That’s amore!

▶ Everything But The Girl – Missing (Official) – YouTube.

La verità è che adesso non saprei davvero cosa dire. La verità, forse triste, se vogliamo un tantinello limitativa di certe pregorative, specie per chi si vanta con insistenza, come me, di lavorare con le parole, sistemandole in frasi non sempre di senso compiuto, è che in certi casi mi riscopro del tutto privo di fantasia. La verità è che per quanto stralunato, spesso astruso, talvolta non proprio ancorato a questo mondo, non riesco minimamente a inventare, a scrivere di qualcosa che non conosca, almeno in parte, in prima persona, a tradurre in testi situazioni senza alcun appiglio con la mia banale quanto sorprendente realtà quotidiana. La verità (e poi cambio incipit, lo prometto, perché questo avrebbe stufato anche me) è che avevo già pronto, perché confezionato con scrupoloso anticipo, un post di tono romantico (o quasi) da pubblicare a San Valentino, peraltro concluso in tempi brevissimi rispetto ai miei più che rilassati standard: ma ne era uscito un ritratto così intimo, anche se volutamente ironico, della mia vita di coppia, che in tutta sincerità non me la sono più sentita di affidare alla rete un simile racconto, perché mi è parso d’un tratto molto più importante condividerlo solo in due. Ed è successo che, come non avveniva da tempo, quelle parole intenzionalmente nate per una diversa divulgazione, che avrebbero forse strappato un sorriso a qualcuno di voi, si siano invece trasformate di colpo ai miei occhi in qualcosa di molto più prezioso delle mie inutili velleità di blogger fintosaputello fintosimpatico, assumendo da quel momento le sembianze uniche di un originale e fortunamente apprezzato regalo per la mia dolce metà. Eppure non abbiamo mai avuto negli anni la benché minima tentazione di scambiarci un pensiero o di festeggiare in altro modo il San Valentino: non che ci sia nulla di male nel farlo, sia chiaro, il fatto è che San Valentino è la festa di “tutti” gli innamorati, una data così spersonalizzante, generica, priva di quel gusto esclusivo di qualcosa avvertito come solo e soltanto nostro. Tra qualche giorno invece cadrà il nostro anniversario, il…esimo (e non specifico ulteriormente). Una cifra che in genere suscita negli altri commenti carichi di uno stupore prevedibile, che vanno dal “eh? impossibile!” al “ma siete matti?” e che comincia a fare un po’ impressione anche a me: soprattutto perché non mi sembra affatto trascorso tutto questo tempo.

Sì, certo, se guardo indietro, agli inizi della nostra storia, mi rendo conto che sia passata, per certi aspetti, un’era geologica: all’epoca io andavo in giro acconciato con una coda di cavallo in stile Fiorello prima maniera, mettevo solo camicie sgargianti, alla Formigoni, e in discoteca il brano più ballato era la canzone qui allegata (video) finita, inevitabilmente, per diventare anche la nostra canzone. Abitavamo lontani, e per non far lievitare le rispettive bollette telefoniche ci chiamavamo quasi sempre da cabine pubbliche (location oggi estinta), esaurendo schede su schede, perché la parola “cellulare” si usava solo per definire il furgoncino blindato dei Carabinieri. Oppure ci scrivevamo: né email né sms, naturalmente, ma lettere, centinaia, che conservo ancora oggi in una scatola, tutte maniacalmente divise per data, in cui ci raccontavamo nei dettagli ogni nostra giornata, nascondendo così, tra aneddoti e pessime battute, l’ansia di rivedersi presto. Era forse da allora che non scrivevo qualcosa solo per il mio amore: perché negli anni la crescente complicità, il vivere ormai da tempo sotto lo stesso tetto, il riuscire a capirsi al volo anche solo sgranando gli occhi o storcendo da un lato la bocca ne hanno a poco a poco smorzato la necessità per far spazio ad altre, ed altrettanto importanti, esigenze. Ed ero certo che sarei comunque ritornato a parlare della mia vita privata, perché il punto, alla fine, se vogliamo, è sempre lo stesso: come si fa a descrivere un sentimento universale prescindendo da ciò che si vive sulla propria pelle, come riuscire a dare la giusta voce ad un’emozione collettiva senza prima decifrare ciò che significa per noi stessi? Siamo sicuri che le diverse fasi di una storia, la semplice attrazione degli inizi, le note “farfalle nello stomaco” o i “batticuori” di un primo innamoramento, il crescente senso di responsabilità reciproco di una relazione che si consolida sulla conoscenza, la fiducia, la stima nell’altro, corrispondano alle stesse sensazioni per tutti? Non ho certo una simile presunzione, conosco bene però quello che nella testa e nel petto avverto come amore: quell’inspiegabile mix di accoglienza, serenità, completezza, sorpresa e soddisfazione che provo ancora oggi quando ci svegliamo insieme al mattino, Ed è ciò che auguro anche ad ognuno di voi, di provare, per questo San Valentino.

Mal Comune?

▶ Dj Angyelle feat. Cladì & Curio 247 – It’s Up To Me – YouTube.

Detesto le generalizzazioni, il parlare per grandi gruppi, estendere i ragionamenti includendo diverse classi di individui quando poi sarebbero i singoli individui, proprio in quanto singoli, a fare la differenza. Riconosco però che quando si tratta di affrontare in toto la categoria “italiani” esistono dei pregi e dei difetti collettivi in cui, peccando forse un po’ di superficialità e approssimazione, bene o male dimostriamo quasi tutti, senza troppi sforzi, di possedere alcune precise caratteristiche appartenenti a un ventaglio di comportamenti, reazioni o risorse, presto riconoscibili come “peculiarità nazionali”. E lo scenario politico di questi giorni, le accese modalità di discussione o di vero e proprio scontro che hanno trasformato il parlamento italiano, nelle ultime settimane, in uno squallido campo di battaglia, è purtroppo soltanto l’ennesimo esempio di una delle nostre peggiori qualità, l’inettitudine al dialogo. Prescindendo dalle ragioni o dai torti, dalla classica frase a cui si ricorre come solita, inoppugnabile, giustificazione, quel “hai cominciato prima tu”, che ogni cittadino adulto dotato di senno dovrebbe aver abbandonato con la fine delle elementari, i toni deplorevoli con cui si è svolto il recente dibattito politico, hanno prodotto soltanto l’effetto deleterio di sviare il necessario confronto dai contenuti a favore di milioni di digressioni su una forma irrispettosa e inaccettabile. Parole vergognose come “boia”, “squadristi”, “stupratori”, così come i ceffoni sonori volati tra parlamentari o la ripugnante pratica dei libri dati al rogo non dovrebbero esattamente rientrare nella prassi quotidiana con cui si conduce una normale e civile discussione, ma farci innanzitutto gridare allo scandalo, muovere la nostra indignazione, spero non addirittura farci rimpiangere una vecchia conoscenza decaduta che apostrofava qualche illustre collega straniera come “culona inchiavabile” (lungi dal me il rimpiangerla, sia chiaro). Macchè, niente, tolleriamo senza battere ciglio o addirittura difendiamo a spada tratta, acriticamente, qualsiasi uscita fuori luogo o pesante insulto proveniente dalla parte politica che ci rappresenta per il solo fatto che ci rappresenta, senza metterne in discussione il valore, la decenza o piuttosto il loro esserne del tutto privi. Succede inoltre, in questo Paese che ha fatto del paradosso e della contraddizione la sua cifra stilistica più riconoscibile, che quando invece ricorriamo al sarcasmo e all’ironia – e in questo, come popolo, abbiamo talento da vendere – per mettere alla berlina innanzitutto noi stessi, per sorridere in maniera catartica dei nostri mali e delle nostre pecche, per sbeffeggiare i nostri vizi imperanti, ecco che allora si sollevano inutili polveroni mediatici sul caso, si scatenano reazioni spropositate rese ancor più vivaci da un’energia e da un piglio battagliero che in altre, più importanti, circostanze rimangono invece sopiti. Vado a riassumere l’ultimo, eclatante episodio: c’è un piccolo comune di 50.000 abitanti, Nichelino, in Piemonte (fino a pochi giorni fa noto soprattutto per ospitare il celebre complesso sabaudo della Palazzina di caccia di Stupinigi), il cui sindaco decide di mettere a disposizione gli spazi del proprio municipio come set in cui girare un videoclip musicale (video allegato). Il brano, It’s up to me, un motivetto disco orecchiabile firmato Dj Angyelle con la partecipazione della cantante Claudia Padula, in arte Cladì, ha in realtà il suo punto di forza nelle immagini del video stesso, un piccolo capolavoro di satira in cui si prende in giro un po’ di tutto: l’inefficienza e la fannullaggine dei dipendenti pubblici (la stessa che ci irrita ritrovare in ogni puntata de Le Iene), i ricatti, i mezzucci e gli intrighi di palazzo, ma soprattutto la vanità dei politici piacioni che si lasciano sedurre da belle e provocanti fanciulle, appoggiandone la carriera (e qui c’è mezza storia recente d’Italia). Apriti cielo: immediate le proteste da parte dei comuni limitrofi così come degli esponenti dello stesso partito e della giunta regionale che chiedono l’immediato ritiro del video, (http://www.affaritaliani.it/cronache/nichelino-video-hard-comune060214.html), accusato di essere sconveniente, offensivo, addirittura hot, mentre non si placa la bufera sul sindaco (che tra l’altro compare in coda nei ringraziamenti della clip stessa) per aver permesso un simile oltraggio al decoro istituzionale del posto. Peccato che il video non sia, alla fine, né troppo osé, così come tanta stampa sembra sostenere, né particolarmente volgare, in ogni caso sempre meno di tutto ciò che siamo abituati da tempo a vedere in qualsiasi trasmissione tv, dal quiz pomeridiano al noioso talk show politico. Peccato constatare, in conclusione, che siamo di fronte alla solita bravura, all’italiana, di riuscire a polemizzare a oltranza sul nulla. In questo, dobbiamo ammetterlo, non abbiamo rivali in tutto il mondo.

Lady Gagarin

Gaga Tests Flying Dress – YouTube.

Probabilmente sarò l’unico, ma io me la immagino da sempre sgusciare frettolosamente a casa, dopo ogni impegno, per abbandonarsi al lusso – tipico di molte donne che per lavoro/desiderio/masochismo mantengono però in pubblico, sin dalle 6 del mattino, un aspetto a dir poco impeccabile – di lasciarsi finalmente andare al piacere di un orrendo pigiamone di pile o di peluche rosa confetto, di quelli un po’ usurati dal tempo, tutto interamente ricamato con teneri orsetti, cuoricini, sdolcinate scritte di strass del tipo “Good night sweetie” e robaccia simile. Mi sembra quasi di vederla rannicchiata sul suo divano, ai piedi due enormi babbucce pelose a forma di gatto o di Hello Kitty, il viso del tutto struccato, gli occhialoni spessi da vista (di quelli che ogni miope custodisce gelosamente nel proprio cassetto e con cui non si mostrerebbe mai ad anima viva), i cappelli raccolti da una matita masticata in uno chignon sbilenco, e lì lentamente gustarsi, tra relax e sciatteria, il meritato momento di insulsa normalità. Perché pensateci bene: essere Lady Gaga, alla fine, deve essere una grande, immane, mostruosa, fatica. Non di quelle reali, per carità – tipo gestire gli orari di lavoro, le follie dei familiari, l’assottigliarsi dello stipendio – a cui siamo invece abituati soprattutto noialtri comuni mortali, che possiamo però permetterci ancora di uscire in giro con qualche brufolo, occhiaia, pelo superfluo in più, tanto chi se ne accorgerebbe mai, neppure il salumiere sotto casa, per dire. Il lato difficile, diciamo così, dell’esistenza di Miss Germanotta (vero cognome e forse tormento della nostra cantante) potrebbe essere però davvero il rischio di trasformare in una nevrosi logorante, in un pensiero ossessivo, in un’estenuante, e non sempre fruttuosa, ricerca, quella che da qualche anno è la sua più riconoscibile cifra stilistica: la volontà di arrivare a stupire continuamente il suo pubblico, ad ogni apparizione, con la scelta di un look eccessivo, esasperato, travolgente come uno tsunami.

“E stavolta che m’invento?” potrebbe verosimilmente chiedere la popstar, con tutta la comprensibilissima ansia del caso, ogni mattina al proprio laborioso staff, già responsabile (o meglio colpevole) di averla ricoperta, solo per citare i casi più recenti, di pizzo avviluppato sul suo corpo come edera, di parrucche architettoniche, di macabri tatuaggi, di protesi occipitali e dentarie, di enormi bistecche simili a quelle di brontosauro che abbiamo visto solo nei cartoni dei Flinstones. Di averla poi rinchiusa in inquietanti bozzoli e disgustose armature da alieno, di averla fatta travestire da ragazzaccio di quartiere, da suora punk, da galeotta borchiata, da serigrafia di Warhol (i colori almeno erano quelli), arrivando in pratica a sondare tutto un immaginario estetico impossibile da raggiungere anche sommando tutti i nostri passati carnevali fatti di maschere altrettanto surreali. Ed ecco allora il colpo di genio: sto esaurendo in una sola carriera tutte le possibilità espressive offerte da questo mondo? E io mi rivolgo all’intero universo: risale infatti soltanto alla settimana scorsa la notizia, confermata dalla stessa Gaga in uno suo seguitissimo tweet, che l’artista parteciperà nel 2015 allo Zero G Colony (http://www.zerogcolony.com/) il primo festival musicale ideato in totale assenza di gravità, in programma appunto allo Spacesport America, costruzione futuribile sorta nel deserto del New Mexico. Secondo indiscrezioni alla cantante verrà affidato l’evento conclusivo dei tre giorni di kermesse, forse un’esibizione “fluttuante”, da tenere a bordo di una navicella spaziale o in qualche altra immaginifica struttura, allestita per l’occasione nell’avveniristico spazioporto finanziato dal magnate della Virgin Richard Branson. E per non farsi cogliere impreparata all’evento Lady Gaga, solo ieri a New York, durante il lancio mondiale del suo nuovo album, Artpop, sembra aver affrontato le prove generali della tanto attesa performance: testando il prototipo di un “abito volante” (ribattezzato appunto, con un evidente sforzo di fantasia, Volantis) (video allegato), una sorta di elicottero indossabile in cui ha goffamente e coraggiosamente galleggiato in aria per alcuni metri. Certo, rispetto all’intelaiatura possente del mezzo,  l’effetto finale di balzello a singhiozzo è stato un po’ deludente: confidiamo allora nei futuri due anni di duro allenamento che attendono l’artista, o, perché no, nella progettazione di una nuova e più efficiente macchina volante. O meglio ancora, nell’arrivo di un altro cantante che giunga a conquistarci, semplicemente, senza tanti sforzi rocamboleschi, con la sua sola voce.

Good vibrations

Rock’R² – Official Video – YouTube.

Da creatura totalmente disinteressata al mondo della tecnologia, e di conseguenza assolutamente negata a gestire anche il più elementare congegno elettronico, posso per fortuna contare su un discreto numero di amici che per lavoro, passione, capacità (paragonate alle mie, direi quasi miracolose) al contrario così efficienti nel comprendere al volo il funzionamento di qualsiasi apparecchio, a mio avviso sempre troppo sofisticato, destinato ad apparire ai miei occhi soltanto come l’ennesima e astrusa diavoleria con cui di sicuro mi scontrerò. Persone pazienti e disponibili, a cui ricorro spesso, in drammatiche telefonate o e.mail dal tono supplichevole, ogni volta che il mio pc pare simulare un tragico abbandono (la maggior parte delle volte mai definitivo), ogni volta che il mio smartphone (ebbene sì, ne possiedo uno, ignaro di esser capitato in mani inadeguate) si esibisce in capricci che giudico incomprensibili, ogni volta che alzo arrendevolmente le braccia, tra rabbia e frustrazione, quando un qualsiasi attrezzo di ultima generazione decide, in completa autonomia, di non rispondere più alle mie, seppur banalissime, richieste. Amici preziosi e sensibili, che pur di non farmi sentire un completo idiota di fronte alla rapidità con cui risolvono il problema da me reputato insormontabile, si prodigano in lunghe e dettagliate spiegazioni, così infarcite di parole comprensibili quanto una lingua ugro-finnica, da causare il più delle volte sulla mia faccia una persistente espressione del tipo “se vuoi posso anche annuire, ma non ho davvero idea di ciò che stai dicendo!”. Gente premurosa che poi, annichilita e scoraggiata dal mio prolungato mutismo e dal mio visibile smarrimento, tenta la tattica del “proverò allora a semplificartelo come farei con mio figlio di 7 anni”, un po’ come succede quelle rare volte che decido di presentarmi dal mio dentista (che poi, sarebbe anche mio cognato) e lui carinamente mi chiarisce ogni sua minima azione, mentre io preferirei limitarmi a spalancare la bocca, senza dover per forza compiere lo sforzo di capire cosa vada combinando lì dentro. E succede anche che a causa di questi esseri magnifici e indispensabili al blogger, o meglio, per saldare il debito di riconoscenza che nutro nei loro confronti e per dare corpo a tutta la mia ammirazione nel sapersi destreggiare su un terreno in cui mi muoverò sempre con enorme difficoltà, decida di vincere le mie titubanze di incorreggibile tecnosauro andando alla ricerca, in rete, di un pensiero carino che possano di certo apprezzare. Ragione per cui, proprio oggi, faccio la gradita conoscenza di Rock’R 2 (video allegato) un curioso gadget in vendita esclusiva sul sito dell’azienda di telefonia francese Orange (http://www.orange.fr/), la cui simpatica forma, a prima vista, ricorda quella di un deodorante stick, o l’ipotetica supposta di Jeeg Robot, perfino un applicatore per assorbenti interni (strumento misterioso e interessante già incontrato a suo tempo nei miei anni di prolungate convivenze con graziose fanciulle. E direi di chiuderla qui con i paragoni, prima che il mio umorismo da quattro soldi sconfini nel mondo dei sex toys). Un piccolo prodigio, disponibile in tre colori ed acquistabile all’accessibilissima cifra di circa 35 euro, che promette di far riprodurre musica a qualsiasi altro oggetto, di diversa natura, abbiate già in casa, dal frigorifero al microonde, perché no, anche allo stesso scaldabagno, passando per bottiglie, tubi, scatole di diversa forma e dimensione (ma sono sicuro di poter contare sulla vostra fantasia nello sperimentare anche altro). Sfruttando un semplicissimo principio di acustica, quello della capacità di un corpo cavo di ritrasmettere suoni tramite vibrazioni se collegato con un micro-amplificatore (in questo caso la testina del nostro gadget, da svitare e appiccicare tramite una membrana adesiva, dove volete). Chiaro, no? Bah, vi dirò. Non è che c’è qualche volontario che voglia sperimentarlo di persona, così poi me lo rispiega, punto per punto, per benino? Saprò esservi riconoscente, giuro: magari regalandovi un buon libro.

Demolition girl

▶ Miley Cyrus – Wrecking Ball – YouTube.

A me suscita tanta tenerezza. Non sto scherzando, è davvero ciò che provo ad ogni sua apparizione. Ogni volta che le vedo sbattere, ad esempio, quegli enormi occhioni azzurri, strabordanti di mascara, nel goffo tentativo di restituirci una pessima imitazione di uno sguardo ammaliante o sexy. Quando osservo le sue foto, quasi sempre poco e mal vestita, mortificata da abiti di un eclatante cattivo gusto (mai pensato di licenziare lo stylist?) congelata in pose innaturali e volgarotte, maldestramente atteggiata sui red carpet di tutti i più noti eventi musicali, davanti ad obiettivi impietosi, che ne ritraggono la pressoché totale mancanza di sensualità. Non so come spiegarlo, ma mi prende un’incontenibile, quasi fraterna, voglia di raggiungerla, porgerle un accappatoio, sussurrarle “Dai, copriti, lo vedi che non è il caso”, darle un’amichevole pacchetta sulla spalla, due pizzicotti alle guance, suggerirle “adesso andiamo a casa, ti sciacqui il viso, ti rimetti quel grazioso vestitino a fiorellini e torniamo qua, contenta?”. Perché se ti è toccata in sorte la (s)fortuna di cominciare giovanissima la tua carriera in quella fucina di talenti a stelle e strisce che è il Disney Channel (lo stesso da cui poi sono partiti Britney Spears, Christina Aguilera, Justin Timberlake…l’equivalente, per numero di volti sfornati, del nostro Non è la Rai, ma con meno gnocca), se devi parte del tuo successo a quell’immagine di brava ragazza americana, un po’ in salute, tutta sorrisi bianchissimi e vitamine, non è che di colpo ti puoi improvvisare una trasgressiva bad girl e pretendere di risultare per giunta credibile. Eppure qualcuno dovrebbe spiegarglielo a Miley Cyrus (all’anagrafe Destiny Hope Cyrus, per chi pensava che certi nomi fossero solo appannaggio di Brooke di Beautiful), ventenne cantante/attrice/produttrice/già milionaria, figlia d’arte (papà Billy Ray è uno dei tanti, da noi sconosciuti, cantanti country capelloni), esplosa come fenomeno planetario nella serie tv Hannah Montana e ora in cerca di nuova gloria come più matura (e più svestita) icona pop. Non basta ossigenarsi o rasarsi a zero i capelli (azione peraltro già tentata, più fortunosamente, dalla stessa Britney in uno dei suoi impeti schizofrenici), ricoprirsi ovunque di numerosi e insulsi tatuaggi, simili a scarabocchi, leccare voluttuosamente un martello (un martello? ma ti sembra erotico?) e volteggiare in mutande o completamente nuda in groppa ad una palla da demolizione, che guarda caso, è anche il titolo dell’ultima hit (video allegato). Mi spiace, ma da tempo siamo abituati a ben altro: ai torbidi tweet di Rihanna intenta a rollarsi sigarette sospette, alla genialità di Lady Gaga tutta rivestita di braciole, per non parlare dell’insuperata Madonna, che da decenni va avvinghiandosi a crocifissi come a tizi nerboruti, che va mimando sul palco amplessi con donne/oggetti/pavimenti, e tu Miley vuoi scandalizzarci mostrandoci un po’ di lingua, mezza tetta e tre quarti di chiappa? Ma se perfino Cher, una che nonostante il triplo dei tuoi anni potrebbe farti ancora le scarpe, ma che insomma, un esempio di stile e raffinatezza non lo è mai stata, ti ha più volte duramente criticata, perché non darle ascolto? Perché purtroppo, nonostante l’impegno profuso per affrancarti dalla  precedente immagine di divetta acqua e sapone, questa svolta sexy nella tua carriera, la tua nuova canzonetta e il relativo video pseudointrigante, saranno forse ricordati, in futuro, solo per l’involontaria, rappresentativa, metafora. Una grande, pesantissima, palla.