Siamo seri!

Ci sono momenti in cui, anche una persona votata alla frivolezza e alla superficialità di interessi, come me, riportati immancabilmente (e maniacalmente) sul mio blog, come se fossero questioni di chissà quale importanza, ha bisogno di uno stop. Di ricavare cioè un piccolo spazio per riflessioni di altro, forse più noioso, genere, con cui spero di non tediare il mio pubblico, che mi dimostra invero più fedeltà quando mi lancio in considerazioni e post di stampo ironico e brioso, perché, effettivamente, mi riescono meglio. Mi scuso in anticipo perciò se nelle parole seguenti non troverete la consueta vena satirica o il commentino pungente, ma i miei pensieri, in queste occasioni, vanno in tutt’altra direzione. Succede quando la mia tranquilla quotidianità, fatta di affetti sinceri, di lavori saltuari a cui non mi abituerò mai, di sogni e di ambizioni irrinunciabili, viene messa inaspettatamente alla prova da una perdita improvvisa, da quell’idea, spaventosa e detestabile, di una separazione definitiva. Credo che il dolore sia qualcosa di intimo, inviolabile, che occorre difendere dall’interferenza degli sguardi altrui, che le lacrime versate in pubblico siano poco cosa rispetto a quelle ricacciate a fatica indietro o spese in solitudine. Ma quando alla sofferenza si intrecciano la rabbia, il senso d’impotenza, la delusione per un lieto fine che sembra giungere solo nelle fiabe, la necessità di uno sfogo, come questo, diventa inevitabile. Per il grande rispetto e per l’ammirazione che nutro nei riguardi della persona in questione, non scenderò nei dettagli drammatici della sua storia, perché reputo di cattivo gusto consegnare al web una vicenda così delicata. Non posso fare a meno però di condividere qua sopra la grande lezione che ho tratto dalla sua vicinanza in quasi dieci anni di rapporto professionale, in cui non sono mancate incomprensioni, piccole liti, divergenze, ma anche gratificanti manifestazioni di stima reciproca. Avevamo perciò imparato a comprenderci, ad ammettere le nostre differenze, a parlare con la schiettezza e la lealtà necessarie sul lavoro. Mi aveva parlato apertamente anche della sua malattia: con grandissima dignità, con la fierezza e la caparbietà di chi non vuole arrendersi, di chi si attacca ostinatamente alla vita anche quando quest’ultima gioca il peggiore degli scherzi. E da allora il nostro abbraccio di saluti si è fatto più tenace, intenso, per il timore, sempre più concreto, che potesse essere l’ultimo. L’ultimo, purtroppo, c’è stato, non più di tre mesi fa. Non credo di poterlo mai dimenticare.

(n.d.r. La foto allegata è uno scorcio di mare del mio Argentario. Il mio luogo natìo a cui in genere affido la malinconia di simili pensieri. Spero non vi dispiaccia.)

Chiedilo al (neo)blogger

Dieci giorni ovviamente non sono sufficienti per un bilancio. Per una prima impressione invece possono bastare: avere un blog ti cambia la vita. In meglio, c’è bisogno di chiederlo? Fino al 19 Dicembre, data del mio primo post, non avrei mai sospettato che questo piccolo progetto avrebbe completamente stravolto le mie abitudini più che consolidate. Già passo gran parte della giornata al pc, mi dicevo, cosa mai potrà accadere di tanto diverso. Che adesso ci trascorro anche le notti, per esempio. Dormendo in media 4 ore. E male, dato che il prolungato dialogo con lo schermo ti regala tutt’altro che sonni piacevoli. Senza parlare di quell’evidente peggioramento della vista, ma, perchè lamentarsi, propriamente un’aquila non lo sono mai stato. In compenso, i rapporti con le persone circostanti si sono fatti più distesi. La mia dolce metà, tanto per cominciare, per la prima volta in quasi vent’anni di relazione minaccia di lasciarmi sul serio. O di sottrarmi il computer (che devo ancora finire di pagare) per abbandonarlo in strada, così che il traffico, ma più probabilmente un trattore, visto il posto sperduto in cui viviamo, possa schiacciarlo. “Non puoi trovarti un amante come fanno tutti?” “Non saprei. Posso?” ci siamo detti amorevolmente proprio l’altro giorno. I miei invece l’hanno presa benissimo. Mio padre ha avuto un piccolo scompenso cardiaco. No, i due eventi non possono essere collegati, continuo a ripetermi, ma chissà perchè, senza troppa convinzione. Però volete mettere la soddisfazione di quando ti dicono con entusiasmo di leggerti, di seguirti, di aspettare con ansia i tuoi nuovi racconti. In realtà non è mai successo. Ma parole affettuose e gratificanti in questi primi giorni mi sono state dette in più occasioni. Con le quali concludo, così da farvi apprezzare e condividere fino in fondo l’immensa gioia di diventare finalmente un blogger.

  • Perché sul tuo profilo c’è scritto che hai solo 29 anni?
  • Già che c’eri, nella foto, potevi togliere le rughe dalla fronte con photoshop.
  • Ho visto il tuo blog, carino. Però non l’ho mica letto.
  • Sì, ok Guasti, ma perchè Tempi?
  • Certo che ti ho letto, il primo giorno. Perchè, hai scritto altro?
  • Ma dai, anche tu un blog. Conosco un sacco di gente che l’ha fatto. L’hanno chiuso tutti, dopo poco tempo.
  • E quanti visitatori hai? E un vero blog, quanti ne ha?
  • Ma ti pagano? No? E perché lo fai?
  • Ah, ma Guasti quindi è il tuo cognome. Io pensavo il soprannome. Allora ti ci posso chiamare.
  • Ma lasciare solo gli occhi nella foto? C’è troppo naso.
  • Dunque avevi già scritto sul web. Niente di importante, immagino.
  • Un tuo blog? Si vede che non hai nient’altro da fare.
  • Su Facebook ti seguo meglio. Scrivi meno.
  • Ah e di cosa scrivi? Capisco: cazzate, insomma.
  • Quindi si dice “blog”, non “blob”. E un “blob” allora cos’è?