Ti lascio una canzone

Raffaella Fico – Rush – YouTube.

Nel clima generale di delusione cocente che ha avvolto la nazione dopo le sonore batoste sul campo e la conseguente e fulminea eliminazione degli Azzurri dai Mondiali del Brasile ancora in corso (che, esattamente come l’edizione di 4 anni fa in Sudafrica, ci dovremmo rassegnare a seguire da spettatori passivi, simpatizzando per un’altra formazione, forse la prima che riuscirà a vendicare la nostra sconfitta con l’Uruguay), impossibile non incappare nel vizio ormai diffusissimo di scovare a tutti i costi un capro espiatorio da incolpare per l’inaspettata figuraccia calcistica. Nella fattispecie, mi pare che il severo popolo italiano, composto da tifosi più o meno occasionali – i quali, si sa, quando si tratta di giocare allo “scaricabarile” dimostrano più abilità che nell’autoeleggersi ct per tutta la durata del Campionato – abbia universalmente individuato il colpevole di turno in un personaggio che, in fondo, nonostante la bravura spesso dimostrata in passato, non si è mai così distinto per simpatia e disponibilità, sicché diventa senza dubbio più facile imputargli tutte le possibili pecche o mancanze. Ovviamente va riconosciuto anche che il criticatissimo e controverso Mario Balotelli (perché è di lui che stiamo parlando, da giorni, e non solo qui) sin dai minuti immediatamente successivi al fischio finale dell’ultima, penosa, partita, ci sta mettendo davvero del suo per peggiorare in ogni modo la sua stima già compromessa, stima che comunque molti connazionali avevano dimostrato di nutrire nei suoi confronti, sperticandosi in migliaia di parole in lode (naturalmente già svanite come bolle di sapone) all’indomani della sua rete messa a segno contro l’Inghiliterra. E va bene, il fanciullo sarà pure una testa calda (vorrei vedere voi, a quell’età, con lo stesso cospicuo conto corrente), passerà più tempo a twittare o a postare foto sui social che non ad allenarsi (ma la dipendenza compulsiva da 140 caratteri mi pare appannaggio di molti altri personaggi pubblici, e con cariche decisamente più importanti), rilascerà dichiarazioni alla stampa talvolta velenose o inopportune (e chi non lo fa, in questo Paese?) ma da qui alla pubblica crocifissione mediatica a cui stiamo assistendo in questi giorni ce ne corre, ecco. Chi invece temevamo (o forse, ci auguravamo, potrebbe aggiungere qualche maligno) scomparisse insieme alla fine della burrascosa e strombazzata relazione sentimentale proprio con il nostro Supermario è la sua storica e indubbiamente bellissima ex Raffaella Fico: ex Grande Fratello, ex starlette da (piuttosto venduto, va precisato) calendario, ex prezzemolina tv, non proprio valletta diciamo showgirl-con-aspirazioni-mai-del-tutto-realizzate da conduttrice, pensavamo che la sua altalenante carriera nello spettacolo, forte di qualche colpo azzeccato qua e là ma non ancora veramente esplosa, finisse con lo spegnersi dei riflettori sulla sua storia con il calciatore (e ringraziatemi perché almeno qui vi risparmio le noiose vicissitudini sul riconoscimento della progenie, con cui fior di giornali e di tg sono andati avanti per mesi). Ebbene, proprio mentre la fama del suo amore ormai archiviato sta andando drammaticamente in picchiata, la splendida Raffaella azzarda invece il rilancio, su un terreno, tra l’altro, mai sperimentato, quello musicale: il suo primo singolo Rush (video allegato), accompagnato da performances inequivocabilmente sexy, con contorno di gambe scultoree e chilometriche in bella vista e mises a dir poco mozzafiato (da spot per prodotti anticellulite più che da tigre da palcoscenico, ma la strada per diventare Tina Turner è ancora lunga) rischia sul serio di essere annoverato tra i prossimi, onnipresenti, tormentoni estivi. E, dura da ammettere, di risultare perfino più piacevole alle orecchie delle solite, inutili, infinite polemiche che si sollevano ad ogni intervista o tweet del suo ex.

Lunga vita (virtuale) al Re!

Michael Jackson – Slave To The Rhythm – YouTube.

C’è chi lo negherà fino alla morte (perché, per quanto negli anni ti possa faticosamente esser riuscito di conquistare l’opinione di persona assai figa, per retrocedere all’infimo gradino di esemplare ridicolo basta invece un attimo) ma sfido a scovare anche un solo trenta/quarantenne degli attuali anni ’10 del terzo millennio che, due o più decenni or sono, non c’abbia provato almeno una volta. Magari allenandosi di continuo allo specchio nella blindata solitudine della propria cameretta, o forse fornendo un saggio discutibile delle proprie abilità danzerecce, spronato da quella scioltezza e dalla caratteristica faccia di bronzo che un qualsiasi pessimo vino, scolato senza freni in una qualsiasi festa casalinga, può regalare anche al più legnoso, restìo o timoroso dei ballerini. Di sicuro consumando prematuramente e in maniera sbilenca quella scomoda suola rasoterra, prerogativa di una certa marca di scarpe da tennis (perché sneakers è un termine fin troppo moderno, mentre gli attuali, coloratissimi e iperstrutturati modelli con ammortizzatori non sono proprio adatti allo scopo), oppure riuscendo a bucare sempre nello stesso punto centinaia di paia di calzettoni, perché in effetti, senza scarpe, cimentarsi in quel lento scivolare all’indietro sul pavimento poteva sembrare, almeno all’inizio, di una facilità impressionante. Per farla breve (che, diciamolo, non è proprio il mio forte) bastava accennare, anche in maniera scomposta, due passi, seppur incerti, del celebre moonwalk e ti pareva quasi di essere investito e in parte toccato da quell’unicità di grazia e dallo smisurato talento del solo, indiscusso e impareggiabile Re del Pop, Michael Jackson. E per quanto, all’epoca, potevate invece appartenere alla già esistente e altrettanto scatenata fazione dei madonnari convinti (nel senso di fan sfegatati, tutti pizzi e crocifissi, di Miss Ciccone, non di artisti da gessetti di strada) vi sarà comunque impossibile non riuscire ad ammettere il vostro debito di riconoscenza verso sua maestà Jackson. Colui che ha contribuito, soprattutto, a fissare nella vostra memoria di italiano così allergico alle lingue straniere quei cinque, sei, termini di inglese basico (tipo bad, dangerous, beat, o black e white) facilmente spendibili anche nella conversazione più improvvisata o spicciola, oltre naturalmente a quei sensuali movimenti pelvici che almeno in una circostanza (una di sicuro) vi saranno tornati piuttosto utili. Insomma, tutti coloro che ricordano a menadito le coreografie di Billie Jean o Smooth Criminal, che sono rimasti come ipnotizzati di fronte al fasto di videoclip come Remember the time o Scream, talvolta più lunghi e costosi di un’intera soap opera nostrana, che hanno assistito, sgomenti, alla radicale trasformazione di King Michael, causa delirio da eccesso di miliardi e di chirurgia plastica, da gradevole esemplare maschile di colore a femminea ed eburnea creatura priva di naso, che sono infine rimasti spiazzati e in qualche modo addolorati, cinque anni fa, dalla sua precoce e mai del tutto chiarita scomparsa, potranno in parte gioire questi giorni per il suo singolare ritorno sulle scene. Non tanto sul piano musicale, con l’uscita dell’album postumo Xscape, che, come già avvenuto per decine di artisti amatissimi e improvvisamente mancati, fa leva sulla pratica del necro-business sfruttando qualche traccia scartata nel confezionare lavori precedenti, magari arricchita di un qualche duetto con un cantante adesso in auge, così, tanto per darle una rapida ed orecchiabile svecchiata. Quanto quello avvenuto su un palcoscenico vero e proprio, sabato scorso a Las Vegas, in occasione dei Billborad Awards 2014, grazie a un sofisticato e studiatissimo ologramma virtuale che ha dato, per una notte, l’illusione di una sua coinvolgente performance in perfetto vecchio stile (video allegato). Che, nonostante la sincronizzazione non proprio perfetta con il corpo di ballo (vero e) presente e i mai superati difetti insiti nelle, ormai usatissime, ricostruzioni al computer, come una certa piattezza di ombre e l’inconsistenza materica dei corpi che sembrano galleggiare nello spazio, ha riportato sotto i riflettori le sue indimenticabili ed imitatissime movenze come la sua ineguagliabile bravura. Solleticando allo stesso tempo tutti i numerosi ricordi, la stima e la nostalgia dei suoi tanti sudditi ancora affascinati dalle capacità di un sovrano mai del tutto rimpiazzato.

L’austriaca Fenice

Conchita Wurst – Rise Like A Phoenix (Austria) 2014 Eurovision Song Contest – YouTube.

Senza nascondersi dietro a tante ipocrisie come ai soliti, inutili, giri di parole, diciamolo chiaramente: a destare stupore non è certo lo scintillio o la sensualità di quei suoi abiti di scena così fascianti, forse perfino sobri se paragonati a certe ridondanti apparecchiature spesso visibili in tv, né le sue movenze, aggraziate e studiatissime, di chi con tutta probabilità ha passato l’adolescenza a imparare a memoria i video di Mariah Carey o di Celine Dion. E neppure quei suoi lunghi capelli corvini (una parrucca, si sospetta), se proprio vogliamo usare un aggettivo adatto a un personaggio di fantasia, tipo Biancaneve, o quel suo vistoso e soffocante make – up, paragonato, su tanta stampa internazionale, al provocante look di Kim Kardashian, mentre qui potrebbe far venire più che altro in mente le esagerazioni estetiche nostrane di Anna Tatangelo, a cui, tra l’altro, somiglia in maniera impressionante. Ciò che al contrario sorprende, spiazza o ammutolisce nell’aspetto di Conchita Wurst, 25enne cantante e drag queen austriaca, scelta a rappresentare il proprio paese al concorso canoro internazionale Eurovision 2014, (a gareggiare per l’Italia sarà invece Emma Marrone), da stasera in programma a Copenaghen, è la presenza inaspettata di quella barba, scura e rigogliosa, volutamente ostentata (direi anche accentuata dal trucco, vista la sua superficie così compatta, simile alla grottesca capigliatura di un nostro ex – premier) che getta davvero pochi dubbi sulla vera natura sessuale dell’interprete. La quale, d’altronde, ha fatto leva proprio sull’ambiguità e sulla provocazione per alimentare curiosità e interesse intorno alla nascita del proprio personaggio, visto che il precedente esordio canoro, quattro anni fa, nelle più ordinarie vesti di Thomas Neuwirth (vero nome dell’artista) non era stato altrettanto fortunato. E dato che, come la storia della musica ha spesso dimostrato, da David Bowie ad Amanda Lear, passando per Boy George o RuPaul, giocare sul mistero e sulla confusione dei sessi può essere una carta vincente, lo stesso espediente viene ribadito sin dai titoli delle canzoni di Miss Wurst, dal primo singolo That’s what I am (Questo è ciò che sono) per finire appunto con Rise like a Phoenix (Rinascere come una Fenice), il brano, simile a una delle tante colonne sonore degli ultimi James Bond, presentato proprio per l’Eurofestival di quest’anno (video allegato). Ciò che invece rappresenta un vergognoso e deplorevole unicum, indice della sopravvivenza, in pieno terzo millennio, di un’annichilente ignoranza omofoba, è il recente proliferare, dopo l’ammissione della cantante alla finale del citato concorso, della nascita di alcune pagine Facebook zeppe di insulti anti – Conchita a cui ha fatto seguito la diffusione di veri e propri appelli da firmare, partiti da paesi non esattamente gay – friendly, come Russia e Bielorussia, finalizzati ad ostacolare la sua stessa partecipazione alla manifestazione. Ragione per cui, non me ne vogliano i calorosi fan di Emma (che immagino tantissimi tra il pubblico fedele di questo blog), mi ritroverò senza dubbio a tifare, infischiandomene di eventuali richiami patriottici, per il mio nuovo, idolo barbuto. Anche perché, forse distratti dalla sua immagine paragonata a un’attrazione da circo o al personaggio trans di Shrek, Doris, in pochi si sono veramente soffermati a valutare il talento musicale della cantante, che, in effetti, sembra possedere anche una gran voce. Oltre a quella folta e ordinatissima peluria per cui, da essere un po’ troppo spiumato, ammetto l’esistenza di un pizzico di invidia.

Note mondiali

▶ negramaro – Un Amore Così Grande 2014 (videoclip ufficiale) – YouTube.

Uno degli indici più odiosi dell’inesorabile scorrere del tempo (no, tranquilli, non è l’ennesimo post sulla dannatissima paura di invecchiare del blogger, almeno non nelle intenzioni) è il progressivo accorciarsi, con l’età, della percezione stessa della durata degli anni. Tanto per fare, come al solito, un esempio scemo, e rendere chiara la stramba questione introduttiva a chi non abbia ancora bissato la quindicina (per quanto riguarda tutti gli altri, sapete invece bene di cosa stia parlando), provate per un attimo a pensare ai Mondiali di calcio. Che, diciamo, fino verso quella fase della vita in cui alla parola “sofferenza” si associa più facilmente l’eliminazione dei peli superflui che non le pene d’amore o i dolori articolari, sembrano arrivare al ritmo di ogni sei, sette secoli. E tu che magari conservi arrotolata nel ripostiglio la bandiera tricolore in vista di una caotica festa collettiva in piazza, che ha tutta l’aria di essere un appuntamento piuttosto divertente, soffri per l’improvvisa e inaspettata eliminazione della tua Nazionale, soprattutto perché i futuri quattro anni di attesa per la prossima occasione ti sembrano davvero un tempo infinito. Poi cambia tutto. E da adulto (o quasi), alla prima frase distratta che giunge invece a coglierti di sorpresa dalla tv o dalla radio e che suona più o meno come “…adesso, con l’avvicinarsi dei Mondiali…”, reagisci con quel visibile moto di sbigottimento misto a incredulità, mentre in testa ti risuona un solo, gigantesco, inevitabile “di nuovo?”. Anche perché poi, di calcio, ma questo è facilmente intuibile, non è che c’abbia mai capito un granché: anzi, spesso si tratta di una di quelle rare occasioni (le altre sono le interminabili spiegazioni dei giochi a carte, oltre alla già dichiarata scarsa propensione alla tecnologia) in cui il mio cervello diventa automaticamente repellente, rifiutandosi di assorbire, anche a sprazzi, perfino quelle tre, quattro, regole fondamentali. Ad essere sinceri fino in fondo, non credo di conoscere neanche più di cinque dei nostri famosi (per gli altri) giocatori azzurri, cioè i soli che per una qualche ragione extraprofessionale (o extraconiugale) finiscono per riempire anche le pagine di cronaca rosa (come Balotelli e Buffon, per dire). Così come riesco a mandare su tutte le furie i miei amici più “devoti”, quelli che ogni domenica, anche in mezzo al mare o al nulla più totale, trovano sempre il modo di tirar fuori, forse da sotto le unghie, una microscopica eppur funzionante radio per seguire le partite, perché non so mai cosa sia un fuorigioco (se è per questo non sono neanche così sicuro di come si scriva) o un calcio d’angolo (su questo, almeno grammaticalmente, ho meno dubbi).

Naturalmente anche la mia memoria, scorrendo a ritroso negli anni alla voce ‘mondiali di calcio’, recupera con maggiore facilità il ricordo di alcuni brani musicali del passato che non qualche azione da goal o l’esultanza per un risultato vittorioso, di cui in effetti non conservo la benché minima traccia. Mi riesce più facile rievocare invece il celebre duetto Bennato-Nannini che al ritmo di Un’estate italiana scandì le notti di Italia ’90 (degne di menzione anche per il lancio di Ciao, la mascotte più brutta dell’intera storia sportiva planetaria), oppure un Ricky Martin sexy e ancheggiante al ritmo de La copa de la vida, inno di Francia ’98, per terminare infine con il Waka – Waka di Shakira (rinfrescato nei passi, da poco, in discoteca, con quattro tizie sconosciute) colonna sonora dell’ultima edizione del Campionato mondiale, quella sudafricana (ma gli azzurri avevano partecipato?). Una variegata lista di successi a cui, da oggi, dovrei aggiungere Un amore così grande (video allegato), cover di una nota canzone del 1976 interpretata da Claudio Villa, che i Negramaro hanno ripescato e reinterpretato per l’occasione, facendone il brano ufficiale della prossima avventura della nostra Nazionale agli imminenti Mondiali del Brasile. Eppure, nonostante la mia passione più volte ammessa per il medesimo gruppo, io stesso avrei preferito in questo caso una hit del tutto nuova, o almeno più vivace e coinvolgente, che non un pezzo dalle sonorità e dal testo un po’ malinconici e retro, perché composto in un’epoca lontana, addirittura quando le parole ‘forza Italia’ possedevano ancora il loro solo significato calcistico. Pazienza, mi acconteterò di guardare e riguardare il video, diretto da Giovanni Veronesi, in cui gran parte dei giocatori azzurri compaiono ripresi in alcune delle loro gesta memorabili durante la storia della Nazionale, così, almeno per tentare di riconoscerne nomi e volti. Sulle mie irreparabili lacune in materia di calcio, invece, aspetto l’ennesima, dettagliata spiegazione di fronte alla prima partita trasmessa in tv: sempre che stavolta riusciate a chiarirmi del tutto cosa sia un fuorigioco.

La stagione della felicità

Pharrell Williams – Happy (Official Music Video) – YouTube.

E’ diventata molto di più di una tendenza passeggera, una vera e propria moda, un fenomeno globale o meglio una mania collettiva, quasi più diffusa delle onnipresenti capigliature femminili rasate ai lati della testa o con la frangetta vertiginosamente salita a un terzo della fronte (ok, lo stesso look l’avrà pure adottato Noemi a Sanremo. Ma datemi ascolto: se avete quello stesso taglio di occhi lì, un filino appena discendente, per non dire proprio “da pesce lesso”, evitatelo con cura. Un domani mi ringrazierete). Dicevamo: forse logorati da troppi anni percepiti come eternità, in cui le parole “crisi” “default” “austerity” “ridimensionamento” e “bancarotta” hanno finito inevitabilmente per ricoprire i nostri volti di un tetro grigiore o per aumentare quella schiera di facce cupe e rassegnate che incrociamo ogni giorno, volenti o nolenti, nei nostri spostamenti quotidiani, l’impressione era ormai, fino a poco tempo fa, quella di una generale arrendevolezza a un clima di mestizia impossibile da schivare. Niente di più out, al momento: la strada per la risalita, il reagire con entusiasmo e ottimismo alle ben note difficoltà dell’ultimo periodo, il non lasciarsi sopraffare da macigni e intoppi di varia natura, soprattutto economica, che ci hanno tristemente attanagliato, gettandoci talvolta nella più cupa disperazione, passa ora anche dal mostrarsi, prima di tutto, in pubblico, combattivi, sereni, positivi. Sorridenti e infaticabili. Naturalmente felici. Aggettivo che mai come in quest’inizio di nuova stagione sta conoscendo un suo esplosivo e prepotente ritorno in auge, complice sul piano musicale il nuovo, cantatissimo, tormentone di Pharrell Williams, Happy, (video allegato), che ha scatenato una vera e propria gara all’emulazione, in ogni città del pianeta, in cui sembra non si possa fare a meno di girare una clip amatoriale, da condividere ovunque, con passanti di ogni tipo ripresi a ballare allegramente sulle note dello stesso brano. E poco importa se al contrario dell’autore, che colleziona da tempo una serie di successi in vetta a tutte le classifiche mondiali, duettando con artisti del calibro di Alicia Keys o Robin Thicke (ricordate Blurred lines la scorsa estate?) assicurandosi così una vecchiaia da nababbo e un’invidiabile vita da multimilionario, noialtri comuni mortali trasaliamo invece all’arrivo di ogni nuova bolletta del gas o sudiamo freddo in attesa del conto al ristorante (che, speriamo, paghi qualcun altro dei commensali). Quello che davvero importa è abbracciare l’atteggiamento giusto, apparire come rivitalizzati da un’ipotetica ondata di energia benefica, poter riuscire tranquillamente a fischiettare, agitarsi o perfino a improvvisare un qualsiasi balletto idiota in strada, come se volessimo urlare al mondo “sì, siamo felici di essere ancora vivi” o meglio ancora, di essere, in qualche modo, sopravvissuti. Felicità, dunque, come prima e più efficace risposta al dilagante pessimismo, come voglia di ripartire a tutti i costi, come traguardo concreto che ognuno nella vita può e deve voler raggiungere; a ricordarcelo, nel caso abbiate metaforicamente  smarrito, come in molte vecchie fiabe, la strada di casa, vi sia cioè sfuggito dalle mani il vero fine della nostra esistenza, renderla più confortevole e abbastanza speciale per tutto il tempo della sua durata, il ritorno, dopo il successo dell’anno scorso (menzionato anche su questo blog: http://www.tempiguasti.it/?p=589) della Giornata Mondiale della Felicità. Stabilita e promossa dall’Onu, e guarda caso quasi coincidente con l’inizio ufficiale della stagione di gioia per antonomasia, la primavera, la curiosa e benaugurante festività conta, tra le varie iniziative in programma ai quattro angoli del mondo, anche proposte piuttosto aggiornate in materia di mode da social network, come la diffusissima e narcisistica pratica del selfie (l’autoscatto da condividere http://seigradi.corriere.it/2014/03/19/un-selfie-per-essere-piu-felici/). Quello da postare oggi deve naturalmente essere, al di là del comune “effetto Cyrano” (il naso allungato a dismisura)  e delle sfocature presenti nel 90% dei casi, di una vitalità contagiosa, luminoso, gioviale: che importa, se la vostra presunta giornata dedicata all’allegria sia, come la mia, appena cominciata con la scoraggiante telefonata del meccanico di fiducia che vi elenca tutti i danni della vostra auto (“sarebbero le pasticche dei freni, in realtà andrebbero riviste pompa e frizione, sostituite almeno due ruote e..” “si fermi alle pasticche, prima che debba prendere io quelle per l’ansia”). Che importa se, come cantava Loretta Goggi in una canzone che ogni primo giorno di primavera viene riesumata per poi ricadere nell’oblìo già dal 22 Marzo, vi basta un’ora per innamorarvi e invece che affannarvi a maledire il vostro cuore ramingo preferite prendervela con l’ignara stagione. La felicità che ci meritiamo ha anch’essa il suo prezzo. Almeno quello però, dovremmo averlo già pagato.