Can che appare…

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Ecco, ancora non sono riuscito a scrivere neanche una parola al riguardo (in realtà prima di aprire questa parentesi insensata ne avrei usate ben dodici, tanto per puntualizzare) che già mi sto pentendo dell’argomento scelto per questo post. Perché so benissimo come andrà a finire: che mi accuserete di essere una creatura del tutto priva di quell’encomiabile sensibilità animalista, poco incline a manifestazioni d’affetto come a istintivi slanci di apprezzamento verso l’intero universo a quattro zampe, un detestabile e disgustoso individuo antropocentrico, di quelli che mai si fermerebbero per strada a riempire di lodi la graziosa bestiolina che con tanto orgoglio portate fuori ad orari forse accettabili in un altro emisfero, il tutto a scapito del vostro sonno e della vostra indispensabile lucidità diurna. Perciò tanto vale uscire subito allo scoperto: non è del tutto esatto affermare che non provi una qualche forma di amore per gli animali, diciamo piuttosto che preferisco con loro una più disinvolta relazione a distanza, di quelle che si limitano a due carezze e un buffetto sul musino, proprio nel caso di un rapporto più confidenziale con i relativi padroncini, e poi ognuno, per favore, a casa propria. Nutro per essi (per gli animali, intendo) un profondo rispetto, quello sì, lo stesso che impone moralmente alla mia coscienza il divieto assoluto di assumersi una responsabilità così gravosa nei confronti di un altro essere vivente, di cui mai e poi mai sarò in grado, almeno in questa esistenza, di tener fede o finanche badare alle sue esigenze più elementari, che, a dire il vero, talvolta sono le medesime che io stesso stento a soddisfare appieno perfino per me. E, sincerità, per sincerità, non sono ancora del tutto persuaso che il circondarsi esclusivamente del calore di un animale non significhi in fondo ritagliarsi un rifugio più comodo e sicuro per sfuggire in parte alla complicatezza delle relazioni umane: voglio dire, un cane ad esempio, non potrebbe mai abbandonarti o tradirti intenzionalmente, ti aspetta sempre a casa festoso e scodinzolante, non ti trascina in lunghe e snervanti discussioni per avere sempre ragione o l’ultima parola, e da questo punto di vista, se non fosse per tutto quell’impegnativo programma di cibo/cure/bisogni da lasciare alle 6 del mattino al primo albero fuori casa, sarebbe forse il/la compagno/a ideale di un’intera vita.

D’accordo, incolpiamo pure, per questo mio esplicito e spesso ritenuto “mostruoso” pensiero, l’evidente quanto scarsa dimestichezza con un qualche animale nella vita di tutti i giorni, così pure come la totale mancanza, nel mio (breve) passato di 29enne, di una qualsiasi fase di crescita accompagnata dalla presenza nei dintorni di un cucciolo da stringere. Sappiate però che di occasioni per rifarmi o in cui in teoria poter almeno apprezzare l’emozionante e affettuosa compagnia di un animale domestico ne ho avute eccome. Bash, ad esempio, la cagnolina che ha vissuto con il mio amore per una dozzina d’anni, un incrocio fra un pastore belga e un pastore tedesco, tanto mastodontica di stazza quanto docile di carattere (eccezion fatta per i sacerdoti, a cui abbaiava per strada con una ferocia mai dimostrata con nessun altro), così legata al sottoscritto che non riuscivo mai a camminare senza ritrovarmi il suo naso attaccato alla coscia. I due gatti di mia sorella, a cui, manco a dirlo, sono tremendamente allergico, mentre lei, al contrario, pare includerli in cima alla lista dei propri affetti, come una volta arrivò a dimostrarmi, durante una passata e avventurosa carriera da archeologa, mandandomi un sms dalla Giordania del tipo “Ho lasciato i gatti dal vicino (poi divenuto suo compagno n.d.r.), puoi sentire come stanno? Io tutto ok, c’è stata qualche bomba qui vicino, ma sto bene, se senti mamma e babbo rassicurali!”. Ho avuto un pesce, ma non credo conti, che la mia passione per la moda e il suo muoversi sinuoso nell’acqua mi avevano spinto a ribattezzare Naomi, ma poi, colpito non so da quale malattia, che l’ha portato alla morte nel giro di pochi giorni, aveva sviluppato due enormi rigonfiamenti sugli occhi tanto da assomigliare più al trombettista jazz Louis Armstrong che non alla venere nera delle passerelle. Niente ovviamente di paragonabile all’esperienza di una coppia di trentenni newyorkesi, Yena (speriamo solo di nome) Kim e Dave Fung che sono riusciti a trasformare il proprio amato cane, Bodhi, uno shiba inu di razza, in un’indiscussa e seguitissima star del web. Solo sul suo profilo Instagram Mensweardog (da cui è tratta la foto), in cui compare sempre immortalato nei più diversi abiti maschili, classici o sportivi, che gli danno talvolta quell’aria inquietante da trofeo impagliato, la simpatica bestiolina è arrivata a contare già oltre 160.000 followers, a cui si vanno ad aggiungere altre centinaia di migliaia di seguaci, impazziti per i suoi singolari ritratti, sui tutti i restanti e più famosi social. Cifre da capogiro, che molti blogger o aspiranti tali (presenti inclusi) possono solo permettersi di sognare di raggiungere un giorno. Allora, se volete, rinfacciatemi pure la mia palese freddezza o semi-indifferenza nei confronti degli animali: ma uno, uno solo, quel Bohdi lì, posso almeno odiarlo pubblicamente?

Vita (e morte) da cani

▶ Family Guy – Brian Dead !! – (OFFICIAL Family Guy Brian Death Scene) R.I.P. Brian Griffin – YouTube.

Uno dei meriti indiscussi delle serie animate tv made in Usa, dalla fine degli anni ’80 in poi, è stato quello di essere finalmente riuscite a infrangere molti tabù. Ricordo, anni fa, una critica intelligente e a tratti feroce di un noto giornalista nei confronti del primo irriverente cartone “per adulti” a stelle e strisce, i Simpson, colpevoli a suo dire di aver fatto letteralmente a pezzi l’immagine tradizionale e perbenista con cui il piccolo schermo si era da sempre preoccupato di dipingere la vecchiaia. Abraham Simpson, padre del celebre e simpaticamente inaffidabile Homer, è difatti un anziano sgradevole e scorbutico, con l’abitudine disgustosa di maneggiare sempre la sua dentiera, spesso dedito al racconto di lunghi e noiosi aneddoti, dubbiamente veritieri, per di più confinato dalla sua stessa famiglia in una lontana casa di riposo. Insomma, tutta un’altra storia rispetto alla figura del nonnino saggio, affettuoso e presente, occupato in regali, attenzioni e fiabe da leggere per i nipoti, con cui la tv è decisamente più incline a narrare la terza età. I Griffin, sgangherato e altrettanto deplorevole nucleo familiare protagonista dell’omonima (ed ennesima) serie animata nata sulla scia del successo dei Simpson (negli Stati Uniti in onda sul canale Fox con il titolo originale di Family Guy) trasmessa in Italia, con alterne fortune, già dal 2000, si è spinta ben oltre, mettendo alla berlina anche il ruolo dell’animale domestico di casa, in questo caso un cane parlante, di nome Brian. Così, oltre al padre Peter, genitore egoista, assente, mai all’altezza del proprio ruolo, Lois, madre casalinga con ambizioni artistiche frustrate, due figli adolescenti Meg e Chris, con evidenti problemi di insicurezza e di peso, un terzogenito Stewie, piccolissimo e diabolico, desideroso di sbarazzarsi delle attenzioni oppressive della mamma, Brian si inserisce perfettamente, con riuscito e caustico sarcasmo, nelle dinamiche zoppe dello sconclusionato equilibrio in cui vive la famiglia catodica americana. Perché, in sostanza, è l’unico personaggio dotato di senno, di intelligenza, di una sensibilità sconosciuta al resto degli altri componenti (dote che in più puntate lo porterà ad avere dipendenze da droghe e alcol), l’unico che ascolta con la dovuta premura i progetti deliranti di Stewie, l’unico ad esprimersi correttamente, con garbo e con un linguaggio talvolta più saccente di quello televisivo, l’unico provvisto di una propria profondità psicologica in netto contrasto con la generale superficialità che lo circonda. Insomma, per me divenuto da subito un appassionato del cartone, conosciuto grazie alla segnalazione di una carissima amica che sosteneva, con tanto di fotografia alla mano, di possedere da bambina la stessa forma della testa a “pallone da rugby” identica a quella di Stewie, il personaggio fra tutti meno amato. Per una ragione molto semplice: non è divertente. I Griffin incarnano difatti, in maniera catartica, i peggiori difetti della famiglia vista come luogo in cui proliferano anche nefandezze e rapporti malsani, in cui tutti contribuiscono, con le proprie debolezze e i propri limiti, magari armati delle più buone intenzioni, a peggiorare il disastro delle esistenze altrui. Si ride perché c’è, in fondo, un briciolo di verità nelle clamorose imperfezioni e nei tentativi maldestri di ciascun membro di agire secondo la propria discutibile (in)coscienza, seppur tra le evidenti esagerazioni di trama e un’ironia tagliente, a volte perfino demenziale. Non devo essere stato l’unico a pensarla così, visto che, gli stessi creatori dei Griffin, giunti oltreoceano oramai alla dodicesima serie, hanno deciso nell’ultima puntata trasmessa negli Usa soltanto lo scorso 24 novembre di far fuori proprio Brian, nel modo poi più crudele e scioccante, perché verosimile, cioè drammaticamente investito da un’auto in corsa (video allegato). Prenderà il suo posto Vinny, meticcio italo-americano, incontrato in un canile, appartenuto in passato a una famiglia di mafiosi: personaggio scomodo, dalla storia oscura, forse più in linea con il deprecabile cinismo che accomuna il resto della famiglia. Senza dimenticare che proprio la morte di Brian rappresenta però il momento per eccellenza in cui i Griffin danno prova di tutta la loro difettosa umanità, e come tutte le famiglie imperfette, si stringono l’un l’altro, di fronte al dolore.

N.d.r. Cara Lorena, volevo semplicemente sottolineare la delicatezza con cui ho evitato di tirati esplicitamente in ballo nel discorso della mia amica con le sue foto da bambina, etc. E ricordarti che ti voglio bene. Ti abbraccio.