Cattivissimi noi

Maleficent – Trailer Ufficiale italiano | HD – YouTube.

Ci rimuginavo per l’appunto l’altra sera, ma come di frequente accade durante quel percorso sconnesso in cui si muovono le mie, spesso astruse, riflessioni, senza riuscire propriamente a fornire una risposta del tutto adeguata come anche solo a dare pace a certi inutili quesiti che continuano così a rimbalzare irrisolti tra le pareti di questa mente bizzarra. E ciò che non finirà mai di stupirmi è che, il più delle volte, a innescare dentro di me infinite e intricate serie di domande, siano normalissimi episodi quotidiani, occasioni superficiali o frivole, situazioni facilmente definibili come ordinarie o banali, sufficienti però a smuovere qualche interrogativo o questione di troppo. D’accordo, vado al sodo (ma quanto mi piacerà tirarla per le lunghe, eh?): decido, in linea con la mia indifendibile inclinazione al pop, di guardare l’ultima pellicola della Disney, Maleficent (nel video allegato il trailer), che poi altro non sarebbe che l’ultima versione per il grande schermo di una delle più celebri fiabe di tutti i tempi, quella della Bella Addormentata, narrata però questa volta da un punto di vista, almeno nelle intenzioni, più originale, quello del cattivo, anzi della cattiva, di turno, la fata Malefica appunto (lo so, pensavate fosse una strega. Anch’io. No, per quanto non esattamente docile, sempre di fata trattasi. Credetemi). E nonostante un riadattamento estetico del personaggio a dir poco affascinante, che ammanta la protagonista Angelina Jolie di una macabra e spettrale eleganza, regalandole due zigomi geometrici, che la nostra Ferilli parrebbe smunta al confronto, e un’intrigante collezione di copricapi dalle corna ritorte come solo certe antilopi africane, quella pura cattiveria che ci si aspetterebbe scorrere nelle vene di Malefica viene invece diluita nel film dalla narrazione di una serie di episodi che (non vi anticipo, tranquilli) spiegherebbero le ragioni della sua nota malvagità. Una piccola delusione insomma. Voglio dire: se c’è un pregio che possiedono le fiabe, tutte, è sempre stato il potere di ridurre i meccanismi della vita alla semplice contrapposizione tra bene e male (a parte la differenza fondamentale che nelle favole sia sempre e solo il bene a trionfare, e vissero tutti felici e contenti) di metterci di fronte, sin da bambini, alla consapevolezza che la cattiveria, il disprezzo, l’astio siano emozioni realmente esistenti, negli altri come in noi stessi, con cui un giorno dover purtroppo fare i conti. Abbiamo davvero bisogno di giustificare, mitigare, approfondire le ragioni di un’azione crudele, di un pensiero sprezzante, di un dispetto o di uno sgambetto fatto per il sadico gusto di farlo, tirando invece in ballo una qualsiasi altra motivazione o circostanza passata che sia la vera e recondita causa di certe umane e non proprio edificanti pulsioni? Occorre sul serio trasformare la strega cattiva delle fiabe in una fata dal vissuto traumatico così da poter comprendere meglio e addolcire ogni sentimento più odioso, allontanando dunque da noi l’idea che si possa semplicemente e intenzionalmente essere talvolta scorretti, immorali, diabolici? Perfino la stessa scienza sembra riabilitare certi comportamenti dettati da un pizzico di perfidia, ai quali dovremmo necessariamente ricorrere per metterci al riparo dalle delusioni in agguato dietro l’angolo, per garantirci qualche soddisfazione in più nella vita professionale e privata, per scansare infine tutte quelle inutili illusioni che una visione troppo ingenua e ingannevole delle persone e delle situazioni circostanti potrebbe al contrario fornirci (http://www.staibene.it/psicologia/articoli/single_news/article/la_cattiveria_e_utile_ecco_perche/?refresh_cens). Ma prima della sua presunta utilità dovremmo riuscire ad acquisire la consapevolezza della sua innegabile e non sempre giustificabile esistenza. Fingere che la cattiveria di per sé non ci appartenga affatto, questo sì, equivarrebbe a raccontarsi una vera, infondata, favola.

Innocenti ossessioni

Giorgio Pasotti “DIARIO DI UN MANIACO PERBENE” – Trailer Ufficiale HD – Dall’8 Maggio al Cinema – YouTube.

A stuzzicare la mia, ormai nota, curiosità è stata soprattutto quella scelta singolare del titolo. Con un ossimoro così ben confezionato, forte di una stringente e contrastante dualità, a chi come me ha imparato solo con il tempo a convivere, sdrammatizzandone gli effetti, con le proprie ossessive stramberie, quelle parole sembravano infatti fin troppo calzanti per non buttarsi a capofitto nella visione di una storia in cui poter, forse, ritrovare qualche traccia della stessa, imperfetta e rocambolesca, umanità. Aspettativa, questa, che la pellicola in questione, apprezzata e apprezzabile, non delude affatto: perché Diario di un maniaco perbene, primo, fiabesco eppur verosimile lungometraggio di Michele Picchi, proprio in questi giorni nelle nostre sale cinematografiche, è una commedia fresca e rassicurante, che, dosando garbo, tenerezza e ironia, tratteggia uno spaccato di una quotidiana e, allo stesso tempo, speciale esistenza, perennemente in conflitto con le proprie, inevitabili, voragini interiori e il desiderio di non lasciar trasparire all’esterno le più profonde o lievi incrinature dell’anima. Quelle, naturalmente, con cui si trova a fare i conti l’inquieto e stralunato protagonista, Lupo (Giorgio Pasotti), pittore quarantenne travolto da una sotterranea crisi personale e artistica, acuita da un approccio a tratti spiritosamente voyeuristico nei rapporti con il variegato universo femminile che lo circonda e da cui, talvolta, rimane irrimediabilmente turbato. Debolezza che tuttavia non gli impedisce di attirarsi sempre, e in parte di subire, le simpatie e gli apprezzamenti degli altri, invadenti o stravaganti, individui che gli ruotano attorno, a cominciare dai pochi amici, forse sinceri ma non altrettanto disinteressati, passando per una ex ancora asfissiante, preda di un catastrofico vittimismo sociale, fino ai vicini, calorosi e bizzari, tutti in qualche maniera sensibili ai suoi modi fin troppo cordiali e alla sua apparente linearità di condotta. Già, perché solo lo spettatore viene reso partecipe del sottile dramma, se così si può dire, presente nella testa di Lupo, leggibile tra le righe di quel travolgente flusso di pensieri all’origine di una vita più immaginata che vissuta, imperniata su una continua fuga dalla realtà per supposta inadeguatezza, la stessa che gli fa spesso accarezzare l’idea di un suicidio plateale, senza mai prenderla veramente in considerazione. Tutto sembra dunque scindersi per contrapporsi o per continuare a viaggiare su binari paralleli: la Roma “caciarona” e un po’ becera che il protagonista pare solo apprezzare dall’alto dei tetti, al rifugio nel suo appartamento sgangherato, i silenzi che seguono la gentilezza di un sorriso e che nascondono invece grovigli di riflessioni, i difetti di un’identità travagliata, invisibili a chi si ferma alla piacevolezza della superficie e che emergono dirompenti invece nei momenti di piena solitudine. Gli unici tra l’altro caratterizzati da una necessaria e spiazzante sincerità, altrove unicamente affiorata nel tenero rapporto di Lupo con la nipote, una bambina di nove anni, la sola di fronte a cui il portagonista sembra finalmente non temere l’eventuale ridicolaggine dei suoi comportamenti. Un film delicato, surreale ma concreto, consigliabile a chiunque, soprattutto a chi crede che nella vita, come in un qualsiasi altro gioco, non si tratti semplicemente di vincere o di perdere ma di provare almeno a imparare le regole.

Il genio in un ciak

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A soli tre anni dall’uscita del toccante docufilm L’amour Fou di Pierre Thoretton, prima opera a rischiarare le ombre di una silenziosa vita privata fatta di passioni brucianti e malinconia, e a quasi sei dalla sua tragica scomparsa (è morto il 1 Giugno del 2008) il cinema torna nuovamente ad occuparsi di uno dei più affascinanti e tormentati talenti della moda contemporanea, Yves Saint Laurent. E lo fa con l’omonima pellicola di Jalil Lespert, in questi giorni anche nelle sale italiane, già acclamata oltreoceano nei mesi scorsi per la delicata intepretazione del giovane protagonista Pierre Niney e per la sceneggiatura che il regista, di origine algerine come lo stesso couturier, ha scritto con il fondamentale contributo di Pierre Bergé, storico socio in affari, factotum e compagno dello stilista fino alla fine dei suoi giorni. Il risultato è un film raffinato e meticoloso, che al di là della realistica presenza delle creazioni originali dello stesso Saint Laurent e dello scioccante lavoro di immedesimazione compiuto dal bravissimo Niney, riesce a concentrarsi sull’intenso e travagliato rapporto tra i due, fatto di successi condivisi, liti apocalittiche e tradimenti, in un altalenante equilibrio che deve spesso fare i conti con le nevrosi e i demoni che affliggono l’anima del couturier. A far da sfondo alla complicata e duratura relazione il racconto dell’ascesa di un mito, quello dello stilista, chiamato a sostituire, a soli ventuno anni, il proprio maestro Christian Dior, al timone della più prestigiosa, e dunque più ambita, maison di alta moda parigina, tra la pressioni di un compito allettante e gravoso e la maledizione di un talento e di una personalità non sempre facili da gestire. Un ventennio professionale, dal 1956 al 1976, scandito prima dalla scomoda eredità di un ruolo portato avanti con rigore e determinazione e dal lancio poi, nel 1962, della propria etichetta, per la quale Saint Laurent passerà alla storia come uno dei più geniali e innovativi creatori di tutti i tempi. Di sua ideazione infatti alcuni dei capi presenti ancora oggi in ogni guardaroba femminile, dalla sahariana al blazer, dallo smoking al trench, passando per le memorabili collezioni ispirate nei tagli e nei colori ai capolavori di artisti del calibro di Mondrian e Braque, senza dimenticare la straordinaria capacità di tradurre in tendenze sensuali suggestioni etniche tratte dall’Oriente e dall’Africa. E poi ancora le intuizioni all’avanguardia di grande e magnetico comunicatore, lui primo stilista a posare completamente nudo, nel 1971, con addosso soltanto i suoi riconoscibili occhialoni, nel provocatorio scatto in bianco e nero di Jeanloup Sieff realizzato per la campagna, tutt’oggi copiatissima, del suo primo profumo maschile. Infine la complicità e la delicatezza del suo pacifico e leale rapporto con le donne, spesso amiche e muse, come la mannequin prediletta per la sua bellezza aristocratica, Victoire (Charlotte le Bon), o la profonda stima che lo legò, per decenni, alla sua più stretta collaboratrice e confidente, di reali nobili origini, Loulou de la Falaise (Laura Smert), forse colei che più di ogni altra ha impersonificato quell’ideale di superba e ricercata eleganza tipico delle sue creazioni. E che oggi finalmente torna a rivivere, sul grande schermo, in tutta la sua dirompente, originale e indimenticabile essenza.

Ballo ballo

▶ Kevin Bacon’s Footloose Entrance – YouTube.

Se avete affrontato anche voi quel delicato, avventuroso ed indimenticabile passo che separa l’infanzia dall’adolescenza, nei lontani anni ’80 (vado ovviamente per ipotesi, sapete bene che, per motivi anagrafici, la mia memoria non potrebbe arrivare sin là), la vostra crescita sarà stata di sicuro turbata dall’esistenza di capi d’abbigliamento o di accessori oggi fortunatamente estinti (o quasi). I piumini dai colori fluorescenti, gonfi come dirigibili, ad esempio, una sorta di necessaria uniforme giovanile diffusa anche in luoghi dalle temperature non esattamente artiche, oppure quei terribili mollettoni per capelli ornati con grandi margherite o gerbere posticce, per non parlare delle antiestetiche e (purtroppo) usatissime spalline rimovibili in gommapiuma con striscia adesiva in velcro. Se all’epoca inoltre eravate ragazzini/e rompiscatole con l’ambizioso e deleterio sogno di un futuro nella danza, avrete quasi per certo pregato in ginocchio i vostri genitori perché vi acquistassero il vostro primo, inutile, paio di scaldamuscoli di lana, avrete rischiato più volte di compromettere gravamente qualche tendine nel tentativo di tirare su una gamba o di esibirvi in una spaccata degna di Heather Parisi, conoscevate infine Janet Jackson non tanto perché sorella minore del ben più famoso Michael ma soprattutto per il suo (superfluo) ruolo di Cleo nella fortunata serie tv Saranno Famosi. E chiaramente approfittavate dello spettacolo domenicale pomeridiano al cinema (il vostro coprifuoco scattava rigorosamente alle 18.30, di uscire la sera non se ne parlava ancora) per abbandonarvi, tra estasi adolescenziale e acerbi desideri di gloria, alla visione di una qualsiasi pellicola di quello sfruttatissimo filone musicale-romantico-ballereccio che, da Flashdance (1983) in poi, fino a Dirty dancing (1987), arrivò a sfornare almeno altri tre, quattro film, a stagione, pochi dei quali, a dire il vero, così altrettanto memorabili o anche solo guardabili. Eccezione naturalmente fatta per quel semi – inspiegabile caso di successo rappresentato da Footloose (1984). Che, a dispetto di un’indifendibile insulsaggine di trama (il paesino di provincia americana che mette fuori legge il ballo, causando la legittima ribellione del protagonista giunto da Chicago), di una sceneggiatura banalotta e priva di guizzi (“c’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo” la battuta più celebre, così sciatta in confronto a “nessuno può mettere baby in un angolo”), di pesanti (e comprensibili) stroncature da parte della critica, giunse invece a incassare oltre 80 milioni di dollari. Consacrando così Kevin Bacon al rango di nuovo e ambitissimo idolo delle (ormai più che adulte) teen-ager, nonostante la sua bellezza quasi anticonvenzionale, forte di una vaga somiglianza con Giorgio Armani in quel naso che finisce troppo presto scoprendo un labbro superiore troppo sottile. Oggi, a 30 anni esatti dall’uscita del film, che segnò anche il debutto cinematografico di un’allora bruna e sconosciuta (ancora per lungo tempo) Sarah Jessica Parker, è lo stesso Kevin Bacon, adesso 55enne dall’invidiabile forma fisica e dalla rispettabilissima carriera nel grande schermo (JFK, Codice d’onore, Apollo 13, Mystic River) a citare (e dunque a citarsi in) una delle scene più celebre di Footloose, quella appunto di un balletto eseguito al riparo dagli occhi di tutti. Riproposto “paro paro”, anche negli abiti, seppur con la giusta e necessaria dose di autoironia, all’interno del Tonight show di Jimmy Fallon, (video allegato), uno degli innumerevoli talk-show a stelle strisce capitanati da un conduttore/comico/cinico che intervista milioni di star sullo sfondo di una, sempre identica, visione notturna di New York. A fare la differenza, questa volta, la dimensione umor – nostalgica della coreografia di Bacon (evidentemente sostituito, nei passaggi più acrobatici, da un’atletica controfigura) che ha già ottenuto in pochi giorni quasi 7 milioni di visualizzazioni sul web, segnale che giocarsi con furbizia la carta del revival, in tv, vale ovunque. Lo sa bene chi, ad esempio, in Italia segue puntualmente The Voice sperando ogni volta in un’esibizione sfacciatamente kitsch della Carrà sulle note di Fiesta o Rumore. Ma, esattamente come chiarito all’inizio di questo post, anche stavolta non sto certo parlando di me.

Quando una stella muore…

Philip Seymour Hoffman winning Best Actor – YouTube.

Con una prevedibilità e un cattivo gusto di natura semi – universale, inclini allo stesso modo a sollevare la più annichilente banalità di reazioni come a legittimare una successiva quanto macabra ossessione per certi inutili e trascurabili dettagli, il repertorio di comportamenti collettivi in caso di prematura, tragica e scioccante scomparsa di un volto noto dello spettacolo – ogni volta più simile, a dire il vero, all’ennesimo, interminabile e noiosissimo déjà – vu – si compone sempre di alcune chiare e specifiche fasi, peraltro ben individuabili. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, è il triste e sfortunato caso di Philip Seymour Hoffman, straordinario attore hollywoodiano trovato morto solo qualche giorno fa nel suo appartamento di New York, drammatica vicenda divenuta anch’essa paradigmatica di un irritante e superfluo atteggiamento generale che si sta trasformando in una pessima consuetudine quando si ha a che fare con certe dinamiche di diffusione e fruizione delle notizie. Perchè, quell’inspiegabile dispiacere che coglie più o meno chiunque di fronte alla morte in giovane età di personaggi celebri, lo sgomento per l’improvvisa e inaspettata scomparsa di un viso che il grande schermo o qualunque altro media ci ha reso familiare, (seppur mai incrociato durante la nostra tranquilla esistenza condotta dall’altra parte del pianeta), sembra che adesso debba necessariamente passare attraverso il conoscere il maggior numero di particolari possibili sulla sua dolorosa fine (meglio se fornendo una cospicua quanto raccapricciante dose di dettagli morbosi). Non vorrei peccare di eccessiva semplificazione o vestire i panni del moralista da quattro soldi che si scaglia contro il mal costume dei “tempi moderni”, quando in realtà si è sempre un po’ indugiato in casi del genere, forse per tentare una maggiore presa sul pubblico, nell’accentuare il “lato oscuro” di simili vicende. L’impressione però è che adesso, da quando cioè la rete ha permesso più o meno a tutti di colmare le proprie lacune pseudoculturali in ogni campo con la rapidità di un clic, chi tradizionalmente detiene il compito di informare sui fatti (leggi stampa e dintorni) tenda a farlo secondo modalità piuttosto deprecabili.

Vado al sodo, servendomi proprio della storia di Hoffman per esemplificare il mio, forse astruso, ragionamento: comincia a circolare la notizia della morte di un attore, il nome però non dice granché, così lungo poi, meglio cercarlo su Google (come si scriverà mai?), ah, eccolo, sbucano anche le immagini, sì, il viso non sembra del tutto nuovo, accidenti in quale film era? forse somiglia perfino a qualche altro attore, ma dove diamine si sarà visto? Nel frattempo migliaia, forse milioni di utenti web, che hanno ripercorso esattamente le stesse azioni, vanno già diffondendo ed annunciando su ogni possibile pagina di ogni possibile social il loro cordoglio, la loro commozione, compreso il solito teatrante che arriva sempre a sostituire la propria immagine del profilo con quella del personaggio appena deceduto (chissà con quale utilità poi). Per carità, fra tutti ci sarà anche chi è stato sinceramente un accanito fan della prima ora, ma insomma, distinguerlo adesso nel mare magnum di esperti di cinematografia che affiora d’un tratto in un paese in genere dedito alle commedie di Vanzina è piuttosto arduo. Quindi se da un lato il tragico fatto rimbalza dappertutto amplificato alla velocità di fulmine, dall’altro tv e testate online si prodigano nel confezionare i propri servizi sul personaggio in questione, nelle teoria delle intenzioni più esaustivi, nella pratica dei fatti ovviamente non limitati a ripercorrerne la carriera (leggibile ovunque, anche sulle pagine dell’80% dei tuoi contatti) ma infarciti di uno scontato e avvilente contorno. In ordine, in coda a quello che in gergo si chiama coccodrillo (l’articoletto strappalacrime post – mortem) si ritrovano così: 1) l’immancabile pezzo sulla “maledizione” di un talento e di una fama difficili da gestire (con annessa digressione su eventuali abusi di droga e alcol 2) la carrellata di volti noti, partendo dalla metà secolo scorso fino all’altro ieri, vittime di un simile destino (per capirci, cominciando da Marilyn Monroe per finire a Whitney Houston) 3) il video a riprova della vita comunque difficile del vip e/o la sfortunata coincidenza con un altro evento altrettanto drammatico. Nello specifico, lo stesso video qui allegato, risalente alla premiazione di Hoffman come miglior attore protagonista nel 2006 per il film Truman Capote, ricomparso su gran parte della stampa di questi giorni per sottolineare la presenza, nella medesima rosa di candidati di allora, di un altro attore prematuramente scomparso, l’australiano Heath Ledger. E’ forse doveroso riproporre perciò le stesse immagini per leggerle da un punto di vista diverso, per un ricordo più rispettoso di tanti particolari affiorati questi giorni sulla vita privata dell’attore e spacciati per tracce di una sua vulnerabile umanità: quello di uno straordinario e singolare interprete, di cui spesso si sbagliava il nome, che conclude commosso il discorso più importante della sua carriera ringraziando semplicemente l’anziana madre.