Sarà la nostalgia…

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Sarà che l’estate vola via. E dai, non facciamo tanto i precisini, lo so anch’io che tecnicamente la bella stagione prenderà l’avvio solo domani, e stare a disquisire adesso sulla rapidità del suo passaggio, dopo mesi di attese, burrasche e tentennamenti meteorologici, soprattutto a poche ore dal suo sospirato inizio, sarebbe, a dir poco, inopportuno. Era soltanto per prolungare nell’incipit la citazione canora presa in prestito per il titolo. Ah, no, di quale brano si tratti di preciso non ne ho proprio idea. Sarà sicuramente una di quelle vecchie canzoni melodiche nostrane, le cui rime baciate cuore-amore mare-nuotare-pescare rimangono da sempre incollate come francobolli alla memoria a dispetto della tua ostinata volontà di sbarazzartene. Sarà che ad ogni benedetto Giugno sento l’anima soffrire e scalpitare sotto il peso dell’afa cittadina, per supplicarmi in ginocchio di fuggire, il prima possibile, nella selvaggia solitudine di qualche lido sperduto, di quelli zeppi di tronchi ricurvi e biancastri finiti chissà come sulla riva, accarezzati dalla freschezza delle onde, la stessa che sembra rigenerare anche te non appena arrivi a sfiorarla con i piedi. Sarà che invece per il momento non mi è sembrato abbastanza regalarmi un fugace week-end all’isola del Giglio, dove, tra l’altro, provato da un decennio di nullafacenza sportiva e dall’età, quella vera, che difficilmente confesso, mi sono sentito in buona compagnia alla vista un relitto (e se vi sembra di cattivo gusto una battuta sulla tragedia della Concordia, dovreste vedere i centinaia di babbei che ancora fremono sin dall’arrivo in porto per immortalarsi in un selfie con la nave naufragata). Sarà che implacabile, sulla bilancia, è comparsa esattamente quella cifra reputata un tempo irraggiungibile, stabilita come limite teorico oltre il quale avrei ripreso a prendermi cura del mio fisico in prolungato stato di abbandono, e fedele alla promessa a me stesso (accidenti alla coerenza) ho sfidato pigrizia e pubblica ridicolaggine per provare a correre di nuovo, ogni giorno, anche solo per pochi minuti, sufficienti però per farmi sentire a posto con la coscienza e, più spesso, a un passo dalla morte. Sarà che mi rendo conto da solo di avere un’inguaribile tendenza all’esagerazione, in tutto, e so benissimo che il mio nuovo peso potrebbe rientrare tranquillamente nei canoni di una buona forma di un uomo adulto di 1.75 m di altezza, eppure continuo a pensare che ritrovarsi nei panni di Giuliano Ferrara a questo punto sia un attimo (Apro bislacca parentesi sull’altezza. Sì, sono 1.75 m, secchi. Non cominciamo con quel “no, ma via, sarai di più, almeno 1.80″. No. Non vedo la necessità di barare sull’altezza, io. No, perché più di una volta mi sono ritrovato in discussioni del tipo “Ma non è possibile, sarai più alto. Ma se sono io 1.68 m, ce l’ho scritto anche sulla carta d’identità”. Già, come se l’impiegato comunale dell’anagrafe fosse stato lì a misurarvi davvero centimetro per centimetro, o come se non vi foste appositamente presentati quel giorno col tacco 12 o in punta dei piedi). Sarà che in questi giorni è un gran parlare dappertutto di esami di maturità, e nonostante dal mio siano trascorsi quasi due decenni (e della tanto decantata “maturità” in questa vita, neanche una pallida ombra), stuzzicato nei ricordi della mia adolescenza irrequieta e spensierata, ho trascorso ore al telefono con quei vecchi compagni di scuola con cui sono ancora in contatto, a sostituire i nostri vecchi e infinti arrovellamenti su interrogazioni e compiti da copiare con il progetto concreto di una cena tutti insieme, con le ultime novità su bebé in arrivo, crisi professionali e complicazioni sentimentali. Sarà che ho sempre evitato con attenzione di comparire sui social o di farmi taggare in quelle tristi foto ingiallite risalenti alla mia infanzia, eppure quando la mia storica e preziosissima amica Loredana ha ritrovato e pubblicato quella che vedete qui, datata (ahimé) 1979, che avevo visto una sola volta, alle medie, ho rischiato sul serio di commuovermi. Sarà che trovo così teneramente buffo il mio aspetto di allora, i capelli con la frangia sbilenca che mi facevano tagliare da mia zia (perchè poi?), le orecchie grandi e a sventola (no, non le ho rifatte, nel caso vi fosse venuto il legittimo dubbio, sono andate a posto da se’. Il destro però è rimasto più grande e sporgente), quell’aria fuori luogo da bambino pseudo-iracheno ritratto in mezzo a una famiglia norvegese, tutti più o meno biondi, quasi tutti sorridenti, tranne me. Forse sarà quel medesimo e mai sedato senso di inadeguatezza, di spaesamento, di perfettibilità che, beffardo e puntuale, provo anche oggi. O forse, davvero, sarà solo un po’ di nostalgia.

Luna nuova

▶ Shivaree – Goodnight Moon – Clipe – YouTube.

Spazzeranno via anche molti dubbi relativi alla sua vera origine, alla natura della sua misteriosa e ostile composizione, alle ragioni della sua millennaria presenza appesa in aria a scrutare i ritmi sonnolenti delle notti terrestri. Ma ad ogni nuova ricerca scientifica che spieghi qualche capitolo in più della sua lunghissima storia o arrivi a sviscerare tutti i dettagli sulla vita del nostro satellite, ho come l’impressione che venga in parte scalfita la purezza di quell’affascinante volto di romanticismo e di imperscrutabilità che il genere umano ha da sempre riconosciuto nella luna. Non c’è paragone infatti tra la freddezza dei dati che proprio in queste settimane affioravano con scrupolo in numerose testate giornalistiche nel fornire i particolari di una nuova, sensazionale scoperta, che attribuirebbe la sua nascita alla probabile e devastante collisione, avvenuta 4 miliardi di anni fa, tra la Terra e un corpo celeste di dimensioni planetarie dal nome mitologico, Theia (http://scienza.panorama.it/spazio/Ecco-come-e-nata-la-Luna), e, dal lato opposto, tutto lo sconfinato bagaglio di leggende fantasiose, riti e tradizioni che a ritroso nei secoli gli antichi popoli hanno immaginato e narrato per giustificare la sua esistenza e la sua continua e ciclica trasformazione. Il mio amore, ad esempio, di recente preso dallo studio e dalla passione per la ricca cultura indiana, pochi giorni fa, durante un viaggio notturno in auto, forse per interrompere le mie penose interpretazioni canore con cui seguo la radio, mi raccontava, con la giusta enfasi, la storia del dio Ganesha, golosa divinità indù dalla faccia di elefante, che scagliò una delle sue zanne di avorio contro la luna incrinandone la superficie e determinandone così la luminosità a fasi alterne. “E perché mai avrebbe spaccato la luna questo Ganesha?” “Perché aveva osato ridere di una sua indigestione” “Permaloso però, il pachiderma”. Altrettanto originale, anche se non così degno di essere celebrato nei libri di tradizioni popolari, è l’utilizzo infantile del nostro satellite che ne fa la mia adoratissima nipote, a cui ricorre con furbizia come diversivo per non rispondere alle domande giudicate troppo incalzanti (“Hai finito di mangiare?” “Guarda zio, c’è la luna!”) dimostrando, con la rapida scaltrezza dei suoi pochi anni, di aver già compreso il potere magnetico di quel disco celeste di distrarre le persone o di riuscire a distoglierle dai propri pensieri. Che poi è ciò che cerco appunto di fare questa notte, la prima accompagnata dall’odioso caldo torrido di stagione, che mi spinge a preferire la finestra al letto, dove almeno posso sentire sul viso il tocco rinfrescante di una brezza, che provo a trattenere il più possibile con il respiro, mentre ascolto in loop una canzone perfettamente appropriata, Goodnight moon, buonanotte luna (video allegato). In realtà so benissimo che a tenermi sveglio non è di certo la temperatura, che il mio fisico, seppur appesantito da troppi stravizi culinari, riesce a tollerare da sempre a meraviglia, quanto uno sfinente e prolungato momento di intoppo e di generale ripensamento, soprattutto professionale, che sta adesso attraversando la mia vita. When I’m alone all the dreaming stops and I just can’t stand, ‘da solo tutti i sogni si fermano e non posso sopportarlo’, continua il brano che sembra ricalcare alla lettera ogni mia più dubbiosa riflessione e che rimbalza appena sulle mie labbra mentre fisso la luna, congelata in uno spicchio di cielo tra il profilo rigoglioso di una collina, ora di un buio impenetrabile, e un mostruoso e deserto cavalcavia. Sto per mettere in discussione e forse concludere del tutto una vecchia collaborazione, seppur prestigiosa, che ho coltivato per lungo tempo con enormi sacrifici, in cui adesso però mi pare di scorgere più incognite che stimoli, mentre accarezzo sempre di più l’idea di ricominciare da un’altra parte, anche se non so bene dove, scontrandomi con tutte le paure, le ansietà e le speranze di un nuovo, ipotetico e necessario inizio. What Should I do? Che dovrei fare? Magari riuscissi davvero a saperlo, anche solo a leggerlo con esattezza sulla superficie biancastra della luna, che stanotte ha assunto la forma irregolare di uno strano recipiente parzialmente svuotato. Direi quasi un calice, un bicchiere forse, assurda e calzante metafora di come per andare avanti mi converebbe d’ora in poi riuscire a intravederne invece la metà piena. Buonanotte ottimismo. Buonanotte luna.

Questioni di (lato) B

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Bene. Sono appena le 9.44 del mattino. E questa che mi accingo a fare è già la terza, estenuante, fila. Deve esserci un qualche crudele piano divino, penso ogni volta, in questa situazione. Perchè ho scelto, a suo tempo, di vivere qui con il mirato scopo di recuperare tranquillità, energie, una placida e flemmatica dimensione quotidiana. Piuttosto alla larga dalla schizofrenica routine cittadina. Tutti vantaggi, credevo, che solo un microscopico e sconosciutissimo centro urbano, difficilmente rintracciabile anche sulla cartina, potesse davvero regalarmi. Poco meno di tremila abitanti, si dice, anche se dubito che il numero effettivo delle persone realmente residenti in questo rustico paesino, al confine tra ultima periferia e piena campagna, abbia mai superato i tre zeri. Che poi sono le stesse, tutte, (si metteranno d’accordo sull’orario?) che riesco a beccare ogni volta in una qualsiasi coda interminabile in cui mi trovo ad attendere il mio agognato turno. C’è la simpatica ultraottantenne con i suoi perenni occhiali da sole alla Keanu Reeves in Matrix, che si sbraccia di saluti, bastone alla mano, con chiunque inchiodi con l’auto per evitare i suoi attraversamenti selvaggi di strada. C’è l’irrudicibile signore di mezza età, ciuffo brizzolato e coraggioso abbigliamento da teenager, convinto, nonostante le mie dettagliate spiegazioni in proposito, delle mie origini romane, al cui ennesimo “A Roma che si dice, tutto bene?” mi limito ormai a rispondere “B – bene, grazie!”. C’è la matura e scoppiettante primadonna della piazza, un vago accento spagnolo che scappa fuori qua e là nella sue rumorose conversazioni, sempre vestita di azzurro, in ogni stagione, come una sorta di fata turchina in salsa tosco – iberica. Bene. E poi ci sono io, che mi aggiro silenzioso, con cordiale distacco, in questa località divenuta adesso familiare, in cui faccio ancora fatica a sentirmi a casa. E che, per ingannare il tempo da spendere nei miei soliti giri, mai così brevi come desidererei, passo in rassegna, osservo, ascolto la solita gente che, al solito, mi farà fare tardi. Proprio come oggi. Prima alle Poste, dove sono tornato con rassegnazione dopo che un improvviso black-out ai terminali mi ha fatto buttare via l’intero pomeriggio di ieri. Poi al supermercato, dove anche dirigersi alla cassa automatica per sbrigarsi è del tutto inutile perche la signora davanti a me l’ha inceppata con un numero elevato e sospetto di tavolette di cioccolato. Adesso anche in edicola, dove in genere ritiro con una rapidità da guinness tutte le riviste e gli allegati che lo zelante giornalaio mi mette da parte, fingendo un po’ che interessino a qualcun altro, oltre a me. In genere. Non oggi. Bene.

Ed è qui, tra lo sconforto di una nuova attesa che si fa sempre più evidente e i capricci indomabili della bambina che al supermercato, pochi minuti prima, ha fatto il diavolo a quattro con la mamma per delle patatine e che adesso replica la stessa pietosa scena per l’album di Peppa Pig (signora, sono con lei, non ceda) che mi accorgo di una novità significativa. Bene. B la nuova avventura editoriale di Barbara d’Urso, un magazine fiammante tutto ideato da una delle signore più influenti e presenti della nostra tv, colei che, a scanso di equivoci, campeggia in copertina con un sorriso stratosferico (già visto, a dire il vero, qualche anno fa, in una pubblicità per uno studio dentistico di cui era testimonial) e una pelle luminosa e levigatissima, paragonabile solo a quella di mia nipote di tre anni. Colei che su uno smisurato repertorio di faccine, bacetti-smack-smack ed espressioni crucciate, che elargisce con abbondanza ad ogni sua intervista, sia l’interlocutore un ex premier o una ragazza madre rapita dagli alieni (perché l’ospite in studio deve raccontare storie al limite del credibile) ha costruito una delle più felici e criticate carriere catodiche. E che adesso prova ad allargare il proprio impero di consensi e di oppositori sbarcando in pompa magna in edicola, con una rivista che si preannuncia come l’ideale proseguimento cartaceo della sua, già consolidata, fama di sguazzatrice nel torbido delle notizie. I titoli non deludono le aspettative: l’incredibile e paradossale avventura della signora che ha partorito sul divano (scioccante, vero?), tutta la verità di Manuela Villa (che però ha cambiato taglio e colore di capelli) su suo padre (ancora?), e poi milioni di imperdibili consigli per evitare i disastri della prova costume, su cucina, bellezza e make-up, in un crescendo di argomenti e soggetti in bilico tra prevedibilità e trash. Avrà successo? Temo proprio di sì. E per una ragione molto semplice. C’è un po’ di B in ognuno di noi. Noi che per distrarci dalla piattezza della nostre giornate rovistiamo nell’apparenza delle esistenze altrui, pronti a sparare a zero su tutto. Noi che ci definiamo con orgoglio creativi per poi riuscire solo a fabbricare obbrobri inguardabili e dozzinali (come, ad esempio, la lampada coi cucchiai di plastica spiegata proprio nella rivista). Noi che attribuiamo a ipotetici talenti o sacrifici la nostra posizione, i nostri successi, la nostra carriera, quando sappiamo benissimo essere stata spesso una mera questione di scelte casuali, compromessi, mezzucci o spintarelle. O, in numerosissimi casi, di sfacciata fortuna. E’ per tutti noi c’è da oggi proprio B. E quel B starebbe per Barbara. Nel caso vi fosse venuto il dubbio che c’entrasse qualcosa una botta di lato B.

Dimmi come ti chiami…

“E’ nato? Ah, femmina? E come la chiamano? Roberta? NORBERTA? Ma che nome è Norberta? Non mi piace, no, per niente, è brutto…povera creatura!”. La signora seduta di fronte a me in treno, mèches impeccabili e troppe perle a ricoprire una banale maglia corallo, appartiene alla tipologia di passeggeri con cui non vorresti mai viaggiare, quelli che ci tengono a rendere tutto il vagone partecipe delle proprie conversazioni telefoniche. Normale perciò che quel nome discutibile, scandito a un volume non proprio contenuto, abbia suscitato, comprensibilmente, una silenziosa e solidale riprovazione affiorata in tutti gli sguardi degli altri occupanti, che tentavo invano di evitare. Poche sillabe urlate che hanno risvegliato una collettiva e simultanea reazione fatta di occhi improvvisamente spalancati, teste che si scuotevano nell’aria a disegnare un “no”, piccoli sbuffi o risatine impossibili da soffocare. La mia mente bislacca naturalmente, era andata già oltre: immaginavo quell’ignara bambina, divenuta un’adolescente ribelle, arrovellarsi ogni giorno, maledicendo i propri genitori, nel tentativo di scovare un nomignolo o un’abbreviazione graziosa in grado di sostituire quella sadica scelta, che non suonassero però altrettanto orrendi, anche se Norby o Berta non mi erano sembrati al momento così convincenti. Perché poi, per rovinare l’esistenza dei propri figli, ci vuole un attimo: basta una decisione bizzara o la volontà di apparire a tutti i costi originali o creativi, e voilà, ti ritrovi tutta la vita a trascinarti un nome che detesti e che diventerà il tuo tormento ripetuto all’infinito sulle labbra di chiunque incontrerai. Io l’ho scampata per poco: mamma, folgorata da Signorsì, primo romanzo di Liala (non c’entra nulla, ma, ora che mi viene in mente, tra gli insulti  fantasiosi con cui nel tempo sono stati stroncati i miei testi c’è anche “scrivi come un incrocio fra un verbale dei carabinieri e un romanzo di Liala”. Non proprio carino, ma pittoresco, quello sì), voleva battezzarmi proprio come il suo protagonista, un avventuroso aviatore, Furio. Nome che a me fa venire in mente solo l’ossessivo e precisino personaggio di Verdone: per fortuna babbo, in uno di quei suoi rari slanci propositivi, o forse spinto dal senso di colpa per l’eredità di un cognome facile bersaglio di future prese in giro, che ho imparato col tempo ad anticipare, se la cavò con un “se lo chiami Furio non te lo riconosco” e così optarono serenamente insieme per Alessandro.

Che, al di là dello splendido significato (salvatore o protettore di uomini, anche se non ricordo di avere mai salvato o protetto neanche una formica) è sempre stato piuttosto diffuso; in ogni classe che ho frequentato a scuola ad esempio ce n’erano almeno altri due o tre, più un paio di Alessio/a. Così succedeva spesso che ad ogni ‘Ale’ urlato da chiunque nel cortile ci si voltasse minimo in quindici, ragion per cui io finivo immancabilmente per essere etichettato come “quello scuro” oppure “quello basso”, o, più spesso e volentieri, Guastino. Persone a cui è andata forse in maniera peggiore ne ho conosciute diverse. Una stravagante compagna di università, ad esempio, origini siciliane, capelli cortissimi rosso fuoco e un numero imprecisato di piercing, che si era presentata a noi tutti, e solo così pretendeva essere chiamata, con cinque semplici lettere, Sassa. E se non fosse stato per il nostro docente di filosofia antica, dal buffo accento tedesco, che un giorno decise a sorpresa, durante una lezione, di fare l’appello degli iscritti, sarei forse invecchiato con la convinzione che il vero nome di Sassa fosse in realtà Sabrina o Samuela, e non di certo, come risultò invece essere, Crocifissa. Tra le cause principali di certi, irreparabili, danni, proprio la devozione religiosa ha da sempre avuto la sua parte (generando perle come Fede o Luce), al pari di alcune inevitabili tradizioni familiari (“sai, era il nome di mio nonno, c’avrebbe tenuto”) oppure di uno spiccato gusto per l’esotismo (del tipo Jonathan o Swami) come infine l’improvvisa fascinazione per alcuni personaggi televisivi (ricordo di aver conosciuto a suo tempo anche un Sandokan). Senza dimenticare poi che sono soprattutto gli stessi esponenti del mondo dello spettacolo a dare il meglio di sé quando si tratta di scovare un nome inconsueto per la propria prole. In questi giorni, alla schiera delle varie Lourdes Maria (figlia di Madonna, tanto per tornare in tema di religiosità), Apple (figlia invece degli, ormai ex, Gwyneth Paltrow e Chris Martin), Chanel (Totti) e Suri (Cruise) si è infatti aggiunto Maddox Prince, primogenito dell’ex – velina Melissa Satta e del calciatore ghanese Kevin Boateng; scelta a metà tra un supereroe dei fumetti e un medicinale per il bruciore di stomaco. Nomen omen, recita un vecchio motto latino: il destino è già scritto nel nome. Un destino che, in questi casi, può soltanto migliorare.

Ansiautunno

Se siete già da tempo lettori di questo blog, andate avanti. Ve lo consiglio, seriamente, saltate a piè pari questa breve introduzione e cominciate dal capitoletto seguente (sempre che riesca a scriverne uno). Il motivo è dei più semplici: qui non troverete nulla che suoni alle vostre orecchie come del tutto nuovo, originale, mai letto prima in qualcuno dei miei post più vecchi. Non solo perché siamo già giunti, prima di quanto pensassi, a superare la bellezza di 100 miei interventi (questa che sta scorrendo sotto i vostri occhi è precisamente la creatura n. 101, proprio come l’arcinota carica disneyana, con la sola differenza che l’unico cane qui potrebbe essere l’autore); cifra che mi costringe, per non trovarmi a ripetere con troppa frequenza le stesse parole, a dover leggere un po’ di tutto, dalle ricette stampate sulle buste dei cibi alle etichette dei prodotti per il bagno (anche se dubito che termini come “liofilizzato”, “emolliente” o “dermatologicamente testato” possano mai tornarmi utili in un eventuale post). Quanto soprattutto perché il sovracitato autore/quadrupede si sta, come immaginerete, già fasciando paranoicamente la testa in attesa della (per lui) più temuta stagione, che solo tra qualche giorno scalzerà le ultimi propaggini estive: l’autunno (no no no, suonerebbe un’azzeccatissima eco). Lo detesto. In ogni suo dettaglio. Non ne sopporto il lento scemare pomeridiano della luce che prelude a sere sempre più lunghe, il progressivo e impietoso affievolirsi della temperatura, il cupo ingiallirsi del mio giardinetto (foto allegata) che a poco a poco si trasforma in un disordinato pavimento di foglie croccanti (e come tale poi rimane per lunghi mesi). Mi irrita l’arrivo inevitabile delle piogge, le gocce che si inseguono formando malinconici rivoli sulle finestre, gli alberi e la frutta rivestiti di toni smorzati. Ma ciò che maggiormente mi inquieta, mi atterisce e mi turba è il suo equivalere al dover trovare (chissà poi dove) nuove energie necessarie per pianificare, organizzare, riprendere in mano tutto l’incompiuto lasciato volutamente alle spalle durante l’estate. Un severo richiamo all’urgenza dei propri doveri, alla disciplina necessaria per gestire tutti gli impegni, alle regole che dovrebbero scandire la vita di un serio ed equilibrato 29enne: insomma, per me che sono pigro, indisciplinato, immaturo (e men che mai 29enne) una vera e propria tortura.

Se avete davvero seguito il mio consiglio iniziale e state cominciando a leggere questo post da qui, vi riassumo cosa vi siete persi: niente. C’è un blogger, brontolone e metereopatico, che si rifuta di dare il benvenuto alla prossima stagione autunnale, perché nel suo immaginario coincide con il dover mettere in ordine e riallestire una vita in cui di ordine ce n’è sempre stato ben poco. A dire il vero anche la mia casa rispecchia il caos e la mia stessa inquietudine settembrina, soprattutto perché, al momento, sto lavorando a dei testi che avrei dovuto consegnare da giorni e che non riesco ancora a concludere. Vivacchio perciò perennemente inchiodato davanti al pc, che raggiungo facendo il dribbling tra pile di libri e riviste da consultare, accampate ovunque nei corridoi, su tavoli, sedie e divani, dei totem cartacei che obbligano gli ospiti a sedersi sul pavimento o li invitano a scattare foto da condividere, con mia somma vergogna, sulle proprie pagine dei social. Ed è proprio mentre posavo lo sguardo su una di queste instabili torrette di volumi, in cerca di nuova ispirazione per i miei scritti, che oggi mi ritrovo gradevolmente spiazzato dall’arrivo, a sorpresa, di un’e.mail da parte di una mia vecchia conoscenza. Una persona che ha condiviso con me momenti importanti, dalla trepidazione dei primi esami all’Università all’incertezza, anche economica, dei primi lavori, e che è stata persino partecipe della mia ultima iscrizione in palestra (esattamente quindici anni fa). Una persona un tempo familiare, e che poi, come spesso succede senza alcuna vera ragione, ho lasciato uscire dalla mia esistenza per superficialità, noncuranza, perché le nostre strade hanno preso direzioni opposte e noi abbiamo permesso che la distanza, la quotidianità, la diversità dei nostri obblighi diventassero una scusa e un muro per non vederci né sentirci per lungo tempo. Fino ad oggi appunto. Quando la sua gradita e.mail ha interrotto il silenzio in cerca di un mio consiglio: che fosse appropriato ad un suo nuovo inizio, al chiudere un capitolo della sua vita per aprirne un altro, al ricominciare, con le sue forze, ad affrontare questo come i prossimi autunni. Ed è stato oggi, che ho capito: per risollevarci, per ripartire, per rimetterci in moto non abbiamo bisogno di progetti dettagliati e di bellicosi piani d’attacco. Abbiamo bisogno di qualcuno pronto a dirci che possiamo farcela.