Provaci ancora prof!

Mi ero ripromesso che non ci sarei mai più cascato. Ero serenamente giunto alla conclusione che non fossi la persona più adatta, che difetto di autorevolezza, di polso, di pazienza, che per appropriarmi del titolo di insegnante non avessi la giusta esperienza, la formazione necessaria, l’adeguato temperamento. Non nego che sia stata un’esperienza magnifica quanto impegnativa: nei due anni che mi hanno visto salire (indegnamente?) in cattedra per una nota scuola di moda ho tenuto sei diversi corsi, mi sono confrontato con decine di studenti appassionati, vulcanici, talvolta diffidenti, mi sono domandato di continuo se avessi davvero qualcosa da trasmettere loro, anche solo quel piccolo consiglio, da fratello maggiore più che da professore, a cui sarebbero potuti ricorrere in futuro. Ricordo ancora il timore della prima lezione: l’aula più grande di quanto mi aspettassi, sessanta allievi già seduti e incuriositi, centoventi orecchie e occhi fissi su di me, su ciò che tentavo di dire, sulla mia voce incerta e cavernosa amplificata dal microfono (che da allora non ho più usato), sul mio nervoso passeggiare su e giù tra loro simulando una calma e una sicurezza mai possedute. Ho avvertito col tempo calare il disagio iniziale, perché letteralmente travolto dall’entusiasmo impetuoso tipico della loro età, dalla loro ansia di crescere, di mettere in discussione ogni singola frase o certezza. Mi sono più volte scontrato con i loro legittimi dubbi, con i loro sottili moti di arroganza o di presunzione, con la loro voglia di urlare al mondo “ci sono anch’io, fatemi spazio!”. Mi infuriavo quando non si impegnavano, mancando di rispetto soprattutto al proprio talento, quando arretravano o si accontentavano di risultati modesti, perché a vent’anni invece bisogna rischiare e non adagiarsi, quando si abbattevano di fronte alla prima delusione, perché nella vita le delusioni sono più utili dei successi. E’ stato divertente sentirsi chiamare “profe” o “prof” anche se non lo sono e mai lo sarò, è stato decisivo attingere dalla loro energia e dalla loro stima per affrontare le difficoltà della mia vita, è stato infine doloroso attraversare la loro esistenza per poi doverne uscire, lasciandoli liberi di cavarsela da soli. Perché vorresti invece continuare a incoraggiarli, sostenerli, proteggerli. E invece no, un bravo insegnante capisce anche quando arriva il momento di farsi da parte. No, non faceva proprio per me, ne ero certo.

E infatti, dopo neanche tre anni, sono già tornato sui miei passi. Mi sono lasciato convincere, tra l’altro nel giro di poche ore, dalle parole lusinghiere e calorose di un’affabile ex – collega, ho messo da parte tutti i precedenti dubbi e i timori sotterranei che il tempo aveva comunque smorzato, ho soprattutto avvertito di nuovo, con chiarezza, la voglia e la necessità di misurarmi con un piccolo uditorio, con l’imprevisto di domande e osservazioni non immaginate, con l’interesse o la noia che le mie lezioni possono ugualmente suscitare. Ho accettato d’istinto, volentieri, senza ripensamenti né riserve, perché questa volta c’è, a dire il vero, una differenza fondamentale: l’età dei miei allievi. Che, un eccesso di politically correct impone di definire over, perché ormai anche i termini “anziani” o “maturi” sono diventati forieri di una sfumatura dispregiativa e dunque inaccettabile. Mentre i miei nuovi studenti, dimostrando molta più saggezza, dignità e autoironia di certe etichette esterofile, nel descriversi si lasciano tranquillamente sfuggire dalle labbra aggettivi come “vecchierelli” o “vecchietti”. Consapevoli naturalmente di non esserlo affatto, soprattutto nei loro slanci di vitalità contagiosa, nel coraggio e nell’umiltà che rivelano mettendosi ancora una volta in discussione, nel desiderio mai sopito di apprendere, di stare tra la gente, di scoprire che esistono sempre milioni di motivazioni valide per andare avanti. Anche quando la vita ti ha beffato con pessimi scherzi, quando ti ha privato del tuo più grande amore, quando ha cominciato a regalarti qualche acciacco di troppo, quando i ricordi e le esperienze accumulate si fanno ormai più numerose delle aspettative. Sulla carta d’identità potrebbero essere tutti benissimo i miei genitori, qualcuno perfino mio nonno; il più delle volte hanno un atteggiamento rispettoso, signorile, oppure materno e protettivo, a tratti al contrario simpaticamente indiscreto, specie quando azzardano qualche quesito impertinente sulle mie origini o sulla mia vita privata. Sono volenterosi, organizzati, instancabili, scrivono pagine e pagine di appunti, intervengono in maniera intelligente e composta, citando fatti d’attualità, personaggi noti, la storia e la letteratura che ricordano dai tempi della scuola. Mi accolgono con la bontà dei loro dolci fatti in casa, mi salutano con altrettanto affettuosi inviti a prendere un tè o un caffè, con il progetto di una pizza o una gita tutti insieme a cui non posso assolutamente mancare. Mi fanno sentire apprezzato, utile, speciale. E anche questa volta sono io ad aver tutto da imparare.

Una prof per amica

La prima volta che c’incontrammo, non fu esattamente per caso. Successe a Roma, qualche anno fa, quando 29enne (anche allora, ma per la prima volta) riuscii a dare l’ennesima spallata al mio già tortuoso e poco comprensibile percorso professionale, rifiutando, con un briciolo d’incoscienza, un lavoro che detestavo, per seguire invece un corso di giornalismo di moda. Lei, Adriana Mulassano, sarebbe stata una delle mie insegnanti: o meglio, l’Insegnante, il vero motivo della mia assurda decisione, la ragione principale della scelta di aggiungere anche la mia faccia, 4 giorni alla settimana, per 6 mesi, alla moltitudine di volti assonnati tipici dei pendolari. Di lei sapevo tutto o quasi. Della sua straordinaria carriera, cominciata a New York sotto l’egida di Richard Avedon, proseguita di lì a Parigi e quindi di nuovo in Italia, agli inizi degli anni ’60, nella redazione di Amica prima e al Corriere della Sera poi, dove rimane circa vent’anni, per approdare infine nell’ufficio stampa di Giorgio Armani (così, tanto per non farsi mancare nulla). Della sua fama di penna tagliente, capace di decretare in sole due parole la riuscita o il fiasco di una collezione, dei suoi giudizi schietti e per questo temuti, dell’aura di rispetto e forse venerazione che era riuscita a conquistarsi in un ambiente spesso dipinto come ostile e spietato. Del suo impareggiabile fiuto nell’individuare nella moda cambiamenti e nuovi talenti prima che diventassero fenomeni planetari, com’è accaduto con la nascita del prêt – à – portér italiano, che ha descritto prima e meglio di ogni altro nel suo libro I Mass Moda del 1979. Provate a immaginare quanto potessi essere allora intimorito, affascinato, addirittura turbato dall’idea di sottoporre i miei scritti a lei, io che, a un’età non proprio da debuttante, avevo soltanto collaborato nella sezione “cronaca e spettacoli” di due sconosciuti giornali locali mentre facevo di tutto (e tutt’altro) per sbarcare il lunario.

“Molto lieto” riuscii soltanto a dirle quando mi presentai, da solo, nell’aula vuota, perché arrivato, causa molteplici ansie, con una buona mezz’ora di anticipo sulla prima lezione (e su tutti i miei futuri compagni). “O sei abituato ad essere sempre puntuale, o abiti qua vicino” mi disse Adriana, fissandomi per un po’ coi suoi occhi vividi e cangianti, che sembrano scrutarti l’anima. “Dietro l’angolo. A Firenze” risposi io, con l’ironia che di solito uso per togliermi da qualsiasi impaccio o imprevisto. Funzionò anche quella volta: perché il sorriso sincero che ne seguì fu soltanto il primo di una lunga serie che corona, ancora oggi la nostra, ormai duratura, amicizia. Già, perché nonostante l’enormità di differenze tra noi, soprattutto caratteriali (e se mi azzardo ad aggiungere anagrafiche mi toglie la parola), Adriana si è trasformata nel tempo dall’insegnante scrupolosa che mi ha inculcato l’importanza di scegliere parole esatte, semplici, lievi, abbandonando il piglio serio del saggista, alla preziosa confidente a cui ricorro quando ho bisogno di un parere onesto e sfrontato. Prima di essere infatti una professionista dalla cultura sterminata, capace di spaziare nella stessa conversazione da Proust al blog di Selvaggia Lucarelli, è soprattutto una donna di un’umiltà, di uno spirito e di un temperamento fuori dal comune, che preferisce pranzare in una modesta trattoria col sottoscritto, a dividerci le olive nel piatto, piuttosto che bazzicare pseudo – intellettuali dal linguaggio paludato, che rifugge come la peste. Proprio com’è successo l’ultima volta che ci siamo visti, pochi giorni fa, durante la presentazione del libro Progetti di scuola, edito da Skira, (http://www.skira.net/progetti-di-scuola.html), volume sull’intensa e poliedrica attività del maestro Alberto Lattuada, che Adriana ha omaggiato con uno dei suoi soliti, superbi, interventi. “Un grande personaggio non ha alcun bisogno di dimostrare niente” ha affermato con decisione, davanti a tutti, riferendosi all’amico stilista. Ma, chissà perché, quelle sue stesse parole mi sono subito suonate così adatte anche a lei.