Pur avendo quasi la mia stessa età, Hajib dimostra qualche anno in più (del resto, non è mica da tutti portarsi bene i propri 29 anni), ma quando comincia a parlare della sua famiglia lontana, accennando un sorriso, il suo sguardo si fa vivace e limpido come quello di un ragazzino. Ci incontriamo quasi tutte le mattine, da qualche mese a questa parte, con il sonno ancora insistente nella voce e negli occhi, alla solita fermata dell’autobus, dove qualche burlone ruba di continuo l’orario affisso (avviso: prega che non ti becchi mai), nella sconosciuta e silenziosa località toscana in cui entrambi viviamo. “Pensava tu Tunisia come me” mi disse la prima volta che dovetti vincere la mia scarsa propensione al dialogo – prossima al completo mutismo – prima delle 10, complice un eccessivo ritardo della nostra corsa, il mio cellulare perennemente scarico e la necessità di dover avvisare della mia assenza ogni minuto più certa sul lavoro. “Ah, no”, risposi, pensando “questa alle mie presunte cittadinanze mi mancava”, ed aggiunsi “tra l’altro, mai stato in Tunisia”, “neanche Hammamet?” mi domandò quindi Hajib, ma vuoi per quella mancanza di prontezza mattutina, vuoi per la sua spiazzante associazione di idee, che non voglio neanche provare a ripercorrere, riuscii solo a replicare con un’espressione del viso che deve essergli sembrata parecchio buffa, perché scoppiò a ridere, di gusto. Da allora scambiamo con piacere quattro chiacchiere, barcamendandoci tra il suo italiano da perfezionare e il mio pessimo francese, raccontandoci di progetti a lunga distanza e di piccole soddisfazioni giornaliere, oscillando tra la banalità di argomenti come il tempo grigio e la curiosità reciproca per le nostre, diversissime, vite.
Hajib proviene da un piccolo villaggio di pescatori vicino all’isola di Gerba, dove vivono ancora sua moglie e i suoi due figli di 3 e 5 anni, di cui spesso mi mostra orgoglioso le foto sul telefonino; torna là due, tre volte l’anno, non in aereo ma con il traghetto che parte da Civitavecchia, perché può caricarvi la macchina con i regali per i suoi bambini. E’ in Italia dal 2011, ora con regolare permesso di soggiorno, e dopo aver trovato vari impieghi come muratore, facchino, pizzaiolo, adesso vende giacche di pelle in una bancarella del mercato centrale di Firenze. “Comprano solo i russi” mi disse una volta a proposito del giro di affari tra i turisti “gli altri parlano parlano ma niente soldi”. Appena ha un po’ di tempo libero, Hajib visita qualche museo, consapevole dell’unicità di opere che custodisce la città in cui si trova a lavorare, per raccontarmelo poi con tono fiero il giorno seguente. “Sei mai stato sulla cupola? E a Palazzo Vecchio?” sono le sue domande tipiche, ed appena riesco ad aggiungere qualcosa sulla storia dei monumenti che l’hanno così colpito, replica “Tu bravo, dai tante risposte”. Mi diverte il suo stupore quando rifiuto gli inviti a guardare qualche partita di calcio insieme in un bar, essendo forse l’unico esemplare di maschio italico incontrato disinteressato al pallone, mi colpisce la sua gentilezza e la sua inisistenza nel volermi offrire spesso la colazione. L’altro giorno, alla solita fermata, non eravamo soli: c’era un gruppetto di signore che commentava ad alta voce i terribili fatti di cronaca di questi giorni, che hanno avuto per protagonisti dei clandestini africani. Nel generale silenzio si sono ben distinte parole come “delinquenti” “paura” “a casa loro”. Hajib non si è scomposto: si è avvicinato alle tre donne e ha detto semplicemente loro: “Fatti orribili. Ma perché italiani parlano di immigrazione solo quando c’è tragedia?”. Poi ha rivolto lo sguardo verso di me: ma stavolta, anch’io non avevo alcuna risposta.