Fleur du gaffe

▶ La ministre de la culture incapable de citer un ouvrage du prix nobel de littérature – YouTube.

“La cultura è ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto” sentenziava dalla cattedra, citando, con tono solenne, lo scrittore americano Burrhus Skinner, la mia puntigliosa e inflessibile insegnante di greco, la stessa che continua a materializzarsi in quei puntuali incubi da cui mi risveglio, in preda all’angoscia, alla vigilia di ogni importante appuntamento di lavoro e che era solita avviare le sue temutissime interrogazioni con un sadico e implacabile scorrere su e giù dell’indice sull’intero registro dei nomi, gesto di norma siglato da un secco “e naturalmente Guasti” (“naturalmente, figurati se non mi chiamavi anche stavolta, vecchia strega!” bofonchiavo io, spesso impreparato, alzandomi in piedi). Già, la cultura, questo prezioso, determinante e spietato banco di prova in base al quale eleviamo o facciamo a pezzi, in tempi rapidi, la reputazione delle persone con cui ci rapportiamo quotidianamente, un infinito e caledoscopico serbatoio (talvolta di un vuoto così cupo e desolante) di conoscenze, nozioni, date e avvenimenti, in molti casi provenienti da anni lontani di studi zoppicanti e di attuali piacevoli letture, conservato adesso in mente un po’ alla rinfusa, e che sarebbe buona norma e indice di apprezzata curiosità riuscire ad ampliare con costanza, giorno per giorno. Una fondamentale scorta di sapere vario, indispensabile alla vita e in qualche caso, altrettanto disorganizzata, che ci adoperiamo con tutte le forze di trattenere tra le pieghe del nostro cervello e che al contrario ci arriva sempre a tradire di fronte alla prima definizione storica di un qualsiasi cruciverba (“questo accidenti di Faraone, com’è che si chiamava?) o alla domanda decisiva di quel giochino a quiz totalizzante e dannoso che avete maledettamente scaricato sul vostro cellulare (a proposito, caro Franz65 che mi hai battuto con quei ridicoli quesiti sullo sport, sarebbe il caso ti decidessi a concedermi la rivincita).

Ma se, da cittadini di un Paese universalmente riconosciuto come custode di una delle più antiche e rinomate tradizioni artistico-letterarie, patria di sommi poeti, pittori e studiosi, ci indigna e ci scandalizza l’ignoranza plateale spesso dimostrata ai microfoni da qualche nostro esponente politico in vista (così come l’inglese tra il fantasioso e l’approssimativo di un premier che ribattezza le proprie riforme con accattivanti anglicismi e nella stessa lingua poi si esprime al pari di un dodicenne), può forse esserci di consolazione il sapere che, almeno qui in Europa, non siamo poi così soli. Oltralpe infatti, la graziosa Ministro per la Cultura francese dell’ultimo (e rimpastato) governo Hollande, la 41enne di origini sudcoreane Fleur Pellerin, studi alla prestigiosa Ena (che sforna tra l’altro gran parte della classe poltica) e un passato da sottosegretario al Commercio, ha da poco candidamente confessato, ai microfoni della tv privata Canal Plus, non solo di non conoscere neanche un’opera dello scrittore suo connazionale e ultimo premio Nobel per la letteratura Patrick Modiano, ma di non riuscire, per mancanza di tempo, a leggere un solo libro da ben due anni (video allegato). Adesso, al di là del possibile apprezzamento per un’ammissione così sincera, espressa poi senza alcun imbarazzo, ma con tutta la simpatia, mia cara Fleur, quella “cultura” che compare proprio nella definizione del tuo stesso ministero, non andrebbe onorata o comunque maggiormente meritata con una buona lettura da concedersi ogni tanto, fossero anche quei cinque minuti prima di andare a dormire o, perché no, anche in bagno? Perché, per quanto tu possa affannarti a precisare che un’agenda troppo fitta di impegni ti permetta appena di spiluccare qua e là qualche giornale, notizia o agenzia, il sapere, per fortuna, anche nella precipitosa e superficiale era di internet, passa ancora attraverso i libri. E non è un caso che l’etimologia stessa del termine “libro” sia strettamente imparentata proprio con quella della parola più importante del nostro intero vocabolario, “libertà”. E’ la libertà, quella intellettuale soprattutto, la sola risorsa di cui avremmo bisogno, tutti, non solo per governare, ma per nutrire a dovere la nostra coscienza di uomini.

Changez la France!

Nella variegata e a tratti poco comprensibile carriera professionale del vostro blogger preferito (perché, non lo sono ancora?), abituato, anzi, quasi rassegnato, per spirito di sopravvivenza, a destreggiarsi tra i lavori più disparati, lontani dalla sua indole, dalla sua formazione, dalle sue ambizioni mai accantonate e spesso da un compenso adeguato all’impegno e al tempo profusi, fa da tempo la sua curiosa comparsa anche il singolare e alienante mestiere di bigliettaio museale. Lavoro che se non fosse per gli spazi angusti da dividere inevitabilmente con le manie o l’esuberanza dei colleghi (i vani delle biglietterie sono spesso comodi quanto un acquario per una balenottera azzurra), per la ripetitività delle solite frasi da recitare a memoria, in tre/quattro lingue diverse, migliaia di volte al giorno (con lo stesso entusiasmo manifestato da una mucca sulla via del macello) e per l’infinità dei conti a fine turno, impossibili da affrontare con la lucidità necessaria, resterebbe con un unico, insormontabile problema: i turisti. Categoria in cui, prima o poi, nella vita, rientriamo tutti, se non altro per la banale considerazione che almeno uno o due viaggetti l’anno, fossero anche a Mirabilandia o a Medjugorje (o in entrambe le discutibili mete), riusciamo a concederceli, senza forse la piena consapevolezza di quanto possiamo diventare terribilmente insopportabili per coloro che invece di turismo vivono. Perché il turista in vacanza, nel 90% dei casi, esige o dà per scontate la gentilezza e la disponibilità di qualsiasi altro lavoratore incrociato anche solo per caso, idealmente ed obbligatoriamente incluse, in ogni suo acquisto, nel pacchetto “pago – pretendo – mi rilasso”. Così, guai a rendergli esplicito il disgusto o lo sconforto che ti assale ad ogni conferma di un’ignoranza raccapricciante (“ma quale Venere del Botticelli c’è qui, la scultura o il dipinto?”), di una maleducazione indicibile (“perché, non posso cambiare il pannolino a mio figlio nel museo?”), di un’assenza evidente del più elementare abc sul funzionamento di uno spazio espositivo (“la galleria chiude alle 18.30 cosa vuol dire”?): ogni richiesta, anche la più inutile ed inopportuna, andrebbe, dal suo punto di vista, sempre ed esclusivamente accolta dalla benevolenza di un (quanto meno falso) sorriso.

In questo, e la circostanza dovrebbe consolarci almeno un po’, gli italiani non rientrerebbero però tra i popoli annoverati come i più sgarbati quando si tratta di aver a che fare con le numerose e non sempre ortodosse esigenze del turista; primato che invece l’immaginario collettivo, qualche stereotipo di troppo e probabilmente una serie infinita di aneddoti (nostri come dei nostri amici e parenti) assegnerebbero ai francesi e in particolar modo ai parigini. Scommetto che anche voi avete un cugino o un conoscente che quella volta, proprio sotto la torre Eiffel o lì di fronte a Notre-Dame, alla classica richiesta di un’informazione rivolta al passante di turno, ovviamente parigino doc (come se fosse possibile riconoscerli ad una sola occhiata) si è sentito snobbato, volutamente incompreso o ignorato perché non si era espresso con l’accento giusto, con la “r” smorzata nella maniera corretta, con quella “e” chiusa impossibile da pronunciare senza una ridicola smorfia delle labbra. Leggenda? Forse non del tutto: perché un briciolo di verità deve pur esserci se la Camera di commercio cittadina e il Comitato regionale del turismo hanno deciso all’unanimità di diffondere, tra i professionisti del settore, una sorta di prontuario su come trattare i milioni di visitatori, specialmente stranieri, che fanno di Parigi una delle mete più ricercate al mondo. Ecco che allora, tra negozianti, ristoratori e addetti vari hanno fatto la loro comparsa circa 30.000 copie del curioso fascicoletto che, come riportato dal quotidiano Le Parisien  (http://www.leparisien.fr/espace-premium/val-de-marne-94/les-commercants-parisiens-pries-d-etre-sympas-avec-les-touristes-18-06-2013-2905927.php) si limita ad elargire consigli su come riuscire a risultare più simpatici ai turisti provenienti dai cinque continenti, senza però pretendere di insegnare nulla (perché poi, si dice che i parigini siano anche permalosi). Una piccola rivoluzione insomma, che pare intaccare il noto sciovinismo dei nostri cugini d’Oltralpe e che si accompagna casualmente ad un altro lieve terremoto nelle abitudini, stavolta alimentari, degli stessi francesi. Stando infatti ai risultati di un recente sondaggio, un altro simbolo dei loro usi e costumi come la baguette  (http://www.ansa.it/web/notizie/specializzati/terraegusto/2013/06/26/Francesi-tradiscono-baguette-preferiscono-pasta_8932515.html), il tipico, fragrante filoncino, dallo scomodissimo formato, che non entra mai, neanche spezzato, in nessuna borsa, andando così sempre a finire, poco igienicamente, sotto l’ascella, verrebbe soppiantato, soprattutto dai giovani, da altri tipi di preferenze in fatto di pane. Oggetto che per fortuna, tra le varie e bizzarre richieste (vende anche poster? ombrelli? un caffè macchiato?) effettuate dai turisti al mio sportello in biglietteria non risulta. Almeno non ancora.