Se per caso cadesse il mondo…

Non ricordo il momento esatto di quella drastica e, speravo, salvifica decisione, ma non escludo che possa essere avvenuto in treno. A pensarci bene la colpa è forse proprio di quegli ultimi due faticosissimi anni vissuti da pendolare, la sveglia da sintonizzare ogni sera a ridosso dell’alba, le corse forsennate al mattino per raggiungere quanto prima la stazione, il sonno ancora così insistente sulle palpebre mischiato al timore quotidiano di perdere il convoglio in partenza. E poi tutto il tempo trascorso inutilmente lungo i binari, al riparo dal vento, maledicendo i continui e sfiancanti ritardi, e ancora quello speso invece sui vagoni ad osservare l’umanità variegata e stanca toccata dalla stessa, poco invidiabile sorte, a rimuginare soprattutto, nelle tre ore giornaliere di viaggio, sull’andazzo scriteriato e poco gratificante che la mia esistenza aveva allora irrimediabilmente assunto. Abitavo, o meglio, vivacchiavo in una città e lavoravo in un’altra, vittima io, come molti altri, di quegli spericolati equilibrismi con cui tentiamo, alla meno peggio, di tenere ugualmente in piedi vita sentimentale e professionale, penalizzando in molti casi l’una e annaspando nell’altra, perennemente in cerca dell’entusiasmo necessario alle nostre giornate, smarrito tra la  confusione di una testa sempre altrove, indaffarata al contrario a pianificare, recuperare, centellinare ogni attimo di una realtà così serrata. Semplicemente, ad un certo punto, non ho più retto. E mi sono allora illuso di poter individuare il colpevole di tanto insopportabile sfinimento al di fuori di me, in quel mostro vorticoso e fagocitante di energia che è la città con i suoi meccanismi astrusi, la sua umanità distante, la sua labirintica e spersonalizzante facciata, giudicata schiacciante per le mie forze modeste. Prova a fare un passo indietro perciò, mi dissi, guarda bene a fondo ciò che davvero sei e da dove vieni, alla fine sei rimasto quel ragazzotto (?) di provincia che non si affrancherà mai dal costante senso di inadeguatezza che ti suscita ogni volta il dover fare i conti con la frenesia della vita metropolitana. Sei cresciuto scorazzando nei vicoli di un piccolo centro che gli anni, la nostalgia e la lontananza hanno a poco a poco mutato in un posto avvertito come meno soffocante di un tempo, in cui tutti gli altri conoscono in parte la tua storia o almeno il tuo nome, in cui il tuo disperato bisogno di radici e di sentirti totalmente a casa non è stato mai altrettanto appagato altrove. La possibile soluzione, credevo, poteva essere liberarsi con urgenza dalla mia movimentata quotidianità, divenuta fin troppo rocambolesca, per abbracciarne un’altra che fosse innanzitutto più ridotta, stabile, accogliente.

Ed è la ragione per cui, quattro anni fa oramai, sono approdato in questo minuscolo, ruvido e disorganizzato paesino, che la gioventù locale, per comodità o forse per donargli una sfumatura di figaggine in più, piuttosto assente a dire il vero da queste parti, è solita indicare con tre lettere lapidarie, Tav, nome che sembra evocare più un cantiere a cielo aperto che una ridente e vivibile cittadina al confine con l’aperta campagna. Un cantiere apparentemente interminabile, in realtà, di quelli seguiti, sin dalle prime ore del mattino, da stuoli di pensionati che commentano immobili da dietro le transenne, con le mani intrecciate sulla schiena, c’è anche qui, giustificato da un progetto di riqualificazione di una (o meglio, dell’unica) piazza, che ha di fatto smantellato la sede dell’antica stazione dismessa, per fare spazio ad un’enorme e grigia tettoia, per adesso paragonabile a un gigantesco distributore di benzina, così fuori scala poi rispetto all’altezza contenuta delle altre palazzine circostanti. Un centro né particolarmente gradevole né memorabile dal punto di vista estetico, in cui sono rimasto imbrigliato, secondo quella prevedibile logica che governa ogni piccolo paese, nell’etichetta con cui si tende a identificare ciascuno degli abitanti, nel mio caso quella del tizio con l’accento diverso, il “forestiero”. Lo sono per l’edicolante da cui vado a ritirare, ogni sabato mattina, le riviste che mi ha messo da parte durante la settimana e che mi porge sbuffando il solito buongiorno annoiato, lo sono per Marco, il gentile e stralunato proprietario della sola ma fornitissima cartoleria, lo sono per la farmacista petulante, dalle riconoscibili origini partenopee, che tenta sempre di rifilarmi qualche costoso prodotto di bellezza (“Lo vuole provare questo siero per il contorno occhi?” “E’ un modo carino per farmi notare che ho le zampe di gallina?” “Certo che no, è solo una promozione. Preferisce forse una crema snellente per l’addome?”). Fino a ieri, appunto, quando la monotonia imperante in questo posto, in cui l’episodio più eccitante è rappresentato ogni anno da quei tre, quattro turisti stranieri che si spingono fin qui, per sbaglio, nel tentativo di raggiungere a piedi la vicina zona del Chianti, è stata scossa, è proprio il caso di dirlo, da un terremoto di media – lieve entità avvenuto nella notte ed avvertito un po’ ovunque nei dintorni, finito il giorno seguente per diventare il fatto più commentato sulla bocca di chiunque.

“Io un me la son sentita di rimanere in casa, con la Piera la siam scesi in macchina e abbiam dormito lì” esordisce il signore in coda davanti a me in lavanderia, dove sono passato per ritirare la trapunta color glicine che ho sottratto poco tempo fa da camera dei miei, perché l’ho trovata perfetta in abbinamento alle mie lenzuola verdi. “L’era tutt’uno sbatacchiare i’ letto, tu sentissi, anch’io l’ho passato tutta la notte a giro, icché tu credi? e c’eran tutti!” controbatte la signora dall’altro lato del bancone, dotata di una pettinatura così ardita come solo quelle della compianta Rita Levi Montalcini “le bambine poi, l’hanno avuto una paura, porine, un l’avevan mai sentito” aggiunge poi una terza, più giovane e squillante voce, che sembra giungere dal locale posteriore “i’ mi’ nonno poi m’ha sempre detto che il terremoto quello brutto del 1909 l’è stato proprio qui, eh!” (“ecco, pure zona sisimica”, penso io “un altro posto dove venire a vivere proprio non c’era, no?”). “E lei?” mi fa d’un tratto il primo signore menzionato “l’ha sentita che botta stanotte? Dove l’è andato?” “Ecco, ehm, io, veramente…sono rimasto a casa perché…no, via, non ho sentito niente….dormivo!”. Scende di colpo silenzio. La signora più giovane si affaccia perfino dall’altra stanza per guardarmi in faccia. “Ah, e già che c’è dovrei ritirare la trapunta, quella color glicine…quella lì, sì, grazie!”. Me la porge. Nessuno ha più detto una parola. Credo che d’ora in avanti, qui si ricorderanno di me per altri motivi: il forestiero che in caso di terremoto toccherà andare a controllare se stia bene, lì tra le macerie, magari avvolto nella sua trapunta…ma di che diamine di colore è poi?

Stra(na)Milano

Ennji ha origini coreane, il dono naturale di infondere un’irresistibile dolcezza in ogni parola o movenza, la rara eleganza di chi sa distinguersi anche solo indossando una maglia a righe marinare e pantaloni spruzzati qua e là d’oro, oltre a qualche dubbio sulla mia vera età, che mi fa ripetere almeno tre volte appena mi siedo di fronte a lei, conquistandosi così da subito tutta la mia totale e vanitosa simpatia. Giorgio, suo marito, nome ribadito da una buffa scritta campeggiante su un berretto di lana che arriva a nascondergli le sopracciglia, parla velocemente e con un curioso accento del nord, inconsueto per le mie orecchie, mentre ci tiene a precisarmi che la zona dove ci siamo conosciuti per caso durante il mio primo ape milanese (che sta per aperitivo, perché qui tutte le parole si abbreviano, ma è un concetto su cui torneremo) è la più in voga al momento per i giovani dediti alla movida cittadina, forse dimenticando la mia non più esatta appartenenza alla categoria e ignorando di sicuro la mia profonda natura pantofolaia, piuttosto refrattaria alla folla. Gigi invece, maremmano come me in trasferta per lavoro nel capoluogo lombardo, ha parole di entusiasmo nel descrivermi la sua nuova vita quassù “perché poi, nel week-end, con un’ora di auto sei già in montagna o al mare” lasciandomi così intendere che il suo apprezzamento è rivolto soprattutto alla possibilità di pianificare delle fughe frequenti dalla grigia e snervante piattezza di questo cielo, spesso del medesimo colore denso e opaco che ha l’acqua nel secchio una volta lavati i pavimenti. Melisa, gentile e colta giornalista che nel nome sembra già riassumere la sua straordinaria e raffinata sensibilità, tenta di confortarmi con la sincera ammissione di tornare con piacere da queste parti dove ha vissuto per lungo tempo e dove ha conosciuto persone ancora oggi fondamentali nella sua vita, placando così in parte quella mia smania insensata di trovare in breve tempo nuovi amici, tarlo che si accompagna ai miei lunghi e detestabili momenti di solitudine, spesso arginati con dannose quanto consolatorie dosi massicce di cioccolato fondente. Tra questi pensieri strampalati dunque, rivolgendo a chiunque incontri quello stupido ma per me essenziale quesito “cosa ami di Milano?” mi butto già alle spalle il primo, faticoso, mese in questa città, la terza nel giro di soli cinque anni in cui mi trovi, quasi per caso, dopo Roma e Firenze, a soggiornare e a lavorare, con un preoccupante movimento ascensionale che mi fa temere di dover riscuotere un giorno la mia (magra) pensione in un qualche paese scandinavo dalle temperature rigide e dalla fioca e deprimente luce diurna, io che al contrario ho sempre sognato una serena e soleggiata vecchiaia in costume e ciabatte, in riva al mare.

Non che poi mi manchino i motivi per apprezzare Milano, sia chiaro: a cominciare dalla sua proverbiale ed indiscutibile efficienza, estesa, ad esempio, a tutti i mezzi pubblici, la stessa che mi fa sgranare gli occhi di fronte all’affermazione scandalizzata della signora che sbotta indignata alla fermata dell’autobus “è una vergogna, dieci minuti e ancora niente!”, io che, memore di interi pomeriggi nel resto d’Italia buttati in attesa di un qualsiasi mezzo puntuale, sarei ormai rassegnato ad ingannare quel tempo familiarizzando con gli altri speranzosi individui incontrati sotto i tabelloni degli orari. Più incomprensibile, semmai è il ritmo forsennato che tutti sembrano tenere senza batter ciglio, sin dalle prime ore del mattino, correndo letteralmente su e giù per i marciapiedi senza sosta, lo sguardo fisso verso l’infinito o in basso ipnotizzato dallo smartphone, come se non esistesse altro modo di spostarsi in città, che sia un tantinello più rilassato o anche solo umano. Macché, niente, avanti, si trotta, e guai a intralciare il passo altrui con un’andatura non altrettanto rapida, si rischia di essere travolti o scalzati del tutto, soprattutto nella necessaria operazione di assalto all’affollatissima scala mobile della metro, pericolosa pratica collettiva, per adeguarmi alla quale, arrivo sempre al lavoro con troppo anticipo e sono costretto a fare due giri a vuoto dell’isolato, perché di fermarsi in strada alcuni minuti, ed essere così additato come il vagabondo di turno, non se ne parla. Senza considerare poi che il mio ufficio si trova nei pressi di via Montenapoleone, in pieno quadrilatero della moda, zona pullulante di creature impeccabili e impomatate, quasi sempre vestite di nero (“te l’avevo detto di indossare solo black minimal!” tuona infatti la mia amica Chiara al telefono), mentre io, aggirandomi fra loro con ancora l’impronta del cuscino sullo zigomo, i miei maglioncini verde menta o rosa salotto di Barbie, le camicie a quadri da taglialegna appena stirate, sembro piuttosto un clown intrufolatosi per dispetto in un corteo funebre. E poi c’è la stramba parentesi linguistica: perché il tempo, risorsa da non sprecare mai nei propri spostamenti, pare vada risparmiata anche nel pronunciare le parole, quelle maggiori di due sillabe irrimediabilmente troncate a metà. Ho assistito dunque inerme a espressioni del tipo “sono in para(noia)”, “non mi fare una svioli(nata)”, con apoteosi finale incarnata dalla fanciulla che mi sale per sbaglio su un piede con il suo stivaletto dal tacco rinforzato e poi si scusa con un “oh, mi disp(iace)!” affermazione che non sono riuscito a controbattere, in parte per il dolore, ma soprattutto per la sua spiazzante incomprensibilità. Per il resto dei termini, va da sé, è preferibile accantonare l’italiano e servirsi del corrispettivo inglese, anche solo se ci si trova a parlare di description, action o qualunquealtradannatacosapurchéfiniscainition, con una predilezione per l’acronimo a.s.a.p. (as soon as possible), diffusissimo tra chi, come chiunque del resto a Milano, ha fatto della fretta la propria intima cifra stilistica. “Sei un fashion blogger anche tu?” mi chiede infine Maddalena, mamma, giornalista, scrittrice, professionista insomma dalla tipica propensione al multitasking, forse prezioso appannaggio di chi nasce e cresce lungo i Navigli, “beh, non così fashion, a dire il vero, il mio blog non ha tutto questo appeal!” “hai detto appeal? ti starai mica adattando alla parlata milanese?” Oddio, di già?

Ricomincio da MI

“La mia impressione? Guarda, ad essere sinceri, credo proprio di non essere piaciuto. Se devo dirtela tutta, secondo me hanno già trovato qualcun altro. Si capiva chiaramente, il tono cordiale ma distaccato, le domande poi, proprio quelle di routine. No, non c’è il minimo interesse, garantito. Ho mai sbagliato?”. Puntualmente. Cioè, sempre, in ogni circostanza, ad ogni occasione più o meno meritata, elemosinata o piovuta dal nulla, quando la mia incorreggibile strafottenza arriva a rompere gli argini del pensiero per trasformarsi in parole inutili e vanagloriose, mi illudo di aver intuito con chiarezza il proseguimento della faccenda in questione, e quasi gongolo nel mettermi poi in disparte, altezzoso, a godermi il finale, perché sicuro che si svolgerà secondo quanto scrupolosamente previsto. Cosa che infatti non accade mai. Perché l’esperienza dovrebbe avermi ormai generosamente dimostrato che non possiedo affatto quella dote portentosa chiamata sesto senso, una latente e strabiliante capacità di indovinare situazioni o decisioni future, forse il solo dono che possa rivestirci della convinzione di dominare e perfino anticipare le tattiche fumose del destino. Macché, niente, mai azzeccata una sola, per quanto insignificante, previsione, mai avuto un minimo e strafottutissimo presentimento che alla lunga si sia dimostrato il più veritiero. Come stavolta, quando, dopo l’ennesimo e poco incoraggiante (credevo) colloquio di lavoro, l’ultimo in ordine di tempo aggiuntosi alla mia lunga lista di episodi paradossali, spesso tra il demoralizzante e il tragicomico, mi sono ritrovato in una Milano insolitamente soleggiata a riassumere per telefono al mio amore quello che credevo essere l’esito dell’agognato incontro. “Un altro buco nell’acqua, pazienza. Dai, meglio così, in fondo. Ci avrebbe riscombussolato di nuovo la vita”. Inutile aggiungere che a quel colloquio ne è seguito poi un altro, a breve distanza, con tanto di amministratore delegato in persona a dissezionare il mio variopinto curriculum, a soffermarsi naturalmente sul mio allettante passato da bigliettaio museale (lasciato come ultima voce a dispetto dell’insana curiosità che ogni volta suscita) e a chiedermi soprattutto, con spiazzante franchezza “Sì, ma da grande, cosa vorrebbe fare?” (io? da grande? ma l’avrà letta bene la mia data di nascita?)

Altrettanto inutile stare a specificare che, per il momento, ottenuto non so come quell’incarico provvisorio indicato con un altisonante quanto sibillino acronimo (“crm specialist” per l’esattezza, ma i dubbi sul suo significato ve li saprà chiarire meglio Google), mi ritrovo di nuovo a rincorrere la mia esistenza che pare aver preso una sua direzione del tutto indipendente dai miei più rilassati programmi e dal mio, mai celato, desiderio di una maggiore tranquillità. Per qualche mese dunque vivrò da solo a Milano, in un minuscolo e grazioso appartamento messomi a disposizione dalle salvifiche premure di un vecchio amico, che lo ha dotato di un paio di dettagli kitsch (l’asse da stiro leopardata, tre piramidi di lattine vuote a coronare i pensili della cucina) talmente assurdi da avermi fatto sentire subito a casa. Per non parlare del palazzo poi, forse per assonanza cromatica con il cielo mattutino di qui, dipinto della stesso tonalità di grigio piombo, ravvivato però da un lato da un curioso murales a forma di campanile che incornicia tre finestre cieche e dall’altro dal gigantesco e ipnotico cartellone pubblicitario del “più cliccato sito di incontri extraconiugali in Italia” (e qui si potrebbe aprire una parentesi su un mondo a me sconosciuto: esistono siti di incontri extraconiugali? sul serio? cioè, come funzionano, ti richiedono il certificato di matrimonio al momento dell’iscrizione?). Senza contare inoltre i penosi tentativi con cui fingo di aggirarmi con disinvoltura nella sede di lavoro, perché finché sei “quello nuovo” ti sembra di essere escluso da tutto, dalla complicità dei colleghi che ridacchiano su battute incomprensibili, del genere “no, non puoi capire, è una vecchia storia”, al semplice funzionamento della macchinetta del caffè (boh, questa lucina accesa che vorrà dire?), fino al momento in cui una gaffe ti declassa dalla qualifica di “quello nuovo” al rango disonorevole di “quello stronzo” quando provi a entrare in confidenza con la fanciulla dell’ufficio accanto e accidentalmente le dai più della sua età (“ahhahhahah, 29 anni, anch’io dico sempre così…invece ne hai, 32? 33? “no, ne ho davvero 29, forse stamani ho il viso un po’ stanco” + sguardo comprensibilmente carico d’odio). Un’ulteriore occasione insomma in cui scontrarsi di nuovo, nelle prime, prevedibili, notti insonni come nelle lunghe giornate in cui vago con la testa seduto alla mia nuova scrivania, con tutte quelle paure e quelle insicurezze mai del tutto superate, con quello schiacciante disorientamento che ogni nuovo inizio si trascina immancabilmente dietro, per fortuna sempre inferiore alla mia indomita e mai accantonata, voglia di ricominciare. Anche qui, in una Milano al momento da assaggiare, più che da bere.

Una certa classe…

Da quando abbiamo scoperto, per caso, di abitare a poche curve di distanza sulla medesima stradina sconnessa che si addentra semisilenziosa in questa porzione di campagna toscana, nota soprattutto agli stranieri per essere una vecchia e pittoresca via di accesso alla ben più famosa zona del Chianti, e a qualche conoscente con buona memoria e un discutibile gusto per il macabro, per una triste e sanguinaria vicenda del mostro di Firenze (“non dirmi che non lo sapevi?” “certo che no!” “ma non ti sei informato prima?” “perché, tu quando cerchi casa, indaghi su eventuali omicidi avvenuti nei dintorni?”), io e Chiara tentiamo di rivederci almeno due, tre volte al mese. Sottolineo tentiamo, perché tra i suoi mille impegni di donna soggiogata dai ritmi di una vita densa e organizzatissima (lavoro, marito, figlio, scuola, palestra e ancora palestra…ma come fa?) e il suo carattere simpaticamente inquieto, è tutto un continuo fare e disfare programmi, anche quando sono ormai stabiliti da tempo, il più delle volte rivoluzionati da messaggi dell’ultimo minuto, tipo “e se invece di andare lì si andasse di là?”, a cui mi trovo spesso a rispondere, sbuffando, quando sono già al volante, in arrivo nel posto precedentemente concordato, sempre lontano dal “nuovo” chilometri e chilometri. Daniele invece vive da tempo a Milano, con una compagna di cui ricordo soprattutto il piacevolissimo sorriso e due piccoli figli maschi che purtroppo non ho mai visto, uno dei quali, a suo dire, piuttosto somigliante a lui, come mi confessa nel momento più tenero della nostra recente conversazione telefonica, in cui a poco poco riconosco finalmente l’accento tipico del nostro paese farsi spazio tra la musicalità meneghina di espressioni che ancora fatico ad abbinare alla sua voce. Anche Francesca, nonostante le sue vecchie e contrarie convinzioni in proposito, è diventata genitore, per la prima volta da poche settimane, di una magnifica e in apparenza tranquilla bambina di nome Bianca, che mi trovo ad ammirare, commosso e divertito, in alcune foto che lei stessa mi ha inviato e che ne mettono in risalto, da qualunque angolazione le si guardi, due splendide guance perfettamente circolari, diventate adesso di sicuro l’attrazione principale della sua raffinata casa con le pareti rosse, in cui qualche volta ho cenato con gusto quando ancora lavoravo a Roma.

Poi ci sono Anna e Silvia, entrambe incontrate casualmente nei giorni scorsi, per ironia della sorte proprio nello stesso punto, e che ho visto bene di sommergere subito con la mia affettuosa smania di saluti, causa di quei soliti, lunghi e strambi discorsi che spingono il mio amore, ormai rassegnato alla mia vacua e inarginabile parlantina, a piantarmi lì, con una scusa, in mezzo alla via, per venirmi a recuperare solo molto tempo dopo (e difatti io ero ancora lì a chiacchierare). C’è Guido, che sono riuscito a riconoscere nonostante fosse di spalle, con su addosso divisa e cappello da vigile urbano, e che ho tentato di distrarre con un potente colpo di clacson che ha fatto sobbalzare un’intera piazza (tranne lui) e c’è Sara, che ha invece deciso di ridurre al minimo la sua presenza su Facebook, e così mi tocca vincere la mia nota pigrizia e chiamarla di persona per comunicarle ogni volta, per prima, come faccio da anni, le novità principali della mia vita professionale. E poi ci sono gli altri, tanti altri, che vedo o sento più raramente, alcuni dei quali a dire il vero, forse non riconoscerei più o che forse (più probabile) non riuscirebbero a riconoscere me. Qualcuno che ho perduto chissà dove, qualcuno la cui complicità si è andata affievolendo col tempo, ma la cui importanza nella condivisone degli anni lontani della scuola rimane insostituibile: gli anni in cui ogni sentimento prende corpo come un’emozione gigantesca e devastante, in cui i timori sono rumori assordanti e amplificati, le paure si mischiano indissolubilmente alle aspettative, le ambizioni si fanno smisurate almeno quanto le delusioni. Ma resta la consapevolezza che essere stati una classe, al di là dei suggerimenti e dei compiti copiati, significasse soprattutto spalleggiarsi dentro, tra i banchi, per tentare di affrontare la vita fuori, quando di vita, in realtà, non ne sapevamo ancora abbastanza. E anche adesso che, in qualche caso, conosciamo poco o nulla delle nostre reciproche esistenze, della nostra diversissima e adulta quotidianità, succede che quando ci ritroviamo, siano davvero tanti i sorrisi e la soddisfazione, perché anche se le nostre strade ingarbugliate ci hanno condotto in posti lontani da quelli che avevamo un tempo immaginato, alla fine ci piace riconoscere che sì, forse, siamo stati anche capaci di combinare qualcosa di buono.

Le faremo sapere

Può succedere a chiunque, in qualsiasi momento della vita. Che siate giovanissimi o 29enni bugiardi e recidivi, come me, che abbiate una preparazione formidabile e competenze assai richieste o un’affascinante quanto inutile laurea in storia del costume, come la mia, lasciata a marcire in qualche cassetto della segreteria dell’Università. Che siate poco abituati agli scossoni professionali e a rimettervi in gioco ogni due, tre anni o ormai rassegnati, al pari del sottoscritto, a cercare di far fronte alle spese quotidiane con spericolati equilibrismi che richiederebbero il dono dell’ubiquità. Può succedere a chiunque, dicevo, di trovarsi improvvisamente o di nuovo senza più un lavoro e di doversi rimettere a capo chino a cercare un altro posto o un altro impiego, una sfida che può diventare ogni volta più sfiancante e temibile della precedente. Esattamente quello che sto vivendo io da qualche mese, da quando, dopo aver rifiutato con un moto di orgoglio e di incoscienza, un gratificante ma sottopagato incarico professionale svolto negli ultimi tempi, ho ricominciato a inondare il web di curriculum e proposte di collaborazione, migliaia, a cui sono arrivate risposte (poche) più o meno incoraggianti. Quella che segue è perciò la sintesi semiseria, in forma di dialogo, degli strampalati ma reali incontri con i vari personaggi che hanno dimostrato un minimo d’interesse alla mia nuova e coraggiosa richiesta di un lavoro. Buon divertimento:

- Responsabile comunicazione azienda di moda: “Sarò sincero, è difficile inquadrarla all’interno di un’azienda, ha avuto tante esperienze così diverse. Il suo curriculum sì, è piuttosto interessante, però è, come dire…” “Eclettico? (boh, gli butto lì un aggettivo, magari gli è di aiuto!)” “Sì, eclettico, stavo quasi per dire schizofrenico, ma eclettico può andare. Ecco, e lei lo è?” “Schizofrenico? (ma che gli sembro matto?)” “Intendevo dire eclettico” “Ah, scusi, non avevo capito (e niente, con questo tizio non c’è proprio feeling)”.

- Responsabile comunicazione azienda di moda 2: “E mi dica, Alessandro è più veloce o più preciso?” “(ma ora perché parla di me in terza persona? e che razza di domanda è? Di sicuro è un trabocchetto, proviamo a pensarci un attimo. Però ci sto impiegando troppo tempo a rispondere, non posso mica più dirgli “veloce”, sembra quasi lo prenda in giro) Beh, direi più preciso!” “Ok, però si ricordi che anche la tempestività è importante nella comunicazione!” “Quindi avrei dovuto rispondere veloce? (lo sapevo, era un trabocchetto).

- Responsabile progetti digitali agenzia eventi: “Le va di parlarmi dei suoi genitori?” “(e questa poi? mica sarò finito, senza saperlo, dallo psicoanalista? Qui c’è qualcosa che mi puzza, proviamo prima a tastare un po’ il terreno) Certo. Potrei solo sapere, per curiosità, perché me lo sta chiedendo?” “Serve per valutare la sua reazione emotiva. Un’altra candidata, per esempio, alla stessa domanda mi è scoppiata in lacrime” “Ah, capisco (oddio, mica tanto). Ma non si preoccupi, non è mai successo che abbia pianto parlando dei miei. Forse, di questi tempi, è più probabile il contrario. Ma dovrebbe chiedere a loro!

- Agenzia di lavoro interinale: “Vedo dal suo cv che la sua conoscenza dell’inglese è ad un buon livello. Al punto che potremmo continuare questa nostra conversazione in inglese?” “Beh, sì, se vuole (capirai, fino adesso abbiamo parlato solo delle stranezze del tempo e di quanto faccia caldo oggi)!” “Ah, no, si tratta di una semplice domanda di routine. Si figuri, io poi ho studiato francese!” “Quindi la sua valutazione del mio livello d’inglese è, diciamo così, basata sulla fiducia? (averlo saputo prima mi sarei spacciato per madrelingua!).

- Agenzia di lavoro interinale 2: “Però, ha lavorato anche in tv. Ma non mi sembra di averla mai vista! “(Eh? Ho capito male. Cioè, sta pensando sul serio che comparissi davanti alle telecamere? E chi mi crede, Gerry Scotti?) Ecco, vede, lavoravo in una redazione tv. Significa che scrivevo testi e curavo dei pezzi per una piccola trasmissione, ma dietro le quinte, diciamo” “Ah, sì, infatti nel suo curriculum ha messo “redattore” “Appunto. Era quello che facevo. Sennò avrei scritto “conduttore” (o valletta. Questa però è scema forte).

- Addetto comunicazione casa di produzione (via e.mail). “Gentile dott. Guasti, avremmo bisogno, per fissare un colloquio conoscitivo, anche di un suo curriculum più “motivazionale” (scritto proprio così, tra virgolette). Ad esempio, cosa l’ha spinta a cercare una collaborazione qua da noi”. “Gentile dott. Vattelappesca, direi innanzitutto la mia voglia di misurarmi in un ambiente di lavoro stimolante, la curiosità verso un’azienda qualificata come la vostra…(e giù un’intera e.mail di salamelecchi e false carinerie)”. La data del colloquio ovviamente non è mai più stata fissata. Colpa mia: forse avrei dovuto allegare anche l’ultima bolletta del gas da 634 euro. Sarebbe sembrata di certo più “motivazionale”.

- Titolare studio comunicazione (via e.mail): “Gentile dott. Guasti, potrei incontrarla per un colloquio conoscitivo appena avremo terminato i lavori per un nostro cambio di sede. Mi ricontatti alla fine del mese”. Dopo un mese “potremmo fissare un giorno al mio rientro dalle ferie. Mi chiami tra due settimane”. Dopo altre due settimane “Mi dispiace, ma ho avuto un piccolo infortunio alla gamba, non so dirle quando potremmo incontrarci”. Ora, non so se quell’infortunio sia vero. Posso dire che da una parte me lo auguro tanto?

- Titolare ufficio stampa: “Leggo qui che ha anche un blog. E di cosa scrive?” “E’ solo un piccolo progetto personale, mi diverto a scriverci un po’ di tutto, di moda, di costume, delle varie notizie che mi colpiscono e della mia vita privata. Scrivo tante cretinate, soprattutto” “Ah. Immagino che lo utilizzerà anche per togliersi qualche sassolino dalle scarpe” “In realtà no, finora non è mai successo. Però lo sa che mi ha appena dato un’ottima idea?”