Niente satira, siamo italiani

Ballarò : Virginia Raffaele è il Ministro Maria Elena Boschi 04/03/2014 – YouTube.

Accantoniamo per un momento tutto lo sfiancante dibattito sulla presunta necessità delle quote rosa in parlamento (anche se, a onor del vero, l’attuale governo in carica è, in tal senso, insolitamente bilanciato), proviamo a non chiamare in causa, per questa volta, la generale condizione femminile nel nostro Paese, che in materia di parità di diritti e di tutela della donne non si può certo definire esemplare. Teniamo da parte, per un attimo, il dover spesso tristemente constatare che sul piano professionale persistano gravi discriminazioni di genere, che nell’opinione comune molti biechi pregiudizi di natura sessuale siano duri a morire, che come nazione si continui purtroppo a scalare la drammatica classifica degli stati in cui orribili delitti, quasi edulcorati dall’uso del termine “femminicidio”, sono sempre più all’ordine del giorno. Proviamo a dimenticare, ma solo in questo caso, che essere donna, moglie, mamma, nell’Italia del terzo millennio significa ancora impegnarsi il doppio per ottenere la dovuta credibilità, prodigarsi in salti mortali per reggersi in un equilibrio acrobatico tra famiglia e lavoro, che non basta una mimosa rubata dall’albero del vicino l’8 Marzo per celebrare degnamente quello che è il contributo fondamentale dell’universo femminile al progredire della nostra società. Lasciamo stare tutto quel clima di malumori sotterranei, di polemiche velate, i decennali strascichi di ingiustizie e soprusi, che forse hanno contribuito ad aggravare i contorni della vicenda, e tentiamo di concentrarci soltanto sulla vicenda, tanto per renderci conto che, in fin dei conti, così grave non lo è affatto. Anzi, si tratta di una storia nata, al contrario, proprio con il chiaro intento di far sorridere, oltre che riflettere, che poi sono le due uniche ed esplicite finalità di quel magnifico e irriverente strumento di critica che è la satira. Pane quotidiano di Virginia Raffaele, bravissima e talentuosa comica/imitatrice, personaggio tra i più camaleontici e interessanti lanciati di recente dal piccolo schermo, a cui in prima persona si rinfaccia o si ricorda con troppa enfasi il suo essere anche una gran bella donna, quasi come se il riuscire a far ridere il pubblico fosse esclusiva prerogativa delle “bruttine”. Chiamata a sostiuire Maurizio Crozza, nella puntata dello scorso 4 Marzo di Ballarò, in onda su Rai 3, la Raffaele, che in questi anni ci ha deliziato con il suo riuscitissimo scimmiottare volti noti, da Ornella Vanoni a Belen, si esibisce in un irresistibile sketch calandosi nei panni del neoministro per le riforme e i rapporti con il parlamento Maria Elena Boschi (video allegato). Prendendone di mira non soltanto lo spiccato accento toscano (reso alla perfezione) o il suo sovente intervenire come se  ripetesse alla lettera la lezione appena imparata a memoria (e citando, tra l’altro, il celebre personaggio di Amanda Sandrelli in Non ci resta che piangere) ma mettendo alla berlina anche il suo ipotetico potenziale seduttivo, di chi sarebbe in grado di sfuggire al pressing di domande di uno sprovveduto giornalista facendo del “gattamortismo”.

Scatenando così un putiferio: prima Michele Anzaldi, deputato renziano e segretario della commissione di viglianza Rai, che scrive, di sua iniziativa, ai vertici della rete per lamentarsi del contenuto della gag, ritenendolo “inopportuno”, poi la stessa Laura Boldrini, presidente della Camera, che in diretta tv, si spinge più in là, definendo addirittura il numero della Raffaele “sgradevole e sessista”. Mentre la diretta interessata, il ministro teoricamente vilipeso, ci tiene a far sapere, attraverso la stampa, e naturalmente il proprio account su Twitter (che sta diventando, in maniera inquietante, il megafono dei palazzi di potere), di aver trovato la sua imitazione divertente, pur dichiarandolo un po’ a denti stretti e con un sorrisino visibilmente tirato. Eppure, sarà forse un mio limite, guardando e riguardando la controversa parodia, faccio fatica a trovarne anche un solo passaggio degno di cotanto accanimento, una battuta di reale cattivo gusto, una frase offensiva o mortificante nei confronti delle donne in genere o della Boschi in particolare. Senza considerare poi che si tratta, appunto, di satira: che per sua natura deve essere tagliente, scorretta, iconoclasta, deve poter scalfire privilegi e schernire gli intoccabili, trasformandosi nell’ultimo e più scomodo baluardo a difesa della libertà di espressione. Ricordando, tra l’altro, che la stessa Raffaele ha consolidato il proprio successo sbeffeggiando personaggi di altri schieramenti, dalla deputata di Forza Italia Michaela Biancofiore alla chiacchieratissima ex – igienista dentale Nicole Minetti, ma nessuno, in questi noti casi precedenti, aveva gridato allo scandalo o parlato, in maniera ipocrita, di discriminazioni (e per fortuna). Evidenziando infine che la figura dell’idiota nel discusso sketch la fa soprattutto il giornalista, il personaggio maschile, colui che si lascia abbindolare e fuorviare dalle risposte elusive e dai sensuali battiti di ciglia dell’ammaliante Boschi/Raffaele. Perché vorremmo essere anche liberi di poter ridere ancora delle ridicole debolezze degli uomini, di fronte al fascino delle donne, senza per forza doverci ritenere esseri maschilisti o peggio ancora misogini.

Non è bello ciò che è bello

Arriva “Dopotutto non è brutto” con Geppi Cucciari – YouTube.

Gli edifici erano casupole distorte, squilibrate, addossate le une alle altre senza regola né apparente armonia, come sul punto di crollare o di ripiegarsi sulle fondamenta stesse, quasi fossero diventate improvvisamente liquide. Lo spazio che le conteneva a stento era ridotto, claustrofobico, schiacciava edifici e personaggi su di un unico piano privo di prospettiva, trasformando il paesaggio in una visione da vertigine, un vortice di tinte squillanti e di contorni irregolari, una scena che appariva intrisa dell’angoscia di un incubo. Eppure c’era qualcosa di magnetico in quei quadri, un forza attrattiva, il fascino di un’atmosfera inquietante che mi disturbava i sensi ma mi impediva al contempo di distogliere lo sguardo dalla corposità di certe pennellate, dalla voluta deformità di certe linee, dalla mancanza ricercata di una certa gradevolezza. Fu esattamente lì, davanti ad alcune opere di Chaim Soutine (1893 – 1943) pittore russo naturalizzato francese, non riconducibile ad alcun movimento artistico ma spesso accostato agli espressionisti (etichettato per comodità “un maledetto”, come si è soliti definire personalità indipendenti e difficili da imbrigliare entro precise correnti) che decisi mi sarei interessato di arte. Volevo appropriarmi degli strumenti necessari per comprendere quello che appariva il linguaggio insensato di alcuni autori, per andare al di là del “bello, brutto, mi piace, non mi piace” che ripetiamo come un mantra alle mostre, per riuscire a decifrare quanto di incomprensibile e misterioso si potesse celare dietro un dipinto o una scultura. Quando, anni dopo, mi ritrovai a lavorare in un museo di arte contemporanea, era proprio questo il punto in cui mi accaloravo di più nelle mie spiegazioni, in cui mettevo più foga o entusiasmo, quando aiutavo i ragazzi, che accompagnavo nelle sale, a ripercorrere le tracce e gli indizi necessari per l’apprezzamento e la comprensione di un’opera o di un artista, quando tentavo di condividere con loro la soddisfazione di poter leggere e riconoscere, in un ammasso intricato di forme e volumi (qualora ci fossero) un cavallo, un giocoliere, una ballerina o il nulla più totale.

Ed è ciò che mi accade ancora oggi, quando, solleticato in alcune conversazioni, mi sento punto nel vivo di fronte a frasi come “questo scarabocchio sarebbe arte?”, e dunque mi prodigo in lunghissime risposte difendendo il valore artistico di una creazione che può spostarsi e risiedere nel gesto dell’autore, nello sguardo soggettivo della sua interiorità, nel rispetto di una tradizione che va superata non necessariamente dal punto di vista tecnico. Spesso fiato sprecato: esco il più delle volte sfinito da certi confronti, con il mio irremovibile interlocutore convinto a metà. Da qualche tempo perciò ricorro al solito, indicato, stratagemma: regalo, come è successo qualche tempo fa con il mio amico Andrea, il libro Lo potevo fare anch’io, perché l’arte contemporanea è davvero arte, scritto in un linguaggio leggero, comprensibile, perfino spiritoso, da Francesco Bonami, celebre critico e curatore, professionista con l’invidiabile pregio di rendere accessibile e divertente l’ermetico ed elitario linguaggio artistico. Come convinto sostenitore, perciò, del suo approccio originale e quasi scanzonato alla materia, ci tengo a suggerire, ad Andrea e a chiunque altro legga questo post, anche il programma tv condotto proprio dallo stesso Bonami, in onda da un paio di settimane su Rai Uno il mercoledì sera alle 23,20, dall’azzeccato titolo Dopotutto non è brutto, che vede anche la riuscita partecipazione di Geppi Cucciari (nel video allegato il promo). Quattro puntate, dedicate ciascuna a una città italiana (Venezia e Roma quelle già affrontate, Torino e Napoli i prossimi appuntamenti) alla scoperta, come in un tradizionale Grand Tour, di architetture, installazioni, musei privati e non, spesso snobbati o sottovalutati – in una nazione dal patrimonio antico smisurato come la nostra – perché modernamente attuali, dunque di difficile integrazione o comprensibilità per un pubblico più vasto. Al programma, a dire il vero criticato un po’ ovunque per la vena satirica e irriverente (ma perché, cosa vi aspettavate da Geppi?) va riconosciuto invece il pregio di mettere l’accento su spazi e luoghi di frequente liquidati come “brutti” o mal riusciti perché lontani dal peso della tradizione artistica italiana, vanto e maledizione di un paese che da sempre fatica a guardare oltre il Rinascimento. E di far magari scoprire a qualcuno in più che quel lungo ponte scivoloso, da evitare di percorrere nelle vostre passeggiate cittadine, è soltanto un’altra meraviglia che il resto del mondo ci invidia.

N.d.r. Negli stessi anni in cui mi appassionavo alla storia dell’arte, presi anche consapevolezza che certe materie, in cui raggiungevo a stento la sufficienza, le avrei abbandonate lì (“la matematica non sarà mai il mio mestiere” andavo infatti cantando come Venditti). A rendermi chiaro che non fossi esattamente tagliato per i numeri e le formule è stata una professoressa a cui era impossibile non voler bene, perché ironica, stravagante, sopra le righe, una vera forza della natura (mi ha sempre voluto chiamare Stefano, tanto per dire). A lei, che solo ieri ha deciso di lasciarci, in modo imprevedibile, proprio come aveva insegnato, va il mio ricordo e la mia affettuosa dedica di questo post.

Mostruoso talent(o)

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E’ soltanto un dubbio, ma forse, anche stavolta, si tratta della semplice realtà dei fatti: quello tra moda e tv, è, alla fine, un connubio infelice. Un matrimonio imperfetto, squilibrato, un’unione che genera spesso obbrobri, che mortifica la natura del variegato linguaggio dello stile, che non rende giustizia alle diverse potenzialità del mezzo televisivo. Basterebbe arrendersi all’evidenza che il piccolo schermo sia, tutto sommato, inadatto a narrare le trasformazioni e le dinamiche in fatto di tendenze, o forse siamo ancora lontani dal trovare una formula particolarmente appropriata che riesca a coniugare alla perfezione due mondi così distanti. Fatto sta che al momento i numerosi, spesso superficiali, talvolta scialbi programmi televisivi, in cui la moda è di frequente relegata, soprattutto in Italia,  faticano a distinguersi per originalità, competenza, appeal. Inutile sottolineare che l’esempio più calzante è il modello Jo Squillo, un contenitore privo di una regia sensata, che indugia sulle prodezze di un ex-cantante pop anni ’80, riciclatasi da tempo come conduttrice, intenta a scorrazzare tra sfilate, backstage e parterre con una telecamera piazzata sulla fronte, come fosse una lampada da minatore, tra la perplessità generale e lo sgomento degli intervistati. Discorso a parte meritano i canali televisivi tematici, quelli che per fugare ogni dubbio sulla loro natura hanno sempre la parola Fashion nel proprio titolo (Fashion Tv, World Fashion Channel, etc), e che arrivano a sfinire anche il più accanito spettatore o appassionato della materia, sottoponendolo a ore interminabili di video istituzionali di migliaia di collezioni, provenienti dai quattro angoli del mondo, trasmessi tutti per intero. Altrettanto fastidioso è l’eccesso opposto: il montaggio incalzante di immagini, frammentate ai limiti dello schizofrenico, non di rado appannaggio dei servizi di vari tg, o delle trasmissioni che nel campo hanno fatto scuola (l’imitatissima Nonsolomoda, ad esempio), dove non si fa mai in tempo a distinguere un tacco, una fibbia, un occhio ed ecco che ti ritrovi già catapultato ai titoli di coda. Se a questo si aggiunge il rammarico per la momentanea e ingiustificata sparizione dal palinsensto de La7 dell’unico, longevo, programma confezionato con gusto e perché no, cultura, M.O.D.A, ideato e condotto dalla bravissima Cinzia Malvini, al cospetto del deleterio moltiplicarsi altrove di personaggi bizzarri e caricaturali, in più spacciati per esperti di costume, che ti propinano, dalle 8 del mattino, discutibili consigli su cosa indossare, il panorama comincia a farsi davvero desolante.

Avevo perciò atteso volentieri e guardato di buon occhio l’annunciato debutto di una nuova trasmissione televisiva, Fashion Style, in onda, dallo scorso Novembre, il lunedì sera su La5, che forse, vestendo i panni del “talent“, del programma cioè volto alla ricerca dell’astro nascente in quel settore – format già collaudato sulle più varie categorie professionali come cantanti/ballerini/chef e di recente, anche scrittori (se non l’avete ancora visto, vi consiglio Masterpiece, la domenica sera, su Rai 3) – poteva risultare un esperimento interessante. Ancor più degna di attenzione la presenza, tra i giurati deputati a valutare le qualità dei vari aspiranti fashion designer, make – up artist, hair – stylist e modelle selezionati nelle puntate, di Cesare Cunaccia, arguto scrittore e giornalista di moda, firma autorevole non così nota al grande pubblico perché di rado presente davanti alle telecamere. Peccato che nel suo delicatissimo e azzeccato ruolo Cunaccia sia affiancato dalla spigliata Alessia Marcuzzi, sempre brava e spiritosa, per carità, (nel caso specifico offuscata però da una luce innaturale, che le dona quell’alone da apparizione mariana a cui già da tempo ricorrono Lilli Gruber e Barbara d’Urso), ma che con la moda, francamente, c’azzecca quanto un mio eventuale ingresso da un parrucchiere. Decisamente più incomprensibile poi la terza giurata, Silvia Toffanin, smagrita ex – valletta, adesso presentatrice, imparentatasi poi con un senatore decaduto (è la compagna di Pier Silvio) che, soprattutto in un’occasione, dimostra di non conoscere il limite del senso del ridicolo, quando si rivolge poco garbatamente a una modella candidata con un “potresti fare la velina”, forse dimenticando che da quella schiera di fanciulle svestite e sgambettanti, in “ine”, proviene lei stessa (era una “letterina” di Gerry Scotti, insieme ad Alessia Fabiani e Ilary Blasi). Il tutto introdotto e commentato dai frizzanti interventi di Chiara Francini, giovane e graziosa attrice, un po’ troppo attenta a sottolineare sempre la sua “toscanità” (voglio dire, neanche la mia vicina ultraottantenne, cresciuta in pieno territorio fiorentino, è solita esprimersi con tutte quelle “c” e “g” strascinate) tra le, spesso importabili, creazioni, le acconciature, il trucco e il fisico dei “provinanti”, in una girandola di espressioni come trendy, glamour, stylish buttate lì a casaccio e risultati il più delle volte grossolani, pacchiani, da dimenticare. Impossibile infine non notare lo studiato tormentone che solerti, giuria e conduttrice, tendono, allo stesso modo, a ripetere all’infinito: “A Fashion Style non conta solo il talento”. E meno male, aggiungiamo noi: perché non sembra affatto comparire.

Vita (e morte) da cani

▶ Family Guy – Brian Dead !! – (OFFICIAL Family Guy Brian Death Scene) R.I.P. Brian Griffin – YouTube.

Uno dei meriti indiscussi delle serie animate tv made in Usa, dalla fine degli anni ’80 in poi, è stato quello di essere finalmente riuscite a infrangere molti tabù. Ricordo, anni fa, una critica intelligente e a tratti feroce di un noto giornalista nei confronti del primo irriverente cartone “per adulti” a stelle e strisce, i Simpson, colpevoli a suo dire di aver fatto letteralmente a pezzi l’immagine tradizionale e perbenista con cui il piccolo schermo si era da sempre preoccupato di dipingere la vecchiaia. Abraham Simpson, padre del celebre e simpaticamente inaffidabile Homer, è difatti un anziano sgradevole e scorbutico, con l’abitudine disgustosa di maneggiare sempre la sua dentiera, spesso dedito al racconto di lunghi e noiosi aneddoti, dubbiamente veritieri, per di più confinato dalla sua stessa famiglia in una lontana casa di riposo. Insomma, tutta un’altra storia rispetto alla figura del nonnino saggio, affettuoso e presente, occupato in regali, attenzioni e fiabe da leggere per i nipoti, con cui la tv è decisamente più incline a narrare la terza età. I Griffin, sgangherato e altrettanto deplorevole nucleo familiare protagonista dell’omonima (ed ennesima) serie animata nata sulla scia del successo dei Simpson (negli Stati Uniti in onda sul canale Fox con il titolo originale di Family Guy) trasmessa in Italia, con alterne fortune, già dal 2000, si è spinta ben oltre, mettendo alla berlina anche il ruolo dell’animale domestico di casa, in questo caso un cane parlante, di nome Brian. Così, oltre al padre Peter, genitore egoista, assente, mai all’altezza del proprio ruolo, Lois, madre casalinga con ambizioni artistiche frustrate, due figli adolescenti Meg e Chris, con evidenti problemi di insicurezza e di peso, un terzogenito Stewie, piccolissimo e diabolico, desideroso di sbarazzarsi delle attenzioni oppressive della mamma, Brian si inserisce perfettamente, con riuscito e caustico sarcasmo, nelle dinamiche zoppe dello sconclusionato equilibrio in cui vive la famiglia catodica americana. Perché, in sostanza, è l’unico personaggio dotato di senno, di intelligenza, di una sensibilità sconosciuta al resto degli altri componenti (dote che in più puntate lo porterà ad avere dipendenze da droghe e alcol), l’unico che ascolta con la dovuta premura i progetti deliranti di Stewie, l’unico ad esprimersi correttamente, con garbo e con un linguaggio talvolta più saccente di quello televisivo, l’unico provvisto di una propria profondità psicologica in netto contrasto con la generale superficialità che lo circonda. Insomma, per me divenuto da subito un appassionato del cartone, conosciuto grazie alla segnalazione di una carissima amica che sosteneva, con tanto di fotografia alla mano, di possedere da bambina la stessa forma della testa a “pallone da rugby” identica a quella di Stewie, il personaggio fra tutti meno amato. Per una ragione molto semplice: non è divertente. I Griffin incarnano difatti, in maniera catartica, i peggiori difetti della famiglia vista come luogo in cui proliferano anche nefandezze e rapporti malsani, in cui tutti contribuiscono, con le proprie debolezze e i propri limiti, magari armati delle più buone intenzioni, a peggiorare il disastro delle esistenze altrui. Si ride perché c’è, in fondo, un briciolo di verità nelle clamorose imperfezioni e nei tentativi maldestri di ciascun membro di agire secondo la propria discutibile (in)coscienza, seppur tra le evidenti esagerazioni di trama e un’ironia tagliente, a volte perfino demenziale. Non devo essere stato l’unico a pensarla così, visto che, gli stessi creatori dei Griffin, giunti oltreoceano oramai alla dodicesima serie, hanno deciso nell’ultima puntata trasmessa negli Usa soltanto lo scorso 24 novembre di far fuori proprio Brian, nel modo poi più crudele e scioccante, perché verosimile, cioè drammaticamente investito da un’auto in corsa (video allegato). Prenderà il suo posto Vinny, meticcio italo-americano, incontrato in un canile, appartenuto in passato a una famiglia di mafiosi: personaggio scomodo, dalla storia oscura, forse più in linea con il deprecabile cinismo che accomuna il resto della famiglia. Senza dimenticare che proprio la morte di Brian rappresenta però il momento per eccellenza in cui i Griffin danno prova di tutta la loro difettosa umanità, e come tutte le famiglie imperfette, si stringono l’un l’altro, di fronte al dolore.

N.d.r. Cara Lorena, volevo semplicemente sottolineare la delicatezza con cui ho evitato di tirati esplicitamente in ballo nel discorso della mia amica con le sue foto da bambina, etc. E ricordarti che ti voglio bene. Ti abbraccio.

Dancing queen

lea_t2Non è ancora celebre né paparazzata come Naomi, o controversa e inossidabile come Kate Moss, neanche strapagata come la brasiliana Gisele Bundchen, sua connazionale. Eppure Lea T, al secolo Lea Cerezo, professione modella, 32 anni vissuti da cosmopolita tra l’Italia, la Francia e il Sud America è tutt’altro che una sconosciuta nel rutilante mondo del fashion – system. Il suo è piuttosto un nome di nicchia, di quelli che difficilmente escono dal giro degli addetti ai lavori, la sua enigmatica bellezza non risulta ancora inflazionata come nel caso delle altre top model, a dire il vero non sarebbe neppure corretto definirla una top model. Che sia idolatrata e corteggiata da stilisti e fotografi di mezzo mondo, questo è fuori discussione; soltanto la scorsa settimana il suo corpo sottile incedeva sulle passerelle di Parigi, splendidamente fasciato in una creazione di Givenchy, marchio di cui è la principale testimonial da diverse stagioni. Anzi, per Riccardo Tisci, italianissimo direttore creativo dal 2005 al timone della maison francese – caso eclatante di strepitoso talento nazionale accaparrato in giovane età dai più furbi cugini d’Oltralpe – Lea T. è molto di più dell’intenso volto scelto per le sue campagne: è un’amica, una sorella, una musa. Una creatura naturalmente dotata di un fascino singolare, un mix di esuberanza e fragilità, una per cui, tra uno scatto e l’altro durante i servizi fotografici o nei backstage delle sfilate, si è soliti spendere quegli aggettivi che fanno subito professionista del settore come ”adorable”, “amazing”, “divina”. Una che deve indubbiamente parte del suo successo, oltre che alla notevole e innegabile avvenenza, alla sua, peraltro mai taciuta, ambiguità sessuale: in realtà, pur non avendone lei stessa mai fatto mistero, a chi la ama e la segue da tempo non è mai importato granché se sulla sua carta d’identità ci sia scritto uomo o donna. Per la moda Lea T è solo e soltanto Lea T. Poi è arrivata la tv.

Che al contrario, non si è limitata a raccontare il lato umano di tutta la sua vicenda, a narrare quel percorso, tormentato e doloroso, anche dal punto di vista fisico, di chi a un certo punto della vita scopre di abitare nel corpo sbagliato. Ha ovviamente rovistato nel suo passato, saccheggiando i suoi ricordi di un’infanzia privilegiata da figlio di un famoso e amato calciatore (il padre Toninho Cerezo ha militato nella Roma negli anni ’80), seguendo con spropositato, superfluo e dettagliato interesse tutte le fasi della sua progressiva e intima trasformazione. Adesso è andata oltre: tentando di farne, indecorosamente, un’attrazione di grido, un fenomeno da baraccone, provando a solleticare la morbosità del grande pubblico con il richiamo del “terzo” sesso che entra trionfalmente sui nostri schermi. E’ successo a Ballando con le stelle, semipenoso show del sabato sera di Rai Uno, condotto da un’immutabile Milly Carlucci, in cui personaggi più o meno noti dello spettacolo e dello sport fanno a gara per distruggere la loro fama di sex – symbol dimostrando di non essere in grado di eseguire a tempo neppure due passi di tango o di valzer. Stando sempre attenti, tra l’altro, per quel finto perbenismo, buonismo o moralismo che contraddistingue la tv di Stato, a non citare mai, nel caso di Lea, concorrente del programma, la parola trans, quasi suonasse come un insulto o peggio, un vocabolo del tutto nuovo o incomprensibile per le delicate orecchie degli ascoltatori della rete. Attribuendole un’immagine superata e stereotipata – un fiore appuntato tra i capelli, una gonnellina bianca, leggera e svolazzante, come se fosse appena uscita da una pellicola con Carmen Miranda – puntando sullo scandalo o sullo sbigottimento per la sua presenza tra i vip ed ottenendo una cocente delusione per ciò che il video restituisce: la figura di una donna delicata, per niente trasgressiva, men che mai volgare, di sicuro molto meno di alcune stelline nel cast dello stesso programma. Ecco chi è semplicemente Lea in tv: una modella, che balla, con grazia, e sorride, spesso. Alla faccia, forse, di chi, l’ha seguita solo per deprecabile curiosità.