Chi mi ama…

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“Non hai Instagram? E quindi dove posso seguirti?” esplode in tutto il suo stupore, a mio avviso ingiustificato, un’esuberante pr conosciuta tra un assaggio di crostini di pane nero e un ottimo bicchiere di Merlot durante uno dei tanti eventi enogastronomici a cui talvolta presenziamo, fingendo perfino un briciolo d’interesse per il menu fra il bizzarro e l’indecifrabile che ci verrà propinato (“davvero servono del sushi di mortadella? ma è pesce o suino?”), e tralasciando le reali motivazioni che ci hanno spinto ad accettare l’invito (in ordine sparso l’organizzazione della serata ad opera di amici di amici che si ricordano di te come quello “così carino e simpatico”, la tua vita mondana oramai semiassente che reclama un minimo di attenzioni in più e soprattutto la vuota desolazione del frigo ad attenderti a casa). Il punto è che ad un qualsiasi interlocutore occasionale, magari colpito dal tuo patinatissimo biglietto da visita al punto da immaginare quella dicitura professionale di fashion contributor/writer/expert come un turbinio di occasioni sfavillanti da immortalare ogni secondo e condividere seduta stante sul maggior numero possibile di social network, di questi tempi pare realmente incomprensibile che tu non abbia mai avvertito l’esigenza di deliziare eventuali follower con valanghe di scatti giornalieri della tua, ben più ordinaria, quotidianità. Che occorre naturalmente rendere assai figa nelle foto per mezzo di un’apposita profusione di espedienti quali filtri (come i numerosi effetti illumina-volto, da conduttrice tv stagionata) inquadrature finto – casuali, milioni di hashtag introduttivi stuzzicanti (del tipo #style, #cool, #loveisintheair #everywhereIlookaround). In altre parole sembrerebbe inconcepibile oggigiorno valutare adeguatamente popolarità e credibilità in rete e perché no, nutrire allo stesso tempo la necessaria vanità 2.0, senza possedere un numero quantomeno decente di fedelissimi e non sempre conosciuti seguaci, pronti ad elargire pollici su o faccine sorridenti di apprezzamento, cuoricini rossi lampeggianti, like od ogni altra rapida reazione da tastiera, tutti simboli di momentanea stima che la genialità miliardaria degli ideatori di social ci mette ogni giorno a disposizione come strumento di valutazione delle idee, delle battute o dei lavori altrui, condivisi sul web attraverso i propri account Facebook, Twitter e compagnia bella. E se quel “pedinamento” virtuale sconfinasse per un giorno nelle nostre vite reali? E’ la riflessione, singolare e forse un tantinello inquietante, a cui giunge il lavoro di Lauren McCarthy, artista digitale e programmatrice newyorkese, ideatrice del progetto Follower (http://follower.today/#welcome), un sito corredato di app che su richiesta permetterebbe appunto di essere effettivamente tallonati per qualche ora, ovviamente a debita distanza, da un misterioso follower in carne ed ossa, incaricato dunque di seguire i nostri, anche banali, spostamenti giornalieri. A chi trova l’idea di avere un pedinatore in incognito stuzzicante più che da brivido, basterà così una semplice iscrizione al sito, compilare la relativa domanda, e se la procedura andrà a buon fine, scaricare l’app che tramite segnale Gps fornirà la sua esatta posizione all’enigmatico follower; “l’inseguimento” si concluderà poi nelle ore successive con messaggio di notifica della sua avvenuta fine, accompagnato da una foto che testimonierebbe l’attuazione dello “spionaggio” richiesto in un momento qualunque della giornata (da evitare dunque quei comportamenti che si soliti avere quando si è certi di non essere osservati, tipo scarpe tolte sotto ai tavoli o dita nel naso). Che aggiungere? Al di là dell’apparente insensatezza della questione e del momentaneo limite geografico del progetto (per ora solo realizzabile a New York e San Francisco) impossibile non coglierne l’intuizione davvero audace, da valida performance artistica più che da applicazione forse discutibile: tentare di abbattere il limite esistente fra universo virtuale e reale, traghettando l’ordinarietà delle regole dell’uno nella complessità di attuazione nell’altro. Ricordando infine che l’arte, per essere tale, deve essere specchio ed amplificatore della società contemporanea, che occorre rivelare in tutte le sue più assurde contraddizioni: compresa quella smania di voler condividere con sconosciuti ogni singolo momento della nostra, semplicissima, vita (dita nel naso eslcuse).

Non è bello ciò che è bello

Arriva “Dopotutto non è brutto” con Geppi Cucciari – YouTube.

Gli edifici erano casupole distorte, squilibrate, addossate le une alle altre senza regola né apparente armonia, come sul punto di crollare o di ripiegarsi sulle fondamenta stesse, quasi fossero diventate improvvisamente liquide. Lo spazio che le conteneva a stento era ridotto, claustrofobico, schiacciava edifici e personaggi su di un unico piano privo di prospettiva, trasformando il paesaggio in una visione da vertigine, un vortice di tinte squillanti e di contorni irregolari, una scena che appariva intrisa dell’angoscia di un incubo. Eppure c’era qualcosa di magnetico in quei quadri, un forza attrattiva, il fascino di un’atmosfera inquietante che mi disturbava i sensi ma mi impediva al contempo di distogliere lo sguardo dalla corposità di certe pennellate, dalla voluta deformità di certe linee, dalla mancanza ricercata di una certa gradevolezza. Fu esattamente lì, davanti ad alcune opere di Chaim Soutine (1893 – 1943) pittore russo naturalizzato francese, non riconducibile ad alcun movimento artistico ma spesso accostato agli espressionisti (etichettato per comodità “un maledetto”, come si è soliti definire personalità indipendenti e difficili da imbrigliare entro precise correnti) che decisi mi sarei interessato di arte. Volevo appropriarmi degli strumenti necessari per comprendere quello che appariva il linguaggio insensato di alcuni autori, per andare al di là del “bello, brutto, mi piace, non mi piace” che ripetiamo come un mantra alle mostre, per riuscire a decifrare quanto di incomprensibile e misterioso si potesse celare dietro un dipinto o una scultura. Quando, anni dopo, mi ritrovai a lavorare in un museo di arte contemporanea, era proprio questo il punto in cui mi accaloravo di più nelle mie spiegazioni, in cui mettevo più foga o entusiasmo, quando aiutavo i ragazzi, che accompagnavo nelle sale, a ripercorrere le tracce e gli indizi necessari per l’apprezzamento e la comprensione di un’opera o di un artista, quando tentavo di condividere con loro la soddisfazione di poter leggere e riconoscere, in un ammasso intricato di forme e volumi (qualora ci fossero) un cavallo, un giocoliere, una ballerina o il nulla più totale.

Ed è ciò che mi accade ancora oggi, quando, solleticato in alcune conversazioni, mi sento punto nel vivo di fronte a frasi come “questo scarabocchio sarebbe arte?”, e dunque mi prodigo in lunghissime risposte difendendo il valore artistico di una creazione che può spostarsi e risiedere nel gesto dell’autore, nello sguardo soggettivo della sua interiorità, nel rispetto di una tradizione che va superata non necessariamente dal punto di vista tecnico. Spesso fiato sprecato: esco il più delle volte sfinito da certi confronti, con il mio irremovibile interlocutore convinto a metà. Da qualche tempo perciò ricorro al solito, indicato, stratagemma: regalo, come è successo qualche tempo fa con il mio amico Andrea, il libro Lo potevo fare anch’io, perché l’arte contemporanea è davvero arte, scritto in un linguaggio leggero, comprensibile, perfino spiritoso, da Francesco Bonami, celebre critico e curatore, professionista con l’invidiabile pregio di rendere accessibile e divertente l’ermetico ed elitario linguaggio artistico. Come convinto sostenitore, perciò, del suo approccio originale e quasi scanzonato alla materia, ci tengo a suggerire, ad Andrea e a chiunque altro legga questo post, anche il programma tv condotto proprio dallo stesso Bonami, in onda da un paio di settimane su Rai Uno il mercoledì sera alle 23,20, dall’azzeccato titolo Dopotutto non è brutto, che vede anche la riuscita partecipazione di Geppi Cucciari (nel video allegato il promo). Quattro puntate, dedicate ciascuna a una città italiana (Venezia e Roma quelle già affrontate, Torino e Napoli i prossimi appuntamenti) alla scoperta, come in un tradizionale Grand Tour, di architetture, installazioni, musei privati e non, spesso snobbati o sottovalutati – in una nazione dal patrimonio antico smisurato come la nostra – perché modernamente attuali, dunque di difficile integrazione o comprensibilità per un pubblico più vasto. Al programma, a dire il vero criticato un po’ ovunque per la vena satirica e irriverente (ma perché, cosa vi aspettavate da Geppi?) va riconosciuto invece il pregio di mettere l’accento su spazi e luoghi di frequente liquidati come “brutti” o mal riusciti perché lontani dal peso della tradizione artistica italiana, vanto e maledizione di un paese che da sempre fatica a guardare oltre il Rinascimento. E di far magari scoprire a qualcuno in più che quel lungo ponte scivoloso, da evitare di percorrere nelle vostre passeggiate cittadine, è soltanto un’altra meraviglia che il resto del mondo ci invidia.

N.d.r. Negli stessi anni in cui mi appassionavo alla storia dell’arte, presi anche consapevolezza che certe materie, in cui raggiungevo a stento la sufficienza, le avrei abbandonate lì (“la matematica non sarà mai il mio mestiere” andavo infatti cantando come Venditti). A rendermi chiaro che non fossi esattamente tagliato per i numeri e le formule è stata una professoressa a cui era impossibile non voler bene, perché ironica, stravagante, sopra le righe, una vera forza della natura (mi ha sempre voluto chiamare Stefano, tanto per dire). A lei, che solo ieri ha deciso di lasciarci, in modo imprevedibile, proprio come aveva insegnato, va il mio ricordo e la mia affettuosa dedica di questo post.

Strani divieti

Escludendo una breve, memorabile e destabilizzante parentesi romana (la capitale è un magnifico labirinto sovraffollato, inadatto alla mia anima tutt’altro che metropolitana) vivo ormai a Firenze (o giù di lì) da quasi due decenni, da quando cioè vi approdai come un giovane studente con qualche sogno (e capello) in più e con qualche consapevolezza (e chilo) in meno. Da allora, vuoi per la mia risaputa sbadataggine, vuoi per un vezzo divenuto nel tempo una radicata abitudine, giro per le vie del capoluogo toscano quasi esclusivamente a piedi (in auto per di più m’inferocisco dopo pochi minuti), trasformando così i miei necessari spostamenti in piacevoli passeggiate di cui approffitto per rilassarmi, schiarirmi le idee, osservare incuriosito passanti, negozi, edifici. A voler essere sinceri fino in fondo, possiedo inoltre un senso dell’orientamento degno di un criceto appena sceso dalla sua ruota: non memorizzo le strade, neanche quelle che percorro più frequentemente, men che mai i nomi delle stesse vie, e quando sono in altre città mi ritrovo spesso a rigirare un’incomprensibile piantina come se fosse una pizza nel piatto, per poi arrendermi alla mia evidente imbranataggine e chiedere indicazioni al primo malcapitato di turno. Il tutto, manco a dirlo, al contrario del mio amore, al quale, in qualunque posto del pianeta ci possiamo trovare al momento, sono sufficienti due rapide occhiate ai lati della testa per affermare con decisione “Di qua!”: ed è sempre la direzione giusta, circostanza che spesso mi fa sorgere il dubbio che abbia già girato il mondo a mia insaputa, forse in compagnia di innumerevoli ed altrettanto misteriosi amanti.

Tornando all’argomento principe di questo post, che non sono le assurde fantasie impregnate di gelosia del blogger, ma il suo sovente girovagare, talvolta senza meta, con la mente distratta e il naso all’insù, da pochi anni a questa parte le mie camminate distensive si sono arricchite di un’ulteriore pratica, che si va ad affiancare alla già stramba consuetudine di soffermarmi a leggere tutti gli eventi, i nomi e gli anni presenti nelle targhe commemorative poste sulle facciate dei palazzi (fatelo anche voi, si imparano un sacco di cose). Si tratta questa volta di una sorta di piacevole caccia al tesoro, indirizzata a scovare, anche negli angoli più perfiferici della città, gli interventi di Clet, un artista francese attivo in Italia già dai primi anni ’90, che dal 2005 risiede proprio a Firenze e che, unicamente armato di fantasia e di un’idea brillante, ha ritoccato il volto più ordinario di questo come di altri centri, in Italia e all’estero, disseminando un po’ ovunque i suoi originali lavori (foto allegata). Che altro non sono che comunissimi cartelli stradali, reinterpretati con l’applicazione di alcuni stickers, e trasformati così in ironiche o amare scenette, popolate di personaggi stilizzati, indaffarati in azioni epiche o al contrario quotidiane, che si affacciano beffardi, spensierati o malinconici, silenziosi eppure eloquenti, da uno degli oggetti di uso più comune (e spesso più ignorato) della nostra realtà urbana. Un’operazione arguta ed efficace, troppo spesso e troppo semplicisticamente liquidata come “arte da strada”, che invece dimostra come la contemporaneità possa riuscire ad appropriarsi di nuovi mezzi e di nuovi spazi anche in quei luoghi in cui risulta difficile arginare l’ingombro di una tradizione culturale vecchia di secoli. Interventi che esemplificano inoltre come il fine ultimo dell’arte ai nostri giorni non sia unicamente quello di provocare, scioccare o aggredire lo spettatore, ma di spingerlo, con garbo e leggerezza, ad una più pacata riflessione, facendogli semplicemente volgere lo sguardo appena sopra di se’. E perchè no, di strappargli un sorriso.