▶ Il Palio dell’Argentario tra nomi e numeri – YouTube.
Non so che effetto faccia a voi, ma a me, sentirne solo la parola, evoca scenari apocalittici e pecorecci, personaggi caricaturali degni dei migliori film di Nanni Loy o una di quelle gag in romanesco con la Sora Lella che soffoca dalle risate mentre agita nervosamente su di sè un ventaglio. Mi vengono in mente bambini paffutti, appiccicosi di crema solare, che scavano buche nella sabbia con una paletta di plastica rossa in una mano e un panino con la frittata nell’altra, tra file fitte di ombrelloni tutti uguali e le chiacchiere pettegole di vecchie signore sdraiate al sole, abbrustolite come pezzi di carbone. Mi immagino chilometri di macchine ferme in coda, zeppe fino al tettino di canotti, gonfiabili, scorte di cibo stipate in voluminose borse frigo fluo, l’ormai immancabile playstation o l’Ipad per i bambini paffuti di cui sopra, tutte ipoteticamente dirette verso un’affollatissima spiaggia, su cui non si potrà camminare senza essere colpiti dal pallone lanciato dal tamarro tatuato di turno, che ha improvvisato un campo di calcio a fianco al vostro asciugamano appena steso. E non lo dico per apparire snob, né per rinnegare le mie origini provinciali e borghesuccie di cui in realtà vado fiero. Ma nel mio squinternato immaginario il Ferragosto italiano, culmine e forse inizio del declino della stagione che tanto amo, coincide in pieno con la visione più trash, nazional popolare e forse un tantinello, in negativo, mitizzata, che si possa pensare. Per un semplicissimo motivo: così me lo hanno sempre raccontato, io non l’ho mai vissuto.
Perché per me, e per tutti i miei compaesani (così oggi sconfino finalmente in un po’ di sano campanilismo), tutti i nativi cioè di quella minuscola e caratteristica località che è Porto Santo Stefano, provincia di Grosseto – splendido mare, nessun cinema e circa 7000 anime che si conoscono per lo più per soprannome – il 15 Agosto possiede soltanto un unico, profondo, significato: il palio marinaro (video allegato). Che non è ovviamente celebre come quello che vantano altri centri toscani, ci mancherebbe, ma che insomma, disputandosi dal 1937, tranne che per breve un’interruzione a causa della seconda guerra mondiale, è divenuto ormai una consolidata tradizione da ben 72 anni. Ma quello che più di ogni altra cosa terrei a sottolineare, non è tanto lo svolgimento tecnico della gara in sè – quattro equipaggi, ciascuno per rione (Pilarella, il mio, con il maggior numero di pali vinti, seguito da Croce, Valle e Fortezza) che si affrontano in un estenuante percorso di 4000 metri sulle tipiche imbarcazioni a remi chiamate guzzi – quanto l’attaccamento incondizionato che nutre nei suoi confronti ogni santostefanese. Che cresce con un marcato senso di appartenenza ad una precisa e folkloristica comunità, il rione appunto, imparando sin da piccolo le dinamiche di un’innocua rivalità, di parole come sfida, competizione, festa collettiva, gioendo o al contrario soffrendo per ogni bruciante sconfitta o per ogni vittoria inaspettata. Che reputa un’usurpazione, quasi un affronto, un’appropriazione indebita il turista o il forestiero che indossa la coccarda dei suoi colori rionali, perché a suo avviso incapace di poterli vivere e condividere appieno. Che può abbandonare il paese per lavoro, per amore o per qualsiasi altra ragione ti possa sradicare dalla tua terra, può perdere nel tempo, parlando, il caratteristico accento del posto (la cosiddetta “calata”) ma che trovi, immancabile, ogni Ferragosto, nel solito punto, a godersi in beata solitudine o in chiassosa compagnia la visione del suo palio. Che può, come il blogger, mancare, per una professione detestabile, alle ultime 7 edizioni su 10, senza potersi gustare tutto il loro contorno di polemiche, ripicche, gossip e trepidazione; ma che sarà lì con testa, la delusione cocente per la lontananza e ovviamente un piccolo pezzettino di cuore (e se riuscite a dirmi anche dove lo becco in tv quest’anno ve ne sarei grato).