna pubblicitaria dell’azienda capitolina di pompe funebri Taffo (foto allegata) proprio in questi giorni affissa, con un inimmaginabile e riuscito ritorno mediatico, per le strade di Roma e provincia. Grazie ad un accordo esclusivo con alcuni laboratori in Svizzera, deputati ad occuparsi dell’insolita operazione, sarebbe dunque possibile ricavare dalle normalissime ceneri di un caro estinto la quantità di grafite necessaria per ottenere un diamante (di cui si può inoltre scegliere la caratura, con costi che oscillano fra i 3 ed i 15 mila euro), da montare eventualmente su un gioiello da indossare e perché no, esibire, anche con frasi del tipo “sai, mio zio Paolo, te lo ricordi? Eccolo qui!” Una scelta bizzarra, forse, non ancora di successo, ma supponiamo in crescita, consigliabile soprattutto per due ordini di motivi. Dare, in primo luogo, la possibilità anche a chi non ha mai particolarmente brillato durante la sua stessa esistenza di riuscire invece a farlo, in altro modo, dopo la sua morte. E poi, dato che l’ironia è sempre stata un’ottima risorsa per contrastare le numerosissime difficoltà di questa vita, che sia anche la strumento migliore per affrontarne la fine?
Lunga vita agli spot!
Fonzies XXL Concorso (Spot 40”) – YouTube.
Devo smetterla di lamentarmi dell’autunno. A dire il vero, dovrei piantarla di lagnarmi in genere, ma insomma, se già riuscissi ad evitare quei ciclici piagnistei stagionali, in cui di solito mi smarrisco tra Ottobre e Novembre e che poi riprendo con altrettanto impeto diciamo verso metà Marzo, avrei già compiuto un enorme progresso (è poi non è che possa diventare d’un colpo perfetto, così, quasi per magia, considerati soprattutto i 29 anni di difetti che mi trascino alle spalle). Anche perché, per quanto già riconosca in pieno tutte le avvisaglie dell’imminente tracollo psicofisico che mi abbatte umore e spirito fino al cenone di Natale (occasione in cui viene sedato da massicce quantità di cibo e di alcol) devo confessare che questo inizio di stagione mi sta riservando non poche gradite sorprese. Inaspettate e incoraggianti proposte professionali, volti e nomi che riemergono da un passato a volte remoto, piccole, quotidiane ed assidue gratificazioni personali, come il numero sempre crescente di utenti che, spinti chissà da quale (inspiegabile?) pulsione, scelgono liberamente (spero) di seguire questo blog, nonostante le condizioni di semiabbandono in cui versa, talvolta, per giorni interi. Solo ieri, ad esempio, invece del solito fuggi fuggi domenicale, a cui sono ormai da tempo abituato, causa principale di lunghi pomeriggi festivi scanditi da un’affluenza pressochè minima, si è sfiorata al contrario la cifra record di quasi 450 visitatori, un numero che trovo impressionante, viste le dimensioni modeste di questo progetto, la sua fama che non si estende al di là di amici/familiari/colleghi e soprattutto la scoraggiante assenza di un nuovo post. Segnale, forse, che la noia di quelle interminabili e piovose domeniche autunnali non coglie solo me, con la differenza che io ho tutto da guadagnare dalle vostre giornate di sbuffi e cazzeggio online, spese a curiosare in rete in cerca di chissà cosa (lungi da me suggerirvi un’alternativa, continuate pure a trascorrere il vostro tempo qua sopra).
Tutto ciò senza considerare che questo autunno 2013 ha preso l’avvio con una quantità eccezionale di notizie, eventi e frivolezze da gossip spicciolo, spesso tra l’impensabile e il ridicolo, che nella mia testa perennemente in moto equivalgono a una straripante ondata di materiale a cui poter attingere per dare sfogo in queste pagine a tutta la mia irrequietezza stagionale, incanalata così in qualcosa di concreto, non proprio utile, ma finalizzato ad un po’ di sana evasione, quello forse sì. Mi ritrovo così ad avere semplicemente l’imbarazzo della scelta su chi o cosa scagliare le mie superficiali invettive da blogger finto-tuttologo; il quale, considerato il delicatissimo momento politico in cui quest’Italietta si ritrova per l’ennesima volta, preferisce evitare riflessioni su defunti partiti che rinascono dalle proprie ceneri – più come zombie che come la leggendaria araba fenice – pseudoministri dimissionari, crisi di governo, di stabilità, di nervi collettiva che mi auguro prima o poi ci riporti alla piacevolezza antica di quei bei tempi rivoluzionari in cui tante questioni si risolvevano con una bella ghigliottinata in piazza e via. Ci terrei invece a dire la mia su quel vespaio sollevato dalle considerazioni, più retrograde che inopportune, di un noto imprenditore del settore alimentare il quale, in un’intervista radiofonica, con arroganza e ingiustificabile leggerezza ha dichiarato di non essere intenzionato ad inserire famiglie omosessuali nei suoi spot perché preferisce avere come target la famiglia “tradizionale”. Premesso che a stupirmi è stata la gravità di un’affermazione così anacronistica per un uomo d’affari di questo millennio (che dimostra tra l’altro di non capire un’acca di marketing per sottovalutare l’incidenza del pubblico gay), che forse non si è reso ben conto di produrre pasta e biscotti, prodotti per gustare i quali sono necessari una bocca, dei denti, una lingua e un apparato digerente funzionante (attrezzatura identica, fino a prova contraria, in esseri di qualsiasi orientamento sessuale) ma santiddio, fai pubblicità con Banderas e una gallina: non c’è un uccello di troppo rispetto alla tua tanto celebrata famiglia “tradizionale” (sto parlando della gallina, naturalmente)? Forse una lezione in questo senso può giungergli dall’ultimo spot dei Fonzies (video allegato), 40 secondi di divertente doppio senso che scuotono una tranquilla località della profonda provincia italiana, in cui luoghi comuni e personaggi tipici di un qualsiasi paesino (il barbiere, la sartina, il sacrestano), quanto di più “tradizionale” si possa immaginare, sono dissacrati, strumentalizzati, messi al servizio dell’ironia del messaggio finale. Una pubblicità anticonvenzionale, efficace, che sfiora la volgarità senza cederle il passo; indice che forse, almeno in tv, sta prendendo finalmente piede una realtà meno bacchettona. Aspettando che arrivi anche altrove, a cominciare dalla tavola.
Isn’t it ironic?
Dentro c’è un po’ tutto: la mania dilagata in questi ultimi anni tra i marchi di abbigliamento, ossia i fashion brand, da Prada fino a H&M per capirsi, di pubblicizzare le proprie linee attraverso la realizzazione di cortometraggi, anzi, short movie, perché quando si parla di moda l’inglese fa più figo, anche se si conoscono (o si ripetono) le solite tre parole. C’è la rivalutazione estetica di un’atmosfera vintage e rarefatta, la luce biancastra, le inquadrature finto – amatoriali e finto – casuali, i giochi di sfocature che danno un tocco romantico, tutti elementi riscontrabili con facilità nella maggior parte dei servizi di moda attualmente presenti su magazine e blog. C’è il sottofondo di una musica lieve, dalle sonorità retro, quasi una ninna nanna, che troveresti adatta alla voce di una cantante come Lana del Rey, e c’è il collaudato repertorio di frasi sussurrate, generiche e omologate, tipiche degli spot per profumi, di quelli con l’attore sex – symbol o il modello superscolpito, che passano ogni due minuti in tv nel periodo natalizio, e poi scompaiono per riaffiorare solo al cinema, in versione integrale, prima dell’inizio del film. C’è, soprattutto, tanta ironia, con cui si critica in modo beffardo e pungente il fashion system in toto, la sua natura elitaria e autoreferenziale, le sue icone e i suoi idoli, sempre e volutamente sconosciuti ai più; con cui si mette alla berlina il supposto talento versatile dei blogger, che in nome della creatività e del buon gusto si spacciano per scrittori, fotografi, opinionisti, presenzialisti, stylist e cool – hunter, portandoti a domandare quanto spazio ci sia mai nel loro curriculum o sulla loro carta d’identità alla voce “professione”. C’è voluto del coraggio insomma e un pizzico di genialità, per arrivare a confezionare un cortometraggio come questo (video allegato), con protagonista la brillante attrice Lizzie Caplan e targato Viva Vena, brand di abbigliamento americano, non certo tra i più noti, nato da una costola di Vena Cava, “contenitore” online di stili e tendenze. Perché con un’originale e riuscita operazione di scardinamento arriva ad appropriarsi dello stesso mezzo che schernisce, cioè un corto, per presentare gli stessi prodotti, cioè degli abiti. A dimostrazione che il non prendersi mai troppo sul serio funziona sempre, nella vita come nella moda.