Father and son

“Ma perché, sei stato pure a Sebastopoli?” “Ah, no, fino lì no. Da quelle parti solo a Odessa. Non te l’avevo mai detto?”. Ovviamente no. Ma mio padre è così. Ha toccato per lavoro più mondo di quanto probabilmente riuscirei a vederne io in tre diverse esistenze, e quel suo girovagare semimisterioso, con cui al suo posto avrei riempito intere serate e pagine di racconti autocelebrativi, continua invece a rappresentare per lui un dettaglio ininfluente, un normalissima attività alla portata di chiunque, un passato insondabile da non accennare o ripercorrere quasi mai. Salvo poi tirarlo fuori d’un tratto, come cornice a un aneddoto qualunque che ti butta lì a casaccio, magari mentre stiamo parlando d’altro, di politica internazionale come di cretinate (più spesso di cretinate), sorprendendoti con frasi del tipo “mi sembra che quella volta fossi a Chicago…” e io “Aspetta. Sei stato a Chicago?” “Sì, vabbè, un po’ in tutti i Grandi Laghi. Quella volta…” e io di nuovo “Ma quando, scusa’” “Uh, un sacco di tempo fa. Mi pare fosse dopo New York…” “Tu? a New York?” “Sì, forse era il ’73. Stavano giusto terminando le Torri Gemelle” e così via. Finchè, proseguendo tra mille mie fastidiose interruzioni, con le pinze e tanta pazienza, riesco a ricomporre una minima parte di quel suo contorto puzzle di spostamenti, che vanno dalla Turchia alla Cornovaglia, passando per il Canada, l’Olanda, (“a Rotterdam mi pare di averci trascorso quasi un anno”), l’Argentina e ormai non conto più quanti altri paesi o città. Perché l’errore che più spesso arrivo a compiere con i miei genitori è il pensare, guardandoli ora affacciarsi serenamente alle soglie di una tranquilla terza età (e se scrivessi “vecchiaia” sarei un uomo finito), che la loro vita consista soprattutto in quella movimentata parentesi di unione familiare che da trenta anni (più o meno) include anche me. Mentre a volte mi rendo conto di non sapere nulla o quasi delle loro esistenze prima del mio arrivo, dei loro sogni o della loro quotidianità di giovani, delle esperienze più o meno importanti che come persone, prima che come madre e padre, li hanno trasformati in ciò che adesso conosco e amo. Considerando poi che babbo (e guai a chiamarlo papà) è un tipo particolarmente riservato, taciturno, poco incline a parlare di sé e del proprio vissuto, al contrario dell’esuberanza incontenibile di mamma (naturalmente ereditata dal sottoscritto), che quella sera stessa, qualche giorno fa, ne aveva approfittato per lasciarci soli, circostanza rarissima, andandosene così ad un concerto di Massimo Ranieri (e scatenandosi di sicuro sulle note di Se bruciasse la città).

Quale migliore occasione per dar sfogo a tutta la mia invadente curiosità, un inaspettato e forzoso tête a tête, io e mio padre, cena e poi una lunga chiacchierata in auto (“Guida tu” mi fa appena salito, “Ma è la tua macchina nuova, non..” “Non sei più andato dall’oculista, eh?”) e milioni di domande che mi salgono tutte insieme alla gola. Vorrei chiedergli se l’essere genitore ha significato anche rimpianti o delusioni, se prova mai paura di invecchiare, se l’ironia disarmante di tante sue risposte è, come per me, la più semplice via di fuga dall’imbarazzo. “Ricordi il giorno in cui sono nato?” “Sì, certo. Ho aspettato fuori la sala parto tutto il tempo. Sono solo uscito due minuti a fumare. Sei nato in quei due minuti. La mia prima incazzatura con te”. “Avresti dovuto smettere allora. Di fumare, dico” “Ci sono riuscito un po’ dopo. Era il 21 Maggio del ’92″. Un momento: una data così precisa a memoria? Possibile? In genere è una mia prerogativa. Vuoi vedere che noi due, così diversi, talvolta distanti, nutriamo invece la stessa cervellotica ossessione per cifre, anni e numeri? Vuoi vedere che gran parte delle mie stramberie, dei miei pensieri maniacali, dei miei gesti compulsivi hanno invece una base genetica? Accostiamo con l’auto, il luogo dell’appuntamento concordato con mamma. “Questa piazza mi infastidisce. Ogni lato un loggiato uguale. Preferisco l’asimmetria” mi dice lui, inaspettatamente. Una frase da me, penso di nuovo io, ancor più stupito. Che di quella piazza ho sempre odiato la stessa cosa, ma non credo di averlo mai detto a qualcuno, perché non credevo che qualcuno l’avrebbe mai pensato o anche solo capito. Ed ecco poi di seguito altri, due, tre, quattro piccoli indizi, tracce di una inimmaginabile vicinanza di impressioni, punti di vista, riflessioni. Ed ecco allora il mio consiglio, forse opportuno proprio con l’avvicinarsi della festa del papà: se ne avete ancora la possibilità, provate, come me l’altra sera, a trascorrere del tempo, anche poco, da soli, con vostro padre. Potreste perfino scoprirvi d’improvviso più simili di quanto non abbiate mai pensato. Mi squilla infine il cellulare, rispondo. “Chi era?” “Mamma. Sta arrivando. Credo. Non saprei. Cantava Rose rosse” “Uh, la conosci. Quando fa qualcosa che le piace non esiste più niente o nessuno. Proprio come te. Siete uguali”. Appunto. E io cosa stavo dicendo?

Un altro 8 Marzo

Tra i quasi 300 contatti che ho attualmente sul mio profilo Facebook, Monica è l’unica che non conosco ancora di persona. A suggerirmela è stata Francesca, riccioli neri indomabili e temperamento artistico che rallegrano le sale della Galleria del Costume di Palazzo Pitti, con cui collaboro da anni. “Pubblicate la stessa musica” mi disse “vi piacerete”. Aveva ragione: al di là della comune e comprensibile passione per Mina, scopro una donna di rara intelligenza, sensibilità, umorismo. Per chi crede nel destino come me, un incontro fortunato, seppure virtuale, non è mai frutto del caso. Ieri l’ennesima conferma: io che giro in rete all’affannosa ricerca dell’argomento giusto per il post dell’8 Marzo, evitando come la peste le solite romanzine sulla degenerazione di una festa spesso ridotta alle chiappe depilate di uno spogliarellista, lei che pubblica sulla sua pagina un invito a contattarla per chi è a corto di argomenti sulla giornata. Perfetto, mi dico, e mi faccio avanti con un messaggio. Vengo così a conoscenza che Monica, insieme ad altri genitori di bambini nati prematuramente, ha fondato a Firenze nel 1996 un’associazione chiamata Piccino Picciò (www.piccinopiccio.it - info@piccinopiccio.it) che opera nei reparti di Terapia Intensiva Neonatale di Careggi, San Giovanni di Dio, Meyer e di Prato, che fa parte del Coordinamento Italiano delle Associazioni per la Neonatologia “Vivere Onlus” (www.vivereonlus.com) con sede a Modena, e che aderisce inoltre a EFCNI – The European Foundation for the Care of Newborn Infant  (www.efcni.org) con sede a  Monaco. L’associazione è attualmente impegnata nel tentativo di apportare delle necessarie modifiche alla Legge sui congedi parentali, datata appunto 8 Marzo 2000. Ed è qui che il blogger si fa da parte per lasciare spazio all’efficacia delle parole di Monica, convinto di stimolare una vostra riflessione al riguardo:

“Sono già passati ben 13 anni da quando la Legge n. 53 dell’8 Marzo 2000 che regola i congedi parentali, si adeguava alle esigenze di chi partoriva prematuramente. Venivano riconosciuti anche i due mesi pre-parto, che fino ad allora andavano perduti, che si sommavano ai 3 post partum. Ma la neonatologia, scienza in continua evoluzione, ha ulteriormente abbassato la soglia dell’età gestazionale e quindi, ad oggi, la legge deve essere rivista ed aggiornata. E’ un po’ di tempo che le associazioni dei genitori ci provano, per il momento con scarsi risultati. Eppure, provate a pensare quanto sia fondamentale la presenza della mamma vicino al suo bambino che sta vivendo una difficoltà così grande. Noi che siamo i possessori del brevetto della “mamma italiana” siamo, con la Spagna, fra gli ultimi in Europa per quanto riguarda la presenza dei genitori nei reparti di cure intensive. Fortunatamente, grazie all’impegno degli operatori, dal 3 Marzo anche alla Maternità di Careggi il reparto è aperto 24 ore su 24, ma non è così in tutta Italia. Molto spesso i 5 mesi di astensione dal lavoro finiscono prima che il bambino sia stato dimesso, per questo è importante adeguare la Legge. Anche perché se porti a casa un bambino di nemmeno 2 Kg, che ha bisogno di numerosi controlli ed esami, è chiaro la necessità di avere la mamma che se ne occupa. E le nostre mamme, che hanno vissuto un trauma così forte, uno strappo improvviso, hanno bisogno di tornare alla normalità. Il tempo del ricovero è un tempo sospeso. Anche solo recuperare lo spazio del rapporto di coppia risulta difficile. Truccarsi, ascoltare musica, leggere un libro. Sentirsi donna di nuovo. Pensare al futuro, programmare, è una fatica immensa. Le mamme troppo presto, le mamme con un figlio nel palmo della mano, spero possano presto veder riconosciuto questo loro diritto. Allora sarà davvero festa”.