Così lontano, così vicino…

La prima cosa che ti sorprende in Elena è il suo spiccato e un po’ cinico senso dell’umorismo, il tempismo perfetto delle sue battute taglienti, quell’ironia sottile e sferzante che solo le vere persone di spirito riescono, con leggerezza ed irresistibile efficacia, a rivolgere ugualmente a sé come agli altri. Una qualità rara ed apprezzabile che a prima vista sembra perfino cozzare con il suo aspetto discreto e sempre naturale, i capelli nerissimi ad incornicare lo sguardo vitale e liquido, la voce inaspettatamente acuta e melodiosa, un simpatico rossore ad invaderle il viso quando, suo malgrado, si trova all’improvviso al centro dell’attenzione. Evitando quei lunghi e complicati giri di parole necessari per descrivere la nostra semi-parentela (è la sorella del compagno di mia sorella), io ed Elena ci chiamiamo fra noi, più semplicemente, Brother e Sister, anzi, da cinque anni a questa parte, da quando condividiamo cioè la gioia (e talvolta il faticoso babysitteraggio) di una splendida nipote, Giulia, peperina e attaccabottoni con chicchessia, Elena è diventata per tutti (nostra nipote compresa) l’adorata e insostituibile “zia Sister”. Quella che, puntuale, ad ogni cena o compleanno in famiglia, prepara torte così golose ed esteticamente impeccabili che paiono appena uscite dal manuale di Nonna Papera, quella che mostra energia e pazienza smisurate di fronte ai giochi fantasiosi proposti da Giulia (come il suo preferito “la principessa e il popotamo”…indovinate il mio ruolo? Purtroppo no, non la principessa), quella che riesce a non perdere mai le staffe persino di fronte ai suoi inevitabili capricci a tavola o alla normalissima, infantile ed infinita ciclicità delle sue richieste di cinquenne (“giochiamo? perché? e adesso giochiamo?”). In Elena ho trovato una delle compagnie migliori per assistere ai concerti, perché entrambi detestiamo immersioni soffocanti nella folla, preferendo di gran lunga gustare lo spettacolo arretrati o in disparte (spesso vicino ai bagni) dove c’è tutto lo spazio per ballare, saltellare, azzardare coreografie tra le più improbabili, da eseguire al contrario con il necessario condimento di espressioni serie e impegnatissime. Di Elena apprezzo l’immediata sincerità di parere, il lessico ricco e minuzioso che emerge in discorsi talvolta venati di malinconia, la cultura sterminata in fatto di cinema, l’apertura e la curiosità in campo artistico, che le è costata più di una visita nel museo di moda con cui collaboro (e dove l’ultima volta l’ho sfinita con una digressione di mezz’ora sulla differenza tra jeans e denim) e un’originalissima serata in un’installazione all’aperto, un labirinto realizzato con sole balle di fieno, da cui siamo usciti dopo lungo tempo, con residui di paglia tra i capelli (i suoi) e sugli abiti (di entrambi), tra le risate, la stanchezza, la tentazione assecondata di scattarci un selfie (che non allego per motivi di decenza).

Con Elena condivido anche la passione sconfinata per l’azzurro del mare ed i continui tentativi di incursione lavorativa nel campo del giornalismo, ma rispetto alla superficialità dei miei settori di competenza, abbigliamento e poco più, lei si è specializzata in un ramo ai miei occhi tra i più tosti e seri esistenti, quello delle relazioni internazionali, motivo del suo saluto, qualche mese fa, per andare a seguire un’interessante e indubbiamente gratificante opportunità di crescita professionale fuori dall’Italia: a Bruxelles. Venire a conoscenza dell’orrore e dell’insensata atrocità dei recenti attentati al riparo delle tue mura domestiche, in un altro paese, a contatto con le sole immagini e notizie terrificanti che a poco a poco arrivano a riempire lo schermo televisivo, provoca un senso di indicibile sgomento misto all’egoistico sollievo per la fortuna di trovarsi al momento altrove. Contemplare invece la possibilità che la furia assassina possa coinvolgere anche i tuoi affetti, insinuarsi così in qualche modo nella tua ben più tranquilla quotidianità per arrivare a stravolgerla, infilitrarsi tra le pieghe della tua stessa esistenza, ti costringe a fare i conti con una paura ancor più vera e paralizzante, con un dolore cieco, con un’angoscia implacabile e impotente che non credevi di poter mai provare per quelle stesse ragioni. La mattina degli attentati, tra la frammentarietà di notizie che giungevano dal Belgio, tra l’eco crescente dei nomi drammaticamente citati di posti che Elena ormai frequenta da qualche tempo (la stazione della metro di Maelbeek a due passi dal suo luogo di lavoro, il suo volo di ritorno fissato solo per il giorno seguente), è stato un continuo e sfibrante tam tam di messaggi, di aggiornamenti costanti sulle sue condizioni, un coro di rassicurazioni, a volte date sdrammatizzando, nascondendo, per quanto possibile, preoccupazione e nervosismo. Elena ieri è riuscita a tornare finalmente in Italia, dopo che un improvvisato e notturno viaggio in navetta di dieci ore giù per l’Europa ha rimpiazzato il suo volo cancellato, e abbiamo così potuto tutti alleggerire l’improvvisa e sgradita tensione di questi giorni riabbracciandola, compresa nostra nipote, che pur non sapendo niente dell’accaduto, non l’ha mollata, al solito, per un solo secondo. Elena soprattutto, in barba ad ogni più logica previsione e forse contro il comune buonsenso, ha deciso comunque di ripartire, fra pochi giorni, per il suo ultimo mese di impegni a Bruxelles: perché non piegarsi all’insensatezza di simili atrocità, rifiutarsi di cambiare una sola virgola delle nostre più semplici abitudini o decidere di godersi, nonostante tutto, quell’opportunità che ci siamo meritati è la risposta più giusta e coraggiosa che dobbiamo a noi stessi, tra la barbarie e la follia incomprensibile di questi, così tragici, momenti.

Oggi è un altro giorno…

Brandt Zwieback TV Spot 2014 “Langschläfer” – YouTube.

Vorrei svegliarmi lentamente, la luce che s’insinua timida dalla finestra bussarmi con leggerezza sulle palpebre, provare ad aprire almeno un occhio per piegare lo sguardo assonnato verso la sveglia che annuncia l’ora di alzarsi, e infine scoprire che quella sgradevole sensazione ancora presente sulle braccia e nel petto è soltanto il consueto rimasuglio di un incubo ricorrente. In alternativa vorrei riuscire ad andare in letargo, perché trovo tremendamente ingiusto creare una così perfetta scappatoia alla detestabilità dell’autunno e renderla esclusiva prerogativa di alcune specie di animali, che vai a sapere poi se siano davvero in grado di apprezzarla fino in fondo, loro che sono tutti istinti elementari incorniciati da pelo che si arruffa. Io no, mostrerei al contrario un’enorme gratitudine a chiunque se ne dichiari l’inventore, se solo riuscissi a farmi cullare per i prossimi mesi dall’abbraccio di un sonno profondo e ristoratore, con golose e sufficienti provviste di cibo a portata di mano, da poter spiluccare di tanto in tanto, pronto a distendermi beatamente su di un letto morbido, con il probabile sorrisino idiota dato dalla speranza di un risveglio in un momento più benevolo, caloroso, in altri termini, migliore. Invece al momento non ho scampo, mi tocca star qua, a inaugurare questo mese in balìa della mia puntuale e invadente inquietudine stagionale, le cui picchiate di umore sono stavolta perfino aggravate da inimmaginabili scoperte, come quella di un movimento capillare autoproclamatosi “sentinelle in piedi”, nome che pare riecheggiare l’altisonanza tipica delle manifestazioni del nostro ventennio più buio (non quello più recente, l’altro), quando esisteva lo spauracchio di squadroni pronti a “vigilare” sulla condotta altrui. E per quanto uno possa tentare di non farci caso o di liquidarlo come l’ennesimo fenomeno generato dalla più bigotta ottusità, ecco che poi ti ritrovi ad esporti e a misurarti in confronti sfibranti con sconosciuti dalle opinioni retrograde che, sulle bacheche dei tuoi amici di Facebook, ne arrivano pure a difendere i modi, facendosi scudo con quell’innocua apparenza da “pacifica dimostrazione di dissenso”, come se il silenzio irremovibile di certe prese di posizione non fosse ugualmente in grado di turbare, offendere, ferire. E avverti di nuovo accendersi in te altrettanti covoni di rabbia e frustrazione se proprio negli stessi giorni la vita per dispetto ti sceglie per raccogliere lo sfogo di chi, con coraggiosa serenità, ha deciso di tentare a piccoli passi il proprio coming out e invece di ottenere quel placido e affettuoso sostegno che tante famiglie “naturali” sembrano sbandierare a vanvera come loro unico e vero pilastro, per tutta risposta si trova invece ad essere trattato al pari di un’insormontabile delusione, di una scheggia impazzita, di una maledizione del destino. Trovo perfino più irritanti che divertenti certi plateali dietrofront conditi di opportunismo, orchestrati da giovani arriviste ed aspiranti first – lady, difficili da distinguere nel look dalle drag – queen di cui si circondano per affermare la propria riscoperta vocazione alla tolleranza, così come le anacronistiche e veementi ripicche di taluni ministri scandalizzati dall’operato di più concreti ed intelligenti amministratori locali. Mi infastidisce addirittura constatare che mentre da noi si possa al massimo aspirare negli spot ad un attempato sex – symbol che stuzzichi i sogni erotici delle consumatrici al ritmo di discutibili doppi sensi come il “biscottone inzupposo”, nella vicina Germania (dove comunque veri e propri “matrimoni” tra persone dello stesso sesso sono ancora inesitenti) anche per pubblicizzare delle semplici fette biscottate si ricorra invece alla sorridente e verosimile quotidianità di una coppia apertamente gay (video allegato). Si, lo so che un domani anche qui da noi assisteremo finalmente al trionfo di questa lunghissima ed estenuante battaglia di civiltà, che riusciremo a far valere i sacrosanti diritti di tutte le persone senza alcuna etichettatura di genere od orientamento, che ci risveglieremo infine al calore di una stagione che avrà spazzato via tutta la gravità di quei pregiudizi inneggianti all’intolleranza e all’omofobia. Un domani, certo. Non oggi. Oggi, perdonatemi, è maggiore lo sconforto.

Le mille bolle blu

Dopo aver attentamente seguito con i suoi fratelli, dall’alto della cancellata che sovrasta il parcheggio, quelle due o tre manovre svogliate e audaci con cui finisco per posteggiare l’auto sempre e solo dal lato sinistro (d’altronde soltanto così mi riesce), il primo a rivolgermi la parola è Davide, 7 anni, occhi enormi e indagatori, i capelli venati di un simpatico colore rosso, proprio come il manto di certi scoiattoli che talvolta si vedono scendere giù dagli alberi. “Me lo dici come ti chiami?” gli faccio io subito dopo averlo raggiunto, ricambiando quel suo sguardo liquido e dubbioso, ed eccolo finalmente allargarsi in un primo, disarmante sorriso, per rispondere con prontezza inaspettata alla mia domanda “No!”. Appunto. “Lui è Mister No!” esordisce d’un tratto Giancarlo, un anno più piccolo, stessa aria svelta e furba del fratello, di chi ha imparato troppo presto a cavarsela da solo, mascherata però da un aspetto più mite e angelico, corredato di capigliatura biondissima ed occhi chiari e scintillanti. “Io mi chiamo Renata” aggiunge infine, con una dolcezza irresistibile, l’unica femminuccia del gruppo, sorella di entrambi e gemella di Giancarlo, come conferma l’identico sguardo luminoso e felino, incorniciato da un viso lievemente più paffuto, su cui svetta un piccolo tocco di civetteria, un minuscolo fermaglio a scostare dalla fronte qualche ciuffo di capelli. La temuta fase di presentazione, penso io, è andata meglio del previsto: tenuto a bada quel capriccioso groviglio di emozioni, causa di improvvise e inarrestabili lacrime che spesso si affacciano nei momenti meno opportuni, faccio finalmente la conoscenza della nuova, numerosa e scoppiettante, formazione familiare dei miei amici Silvia e Marco. Tra le pochissime e insostituibili persone su cui posso fortunatamente contare nella vita, di quelle che potresti svegliare nel cuore della notte certo che accorrerebbero senza porsi troppe domande, Silvia è senza dubbio la più indipendente, la più imprevedibile, quella dotata di una risata così fragorosa e coinvolgente da riuscire a trascinare chiunque in ore e ore di singhiozzi incontrollabili e divertiti. “Ho conosciuto un uomo interessante” mi confessò all’improvviso una sera d’inverno di qualche anno fa, lei che non aveva mai apertamente incluso la vita di coppia tra le sue priorità, “E? Dimmi di più!” la incalzai, “Beh, è riservato, ironico, molto piacevole…forse brutto!” “Brutto? Come brutto? Tipo Danny de Vito?” “Direi più Giancarlo Magalli!”. Ovviamente Marco, quell’uomo speciale di cui Silvia era rimasta allora così colpita, non assomiglia neanche lontanamente (e per fortuna) al nostro Magalli. Ovviamente, dopo poco più di un anno da quell’episodio, mi ritrovai piuttosto brillo e forse ancora incredulo a brindare al loro felice matrimonio.

Qualche mese fa, con la stessa consueta naturalezza con cui pochi minuti prima a tavola, durante una delle loro superbe e ipercaloriche cene che spesso preparano per me e il mio amore, ci avevano rivolto frasi cordiali del tipo “Prendi pure dell’altro arrosto. Vuoi ancora un po’ di vino?” Silvia e Marco ci confidarono, quasi all’unisono, dopo un breve sospiro: “Abbiamo deciso di adottare dei bambini!”. Silenzio. Stupore. Stavolta piango. “Bambini? Plurale? Più d’uno, quindi?” riuscii, non so come, a balbettare. “Sì, tre!”. Di nuovo silenzio. E mille parole saltar fuori all’improvviso e rincorrersi tra le pareti della testa. Coraggio. Incoscienza. Attesa. Follia. Amore. Soprattutto amore. Perché non credo esista un’altra e più plausibile ragione che possa spingerti ad affrontare mesi, forse anni, di lungaggini e asperità burocratiche, di continue e concrete speranze spesso rinviate o disattese, di momenti stancanti e precipitosi in cui sei chiamato a rivoluzionare tutta la tua vita per far spazio alle esigenze affettive e materiali di chi d’ora in poi diventerà tuo figlio. E poi tutte le domande, i dubbi, le paure talvolta paralizzanti con cui chi si appresta a diventare genitore deve fare necessariamente i conti, complicate da quel periodo delicatissimo e imprescindibile di contatto, conoscenza e confidenza da dover consolidare in un lungo soggiorno nel paese d’origine dei bambini, spesso uno Stato lontano, di cui è facile ignorare la lingua come le abitudini più elementari. “Stanca? No, perché?” fu la risposta immediata e serena di Silvia, contattata via Skype la prima volta, in una situazione che avrebbe fiaccato chiunque alla sola vista, i tre bambini a scorrazzare su e giù per casa e a salirle in braccio a turno, di sottofondo un escalation di richieste alla rinfusa, immancabilmente concluse con un emozionante coro di “mamma, mamma”! “Sono bellissimi, gioviali, ubbidienti e impazziscono per le bolle di sapone” fece inoltre in tempo ad aggiungere: un’informazione importante a cui sono ricorso per il mio primo regalo, tre coloratissime pistole sparabolle a pile, corredate di tre lacci per maxi-bolle, più una buona scorta di sapone. Risultato: dopo solo venti minuti dal nostro primo incontro, Davide, Giancarlo e Renata non solo avevano i capelli fradici, le mani tremendamente appiccicose e gli abiti pieni di aloni ma avevano soprattutto sepolto il giardino di casa sotto un infinito e surreale tappeto di bolle. “La prossima volta cerca di presentarti con un peluche” mi fa Silvia con un sorrisino sarcastico, incrociando complice lo sguardo di Marco in un puro momento di felicità. Perché diventare genitori è sempre un’esperienza speciale: in qualche caso, semplicemente, un po’ di più.

Father and son

“Ma perché, sei stato pure a Sebastopoli?” “Ah, no, fino lì no. Da quelle parti solo a Odessa. Non te l’avevo mai detto?”. Ovviamente no. Ma mio padre è così. Ha toccato per lavoro più mondo di quanto probabilmente riuscirei a vederne io in tre diverse esistenze, e quel suo girovagare semimisterioso, con cui al suo posto avrei riempito intere serate e pagine di racconti autocelebrativi, continua invece a rappresentare per lui un dettaglio ininfluente, un normalissima attività alla portata di chiunque, un passato insondabile da non accennare o ripercorrere quasi mai. Salvo poi tirarlo fuori d’un tratto, come cornice a un aneddoto qualunque che ti butta lì a casaccio, magari mentre stiamo parlando d’altro, di politica internazionale come di cretinate (più spesso di cretinate), sorprendendoti con frasi del tipo “mi sembra che quella volta fossi a Chicago…” e io “Aspetta. Sei stato a Chicago?” “Sì, vabbè, un po’ in tutti i Grandi Laghi. Quella volta…” e io di nuovo “Ma quando, scusa’” “Uh, un sacco di tempo fa. Mi pare fosse dopo New York…” “Tu? a New York?” “Sì, forse era il ’73. Stavano giusto terminando le Torri Gemelle” e così via. Finchè, proseguendo tra mille mie fastidiose interruzioni, con le pinze e tanta pazienza, riesco a ricomporre una minima parte di quel suo contorto puzzle di spostamenti, che vanno dalla Turchia alla Cornovaglia, passando per il Canada, l’Olanda, (“a Rotterdam mi pare di averci trascorso quasi un anno”), l’Argentina e ormai non conto più quanti altri paesi o città. Perché l’errore che più spesso arrivo a compiere con i miei genitori è il pensare, guardandoli ora affacciarsi serenamente alle soglie di una tranquilla terza età (e se scrivessi “vecchiaia” sarei un uomo finito), che la loro vita consista soprattutto in quella movimentata parentesi di unione familiare che da trenta anni (più o meno) include anche me. Mentre a volte mi rendo conto di non sapere nulla o quasi delle loro esistenze prima del mio arrivo, dei loro sogni o della loro quotidianità di giovani, delle esperienze più o meno importanti che come persone, prima che come madre e padre, li hanno trasformati in ciò che adesso conosco e amo. Considerando poi che babbo (e guai a chiamarlo papà) è un tipo particolarmente riservato, taciturno, poco incline a parlare di sé e del proprio vissuto, al contrario dell’esuberanza incontenibile di mamma (naturalmente ereditata dal sottoscritto), che quella sera stessa, qualche giorno fa, ne aveva approfittato per lasciarci soli, circostanza rarissima, andandosene così ad un concerto di Massimo Ranieri (e scatenandosi di sicuro sulle note di Se bruciasse la città).

Quale migliore occasione per dar sfogo a tutta la mia invadente curiosità, un inaspettato e forzoso tête a tête, io e mio padre, cena e poi una lunga chiacchierata in auto (“Guida tu” mi fa appena salito, “Ma è la tua macchina nuova, non..” “Non sei più andato dall’oculista, eh?”) e milioni di domande che mi salgono tutte insieme alla gola. Vorrei chiedergli se l’essere genitore ha significato anche rimpianti o delusioni, se prova mai paura di invecchiare, se l’ironia disarmante di tante sue risposte è, come per me, la più semplice via di fuga dall’imbarazzo. “Ricordi il giorno in cui sono nato?” “Sì, certo. Ho aspettato fuori la sala parto tutto il tempo. Sono solo uscito due minuti a fumare. Sei nato in quei due minuti. La mia prima incazzatura con te”. “Avresti dovuto smettere allora. Di fumare, dico” “Ci sono riuscito un po’ dopo. Era il 21 Maggio del ’92″. Un momento: una data così precisa a memoria? Possibile? In genere è una mia prerogativa. Vuoi vedere che noi due, così diversi, talvolta distanti, nutriamo invece la stessa cervellotica ossessione per cifre, anni e numeri? Vuoi vedere che gran parte delle mie stramberie, dei miei pensieri maniacali, dei miei gesti compulsivi hanno invece una base genetica? Accostiamo con l’auto, il luogo dell’appuntamento concordato con mamma. “Questa piazza mi infastidisce. Ogni lato un loggiato uguale. Preferisco l’asimmetria” mi dice lui, inaspettatamente. Una frase da me, penso di nuovo io, ancor più stupito. Che di quella piazza ho sempre odiato la stessa cosa, ma non credo di averlo mai detto a qualcuno, perché non credevo che qualcuno l’avrebbe mai pensato o anche solo capito. Ed ecco poi di seguito altri, due, tre, quattro piccoli indizi, tracce di una inimmaginabile vicinanza di impressioni, punti di vista, riflessioni. Ed ecco allora il mio consiglio, forse opportuno proprio con l’avvicinarsi della festa del papà: se ne avete ancora la possibilità, provate, come me l’altra sera, a trascorrere del tempo, anche poco, da soli, con vostro padre. Potreste perfino scoprirvi d’improvviso più simili di quanto non abbiate mai pensato. Mi squilla infine il cellulare, rispondo. “Chi era?” “Mamma. Sta arrivando. Credo. Non saprei. Cantava Rose rosse” “Uh, la conosci. Quando fa qualcosa che le piace non esiste più niente o nessuno. Proprio come te. Siete uguali”. Appunto. E io cosa stavo dicendo?