Tra palco e parco…

Ivy Park – Beyoncé ‘Where is your park’ – YouTube.

I milioni e milioni di appassionati di moda nel mondo, gli stravaganti e non sempre competenti operatori del settore, anche le più semplici e talvolta malvestite fashion – victims, ormai tutti arcistufi di assistere a continui balletti, a terremoti inaspettati o improvvisi licenziamenti ai vertici creativi delle maison (solo poche settimane fa l’abbandono di Hedi Slimane da Saint Laurent e la sua prevedibilissima sostituzione con Anthony Vaccarello, mentre rimane ancora vacante il trono di Dior, la semisconosciuta Bouchra Jarrar eredita il compito ingrato non far rimpiangere Alber Elbaz da Lanvin e più vicino a noi perfino Massimiliano Giornetti dice addio a Salvatore Ferragamo) sapranno trarre almeno un po’ di consolazione in questi giorni dalla notizia più presente e commentata su magazine e siti specializzati di tutto il pianeta. E cioè il lancio in pompa magna della nuova linea di athleisure wear (parola di oscuro significato, comunque una sorta di mix fra sportivo – athletic – e leisure, per il tempo libero) creata in collaborazione con il patron di Topshop Philip Green (ideatore della catena di abbigliamento colpevole di aver eletto a stilista perfino Kate Moss) ma soprattutto voluta e ideata (chissà poi quanto) dall’indiscussa e onnipresente regina del pop del terzo millennio, Beyoncé (nome che noi italiani fatichiamo forse un tantinello a pronunicare correttamente, ma che stando ai rimproveri della mia amica americana Christine si dovrebbe leggere “Biònsi”, senza quella “é” finale accentata, che fa un po’ sciroppo per la tosse). Sottigliezze linguistiche a parte, l’operazione colossale di prestito momentaneo della cantante al mondo della moda, che vede tra l’altro il coinvolgimento di un gigante della distribuzione online come Zalando, sito incaricato della vendita in esclusiva della collezione sui mercati europei, ha come freccia al proprio arco, un’ulteriore, forse vincente, intuizione: quella di voler rendere cioè glam, fashion, trendy (e se volete abusare di una altro termine del genere fate pure) il momento in cui invece spesso diamo il peggio in quanto a cura del nostro look: quello dell’attività fisica. E questo a cominciare sin dal nome dato alla linea, Ivy Park, ottenuto unendo in parte il nome stesso della figlia di Beyoncé, chiamata, secondo la discutibile consuetudine diffusa fra la star di rovinare l’esistenza alla propria prole, Blue Ivy, e appunto Park, il parco, luogo per eccellenza nel nostro immaginario deputato, almeno nelle intenzioni, ad un po’ di sano moto all’aperto. Ma mentre in prossimità della bella stagione noialtri comuni mortali raggiungiamo spesso quei miseri spazi verdi urbani dandoci al jogging infagottati in felpone con vignette di Snoopy o in maxi t-shirt più coprenti di un burqa, ecco che la ben più raffinata (e senza dubbio in forma) cantante, come si evince dal poetico spot della sua linea (video allegato), riesce ad apparire impeccabile, senza un capello fuori posto, una sola goccia di sudore o una sbavatura di trucco neppure quando si trova a saltare faticosamente la corda o ad emergere dalle acque di una piscina (visto l’effetto miracoloso, forse si tratta di quelle di Lourdes). Certo, i maligni potrebbero sottolineare il ricorrere nello stesso spot al solito espediente di incrociare le ginocchia sul davanti in tante inquadrature per attenuare quei fianchi leggermente abbondanti (trucco che decenni di pose di Raffaella Carrà in tv ormai ci hanno svelato appieno) o l’incomprensibile esistenza di attrezzi ginnici quali grandi cerchi metallici a cui appendersi come bradipi, perfino la criticabile scelta di utilizzare il bianco e nero per filmare la stradina deserta in mezzo al parco, così simile a quelle inquietanti sequenze dei film horror in cui ti aspetti un folle sbucare all’improvviso dalle fronde con un’accetta fra le mani. Mentre i più dubbiosi, finita la magia della sua visione, potrebbero rimanere con un solo, irrisolto, quesito: ma quale sarebbe poi lo scopo di firmare una linea fatta per lo più di ciabatte o fascette per capelli?

Dangerously in love?

Nessuno che si sia azzardato a sbilanciarsi ammettendo di averci creduto, anche solo per poche ore, nessuno che abbia voluto dichiararsi così ingenuo, sprovveduto, boccalone (termine che forse non comprenderete tutti, perché molto in auge nella mia Maremma ma difficile da trovare così spesso altrove. Però esiste sul serio, già verificato sul dizionario) da non capire che si sia trattato soltanto dell’ennesima bufala mediatico – sentimentale “tirata sicuramente fuori per fare un po’ di pubblicità a San Valentino, che da quando c’è la crisi non lo considera più nessuno” (interessante teoria sostenuta con fermezza dalla cassiera del mio supermercato di fronte a tre anziane e inorecchite clienti). Però concedetemi di insinuarvi il dubbio: e se fosse semplicemente vero? Non voglio dire che lo sia, so bene quanto voi che il presidente degli Stati Uniti, l’uomo forse più potente e più minacciato al mondo, si trovi già abbastanza costretto a fare i conti con una tale e asfissiante valanga di impegni che il riuscire a includervi anche un’amante, da tenere poi necessariamente ben nascosta alla consorte, alle figlie, ad altre centinaia di persone che si aggirano di continuo alla Casa Bianca, sarebbe un compito più gravoso dell’intera lotta al terrorismo internazionale. Soprattutto se l’amante in questione non fosse stavolta una banale seppur giovane stagista, alla Monica Lewinsky per capirci (e non veniamo a cavillare sul fatto che non sia neppure corretto usare per la signorina Lewinsky la definizione di amante “tout court”. Non è che lei e Clinton trascoressero il tempo nella stanza ovale giocando esattamente a freccette), ma nientepopodimeno che una supersexy e altrettanto celebre, se non di più, popstar mondiale. (Perdonatemi ma qui devo aprire per forza un’altra parentesi su mio padre, che l’altra sera mi ha chiamato appositamente per chiedermi “Ma chi è ‘sta Beyoncé? E’ famosa?” e io “Certo, è quella…” e giù con tutte le indicazioni possibili per fargli focalizzare la fanciulla. “Ah, ho capito”, mi fa dopo venti minuti di spiegazioni dettagliate al telefono “ma non si chiamava Rihanna?”).

Dicevamo: lo strombazzatissimo ed esplosivo gossip, sgonfiatosi poi come un paracadute al suolo nel giro di meno di 24 ore, del presunto, segreto e scottante flirt fra l’attuale presidente Usa Barack Obama e la ex Destiny’s Child Beyoncé Knowles, che ha tirato perfino in ballo autorevoli testate giornalistiche (come il Washington Post, affrettatosi difatti a smentire) e provocato imbarazzanti dietrofront dei suoi assertori (il paparazzo francese Pascal Frontain) per quanto chiaramente inconcepibile, è però riuscito ad eclissare di colpo su qualsiasi sito o social network tutte le altre ben più (importanti e) fondate notizie (http://www.ansa.it/web/notizie/photostory/primopiano/2014/02/10/Scoop-Usa-relazione-Obama-Beyonce_10047355.html). Per un semplice motivo: sarebbe una coppia davvero perfetta. E non fingete di non averci neppure pensato. Sì, d’accordo, c’è il  dettaglio, tutt’altro che trascurabile, che entrambi siano già (pare) felicemente coniugati e peraltro arricchiti di graziosa prole di contorno. Poi, insomma, Michelle è una tipa senza dubbio in gamba, piace (soprattutto alle donne), osa (soprattutto nel look), era inoltre da tempo che una first lady non riusciva ad ottenere un consenso così ampio ed unanime da parte di stampa e cittadini. Mentre Jay – Z, il rapper passato nel 2008 dallo status di storico fidanzato a quello di amorevole maritino della sensualissima Beyoncé, per quanto entrato di diritto nella top ten dei cantanti più famosi e pagati negli States, in quanto ad avvenenza e carisma è sempre rimasto un gradino (ma anche due o tre) dietro alla più affascinante consorte. Obama invece, con quel diretto e bianchissimo sorriso buca-schermi, quei modi così sicuri e disinvolti, quella sottile fierezza tipica di chi è arrivato in alto ma ci tiene ad apparire modesto, sarebbe, almeno come impatto estetico, all’altezza della presupposta e procace amante. Anche perché, diciamocelo, tutti i precedenti (e anche recenti) casi del genere su questo punto mostravano sempre un evidente squilibrio di immagine a svantaggio, ahimè, della parte maschile; cominciando proprio dall’algida Carla Bruni, che forse non eccellerà in simpatia, ma, anche se adesso sospettosamente ritoccata, non si può negare superi nettamente in bellezza (e in altezza) il marito, l’ex – presidente francese Nicolas Sarkozy. Per non parlare poi di François Hollande, attualmente in carica all’Eliseo, che sembrava sparito dalle pagine dei nostri giornali fino a quando la stampa scandalistica ne ha intercettato la relazione clandestina con l’attrice Julie Gayet (più giovane di 18 anni e naturalmente incantevole) a scapito della compagna Valérie Trierweiler (per la quale aveva lasciato, dopo 30 anni e 4 figli, Ségolène Royal. Un recidivo). So che non sarebbe sufficiente questa congettura superficiale per avvalorare l’eventuale relazione tra Obama e Beyoncé, che suona assurda almeno quanto un flirt casereccio tra il nostro Napolitano e Orietta Berti. Ma assurdo per assurdo: proprio in questi giorni Hollande è in visita ufficiale alla Casa Bianca, sicuri che sia soltanto una coincidenza?

Questioni di cover

Sia chiaro, a me Beyoncé piace da matti. E piace già da tempo, molto prima che fosse conosciuta solo come Beyoncé, esattamente da quando era solo “quella bella delle Destiny’s Child, ma un po’ forte di gamba” per distinguerla da “quella più bella di fisico, ma con la faccia lunga (Kelly Rowland)” o dalle altre due, poi ridotte a una, “più bruttina e insignificante (Michelle Williams)”. Il resto è storia: lo scioglimento del gruppo (però amichevole, così, ogni tanto, una reunion per arrotondare possiamo sempre improvvisarla), la pubblicazione nel 2003 del primo album da solista Dangerously in Love, la scalata alle classifiche internazionali, le copertine sui magazine (un po’ smagrita grazie a photoshop), la pubblicità per qualche casa cosmetica (un po’ sbiancata, il fotoritocco è ormai un vizio), la storia d’amore con il rapper multimilionario Jay-Z (il tizio enorme che compare in molti suoi video), lo spot della Pepsi (immancabile), l’inno americano alla Casa Bianca al cospetto di Obama (forse in playback). Poteva a questo punto nel suo curriculum non comparire la colonna sonora del nuovissimo, imminente, kolossal firmato Baz Luhrmann (lo stesso di Romeo + Juliet e Moulin Rouge) The Great Gatsby, con l’immutabile Leonardo di Caprio dalla chioma impomatata? Ovviamente no. E difatti eccola qui, trasmessa qualche giorno fa, per la prima volta, in anteprima mondiale, dal network a stelle e strisce East Village Radio (http://www.youtube.com/watch?v=jxQWckbhVTU). Già, dimenticavo: la canzone, come avrete sicuramente intuito, non è un brano originale scritto appositamente per la pellicola, ma la cover di un pezzo piuttosto noto, Back to black, composto pochi anni or sono dalla compianta Amy Winehouse.

E qui cominciano le note (è proprio il caso di dirlo) dolenti. Perché non soltanto i fan della cantante britannica, scomparsa a soli 27 anni nel Luglio del 2011, non hanno gradito più di tanto l’omaggio in musica, forse precoce, siglato Beyoncé. Ma anche perché il nuovo brano, un singolare duetto con il rapper Andrè 3000 degli Outkast, si allontana fin troppo dal magnetismo della versione originale, così stravolta nella struttura da esserne quasi snaturata, tanto che vien voglia di rimpiangerla. Risulta infatti assente quell’intensità d’interpretazione che non conosceva uguali, quella forza disperata che possiede nella voce solo chi sa cantare come se fosse sempre, come lo era Amy, sull’orlo di un precipizio. Nella cover, invece, la melodia, il ritmo, i passaggi di registro assumono tutta la superficialità di un aspetto non tanto nuovo quanto tirato frettolosamente a lucido. Tutto è edulcorato, inaspettatamente nitido, levigato: non c’è spessore, ma soltanto la piacevole freddezza della più perfetta banalità. La coincidenza che trovo buffa, è che a questo primo, criticatissimo pasticcio, che accompagna l’attesa uscita del nuovo film, se ne aggiunge anche un altro, riguardante, paradossalmente, un’altra “cover”. E cioè la copertina del romanzo di Francis Scott Fitzgerald, da cui la pellicola è stata notoriamente tratta, rieditato, per l’occasione, in una nuova veste: proprio con il bel faccino di Di Caprio campeggiante sotto il titolo (http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2013/04/26/news/grande_gatsby_copertine-57515249/). Una soluzione che ha fatto inorridire, gridare allo scandalo, scomodare parole grosse come insulto o sacrilegio: ma che, come la canzone citata, non fa che accrescere ulteriormente la curiosità nei confronti del lungometraggio. Speriamo che almeno ne valga la pena.