Non dimenticar…

Sento una terribile botta in testa. Sto per perdere l’equilibrio, mi volto, riconosco un manico di scopa, un muretto di sassi irregolari e giallognoli, forse quello che c’è tuttora di fronte casa di mia nonna. Ecco arrivare mia madre, di sicuro mi ha sentito piangere, ha i capelli nascosti da un foulard bianco, coi fiori, trattiene a stento una risata mentre mi ripete “Non ti sei fatto niente”. Poi affondo nel suo abbraccio, con le guance ancora solcate dalle lacrime. E’ il mio primo ricordo, le prime immagini registrate dalla mia testa dopo il nulla più totale. Lo so, non sembra un granché come inizio. Voglio dire, ho sentito milioni di altri racconti più avvincenti o poetici: ho amici e conoscenti che vanno narrando episodi scanditi da sassi lanciati in riva al mare, da soavi ninne nanne sussurrate nei lettini, da canzoncine buffe e allegri girotondi imparati ai tempi dell’asilo. La mia vita comincia invece con l’entusiasmante vicenda di un bernoccolo. Che poi, vallo a sapere, non sarà stato neanche il primo in senso stretto. A dire il vero non ho mai neppure capito contro cosa di preciso sia andato a sbattere. Di certo c’è solo che a ripercorrere il tutto con gli occhi di oggi, potrebbe quasi sembrare una chiara anticipazione di quello che sarei stato in futuro: un imbranato, sin dai primi passi. Pazienza, mi rifarò certamente nella prossima esistenza, quella da disinvolto/supersicurodise’/strafigo (posso aggiungere anche capellone?) in cui mi reincarnerò, vendicandomi di questa prima vita condita da qualche timore, mania, fobia (e calvizie) di troppo. Per fortuna, nonostante l’innumerevole sequenza di altri drammatici capitomboli e tonfi sonori, veri e metaforici, che hanno costellato i miei primi 29 (o giù di lì) anni, devo ammettere di conservare, come tutti, anche una discreta quantità di ricordi altrettanto piacevoli. Fotogrammi non sempre così nitidi, volti che a ritroso nel tempo si fanno a poco a poco più indefiniti, che però compongono quel prezioso e intricato puzzle della memoria, e che troverei a dir poco spaventoso se andasse in parte perduto o se venisse intaccato, anche in un solo singolo tassello.

Eppure, incredibile a dirsi, sono diversi gli studi internazionali che sembrano muoversi in questo senso. Ricerche, di sicuro motivate da nobilissime finalità, ci mancherebbe, che tuttavia, condotte per il momento (e fortunatamente) soltanto sui topi, puntano a manipolare il bagaglio di esperienze immagazzinate nel cervello, a modificare qua e là la memoria, a tagliuzzare o resettare vita passata e background. Insomma, senza girarci troppo intorno, il futuro visionario immaginato da Michel Gondry nel suo celeberrimo Se mi lasci ti cancello non pare più così assurdo né tantomeno lontano: rendere alla portata di tutti la possibilità di rimuovere artificialmente i ricordi. Perché, a voler essere più precisi, il tentativo è proprio quello di mettere a punto farmaci capaci di spazzar via la rievocazione di eventi causa di stress o di forti traumi, in maniera mirata, senza alcun danno collaterale ( http://www.journals.elsevier.com/biological-psychiatry/ http://www.huffingtonpost.it/2013/09/13/cancellare-ricordi_n_3920170.html ). Partendo proprio dalla certezza acquisita che siano i momenti più tragici a imprimersi per sempre nella testa. Tanto per fare un esempio scemo, proprio come quel luogo comune che vorrebbe tutti memori di dove ci si trovasse esattamente l’11 Settembre nel momento degli attentati alle Torri Gemelle. Il mio amore, sempre controcorrente, difatti non lo ricorda. No, non era con me, io ero in fila in segreteria all’Università a consegnare la domanda di tesi (circostanza che, se avvenuta in un altro giorno, avrei rievocato con molto più piacere). Mentre spero che la sua amnesia non sia dovuta all’essersi trovato allora in compagnia di uno dei tanti amanti che le mie fantasie di essere geloso gli hanno nel tempo attribuito. Ma senza divagare sulle tormentate paranoie del blogger e per ritornare all’argomento principale di questo post, trovo sinceramente sconcertante un simile studio. Non tanto per la banale constatazione che il dolore alla fine faccia parte della vita stessa, e il volerlo escludere, anche solo in parte, conduca forse a un’esistenza a metà, falsata, da noioso fotoromanzo. Quanto perché è proprio di fronte all’oscurità improvvisa di certi drammi e alla paura delle tragedie che facciamo i conti soprattutto con noi stessi, che misuriamo le nostre debolezze o più spesso, ci scopriamo inaspettatamente forti, coraggiosi, combattivi. Che ammettiamo, nonostante tutto, di essere più tenaci di quanto avremmo mai potuto pensare. Perfino più tenaci di tutti i nostri ricordi.

Come si cambia

Maddalena ha modi gentili, un sorriso intenso, la stessa voce pacata e melodiosa che ricordavo e che starei ad ascoltare per ore. Di lavoro fa la guida turistica, ci siamo incontrati spesso durante questi miei anni di militanza professionale nei musei, tanto che ormai è sufficiente una sua rapida occhiata per capire al volo se sia il caso di fermarsi a scambiare due chiacchiere o se i visitatori che l’accompagnano siano scocciatori della peggior specie, stranieri frettolosi, nell’uno o nell’altro caso sempre persone poco inclini ad alcun tipo di interruzione. Lorenzo invece non lo vedevo da tempo. Esattamente come allora è rimasto il solito tipo taciturno, riservato, abilissimo nel piazzare la battuta al momento giusto; adesso però ha smesso di fumare, è diventato vegetariano, salutista, notevolmente più magro e da due anni anche padre di una splendida bambina. Maddalena ha invece due piccoli figli maschi, a suo dire dal carattere troppo vivace e impetuoso, forse dimenticando che lei stessa, prima di trasformarsi nella donna mite e garbata che mi siede accanto, è stata una ragazza peperina, con cui era impossibile spuntarla se sfidata in una qualsiasi discussione. Così l’avevo conosciuta, insieme a Lorenzo, tra i banchi di un noiosissimo corso universitario che seguivamo a turno, palleggiandoci la lezione del sabato mattina (perché, diciamocelo, a vent’anni, il sabato mattina è quasi una divinità intoccabile) e che poi decidemmo di preparare insieme all’esame, ritrovandoci per mesi, tutti e tre, alla stessa ora, allo stesso tavolo, nella stessa biblioteca. L’altra sera eravamo di nuovo noi tre, quindici anni dopo, diverso il tavolo, quello di un locale frequentato del centro (“non sarà troppo figo per noi?” “niente è troppo figo per noi!”), diversa l’occasione (“aspetto il terzo figlio” ci ha spiazzato Maddalena “sarà sicuramente maschio” “e più scatenato degli altri”), a brindare e a mangiare (“per me niente alcol” “per me niente carne” “per me stiamo invecchiando male”), a ricordare le bizzarrie di compagni e professori, a tentar di scorgere, nelle nostre parole e nel nostro aspetto, le tracce di ciò che eravamo un tempo e provare a scoprire, al contrario, le differenze con ciò che siamo diventati oggi.

Com’era prevedibile, l’inizio della serata è stato curioso e scoppiettante: avevamo un passato vissuto in comune, da quello siamo ripartiti, tra ricordi, risate e preoccupanti vuoti di memoria (“la bibliotecaria? ma non era un uomo?”) come divertente appiglio per ignorare la consapevolezza di non poter colmare in una sola sera le lacune reciproche sulle nostre attuali esistenze. Abbiamo rievocato il nostro vecchio insegnante, il suo imbarazzante riporto di capelli che partiva dalla nuca per poi snodarsi su tutta la fronte (“e quando veniva in bici?” “gli scendeva come una marmotta sulle spalle” “però, adesso potrei sperimentarlo anch’io”), il suo chiedere ingenuamente “lei, laggiù, mi passerebbe la canna?” intendendo il lungo bastone che giaceva in un angolo dell’aula, deputato ad indicare i dettagli delle immagini proiettate, e non le sigarette amatoriali che in un paio di occasioni gli sono giunte tra le mani. Siamo andati all’avida e scomposta ricerca di indizi e aggiornamenti sui volti, non sempre gli stessi, dei nostri compagni di corso che ricordavamo (“E Tiziana, la pittrice? “E Marco, quello piccolino, studiosissimo?” “E Francesca, la bionda, aveva dato l’esame con noi, che fine avrà fatto?”) ottenendo risposte fumose, talvolta tragicomiche, per non dire surreali (“Ha ereditato da poco l’attività del padre” “Si sarà perso nei meandri della sua stronzaggine” “Insegna capoeira” – “ma è un lavoro?” – “a me ne hanno offerti di peggiori”). Ci siamo fatti coraggio e abbiamo infine acciuffato quella domanda che dai primi minuti del nostro incontro vagava nell’aria e che aspettava solo di prendere corpo sulle labbra di qualcuno di noi: “E se potessimo tornare indietro, rifareste la stessa scelta?” “Io no, meglio insegnare capoeira” “Vuoi una risposta seria? Non c’ho mai pensato”. Era vero. Mai riflettuto su un’ipotetica, seconda possibilità, mai tornato indietro sulle mie, per quanto assurde, decisioni. Anche se sono spesso frutto di ragionamenti avventati, della mia dannata impulsività, di una logica tutt’altro che ineccepibile. Agisco, mi lancio, talvolta cado, spesso sbaglio. E’ andata male, pazienza, ricomincerò, da qualche parte. Semplice, concreto. Senza troppe illusioni, altri dubbi, la briciola di un minimo rimpianto. La prova più evidente che in questi ultimi quindici anni sono cambiato tanto anch’io.

Tutta colpa di Gianni!

▶ fashiontv | FTV.com – GIANNI VERSACE HISTORY FEM 1993-1997-1 – YouTube.

Inutile nasconderlo, non ho esattamente quel che si definirebbe “un buon rapporto” con il tempo che passa. Ed è altrettanto inutile che continui a scherzarci su, come faccio qui sopra, ostinandomi a dichiarare allegramente i miei 29 anni, o a insistere a rispondere, quando mi si chiede l’età, “una trentina” (vorrei anche approfittare per ringraziare pubblicamente la signora che l’altro giorno al forno me ne ha dati 27), offendendomi a morte o soffocando il chiaro istinto omicida che mi assale quando invece me ne attribuiscono di più. E non si tratta, poi così superficialmente, di un semplice fatto di vanità, di voglia di apparire più giovane a tutti i costi o di non saper fronteggiare un graduale quanto inesorabile declino fisico: per chi, come me, in breve tempo si è trasformato da uno fighetto snello, abbronzato e capellone in un ometto occhialuto, calvo e semiflaccido, è piuttosto evidente che il massimo della forma raggiunta intorno ai 18-19 anni sia oramai un bel ricordo da lasciare alle spalle, senza più rimpianti. Pazienza. Ciò che al contrario non riuscirò mai a padroneggiare, a gestire al meglio o ad abbandonare dietro di me con altrettanta facilità è quella mortificante sensazione che il tempo tra le mie mani sia qualcosa di continuamente inafferabile e sfuggente, una capricciosa entità che non si lascia piegare al mio volere, sempre troppo veloce, troppo indipendente, troppo lontano dai miei ritmi e dai miei desideri. Così, l’altro giorno, quasi prima che me ne potessi rendere conto, mi ha regalato l’ennesimo compleanno (e tanti auguri!). Che mi è piombato addosso come un macigno, senza alcuna possibilità di appello, rivestendomi di una nuova età – tra l’altro una cifra insignificante e dispari – a cui faccio fatica ad abituarmi, perché percepita come estranea ed esagerata rispetto alla mia vita attuale. Ok, tento di spiegarmi meglio.

Da bambino, appesa alla parete sopra il mio letto, avevo un’enorme cartina geografica del mondo, su cui passavo ore a fantasticare immaginandomi tutti i paesi, anche i più sperduti e irraggiungibili, che un domani avrei visto con i miei stessi occhi, in preda a quel senso di onnipotenza che solo il possedere tanto tempo a disposizione davanti a te può darti. Poi guardavo la finestra della mia camera e il piccolo tratto di mare che incornicia, sicuro che la mia vita sarebbe stata di sicuro oltre quell’orizzonte, non sapevo bene dove, ma di certo in qualche angolo affascinante di quel mondo sconfinato che aspettava solo me. Adesso che vivo a sole due ore di auto dal mio paese natìo in cui ritorno sempre volentieri, che gli anni trascorsi hanno dato una bella sforbiciata alle ipotetiche mete allora date per scontate, che, ci mancherebbe, le occasioni per viaggiare saranno ancora tante e comunque qualche posto in più l’ho visitato, ma insomma, l’isola di Pasqua o lo stretto di Bering forse posso cominciare ad escluderli dall’elenco, mi sembra di aver tradito in parte i miei sogni di fanciullo. Stessa cosa per quanto riguarda le mie ambizioni professionali: folgorato a 16 anni da una sfilata di Gianni Versace trasmessa in tv (video allegato), che avevo registrato e che ho riguardato all’infinito fino a consumarne il nastro (esistevano i VHS, lo so, preistoria), tutte le mie scelte da quel momento in poi sono state condizionate da quella ferma convinzione nata davanti ai suoi incantevoli abiti, “mi occuperò di moda”. E chissenefrega dei soldi spesi per le migliaia di riviste, di foto e di cataloghi che compongono la mia ventennale collezione, che adesso nessuna libreria sembra più voler contenere, della parziale delusione dei miei, che non mi hanno mai ostacolato, ma che avrebbero di certo preferito un figlio medico, ingegnere o avvocato piuttosto che un laureato in “storia del costume e delle arti decorative e industriali” (o in “ciondoli e cazzetti” per dirla come mio padre), degli spaventosi e altalenanti vuoti professionali che una formazione del genere implica. Volevo, e voglio tutt’oggi, scrivere di moda.

E per quanto armato solo di buona volontà, o se vogliamo cocciutaggine, sia riuscito a far comparire nel mio curriculum varie e pregevoli collaborazioni con magazine del settore, con istituzioni museali e scuole di moda, per quanto mi sia preso le mie belle soddisfazioni e le mie rivincite di fronte a quanti mi consigliavano di lasciar perdere (o di abbandonare del tutto l’idea della scrittura), ogni anno che passa sembra allontanarmi dalla meta che ancora non ho pienamente raggiunto. Chiamatela presunzione, perenne insoddisfazione, incapacità di accontentarsi o di inchinarsi alle più elementari esigenze delle vita quotidiana; ma quel 16enne imbambolato di fronte alle sfilate di Versace continua a scalpitare in me. Mentre il tempo che si avvicenda implacabile, ridimensionando le mie ambizioni, costringendomi a continui ripensamenti o a valutare quegli eventuali errori di percorso, mi infastidisce perché imporebbe precise scadenze. Che prima o poi dovrò soppesare. Facciamo il prossimo compleanno. Il trentesimo. Forse.

Missing Whitney

Whitney Houston – Saving All My Love For You – YouTube.

E’ trascorso un anno esatto dalla sua scomparsa. Sembrerà assurdo, ma a me manca. Non di certo la persona, magari l’avessi incontrata almeno una volta: vivere per un tot di anni sullo stesso pianeta non è stato sufficiente a far incrociare le nostre esistenze. Forse avrei dovuto bazzicare di più Beverly Hills e dintorni, ma la Toscana mi è sempre sembrata una residenza più chic. Scherzi a parte, un filino di nostalgia la provo. E non solo quando leggo ovunque che la celeberrima I will always love you è stata decretata dagli innamorati statunitensi, secondo un sondaggio commissionato dalla Sony Electonics Home Audio, la canzone più bella di tutti i tempi (http://qn.quotidiano.net/spettacoli/musica/2013/02/08/842743-canzone-amore-san-valentino-whitney-houston.shtml). Una scelta così ovvia, da apparire perfino banale (motivo per cui il brano che qui allego non è l’inflazionatissima colonna sonora di The Bodyguard ma il ben più raffinato successo d’esordio Saving all my love for you, del 1985). Il fatto è che per me Whitney c’era, sempre. Suo il mio primo disco acquistato, quando, dodicenne, guardando le Olimpiadi di Seoul del 1988 sognavo un futuro da sportivo (ebbene sì, è successo. E ho anche più di 29 anni). Sue le canzoni che tentavo di imparare a memoria, da adolescente, con un inglese irripetibile, ascoltandole un migliaio di volte in loop nelle cuffie del mio walkman (l’ipod è stato inventato mooolti anni dopo). Sue le frasi struggenti che sembravano calzare a pennello quando mi si è spezzato il cuore, quando mi sono reso conto che quella volta, forse sì, era vero amore, quando mi tormentavo cercando di capire qualcosa in più di me stesso e quando, inebetito e al settimo cielo, provavo la forza di un sentimento straordinario e travolgente. In ogni passaggio importante della mia vita c’era la sua voce a tenermi compagnia, nelle nottate trascorse tentando di finire il programma di qualche esame all’università, compilando e cestinando (sempre di notte) i miei primi lavori che nessuno avrebbe mai letto, soprattutto in quei momenti cruciali passati a meditare sui miei errori e sul mio futuro. Perché tra quei vocalizzi cristallini, tra quelle note imprendibili per la maggior parte degli esseri umani, tra quegli acuti acrobatici e infiniti saltavano sempre fuori parole che parevano cucite addosso a ciò che stavo vivendo in quel preciso istante. Ecco ciò che mi manca di più: quella sensazione inspiegabile, stupida e appagante che nelle canzoni di Whitney ci fosse sempre un po’ di me. E che da un anno a questa parte non c’è e non ci sarà più.

Piccolo il mondo

Alicia Keys – Girl On Fire – YouTube.

Per ragioni sentimentali, più che per una ponderata scelta professionale, da circa due anni vivo in una piccolissima località alle porte di Firenze, una silenziosa oasi di tranquillità a soli a 8 km dal traffico congestionato dei viali e dalle vagonate di turisti che affollano il centro del capoluogo toscano. Un paese, o meglio, una manciata di vie sbilenche, in cui spiccano una macelleria aperta dalle 7 del mattino alle 10 di sera, una statua di Padre Pio in bronzo a grandezza naturale nel giardino di una farmacia, un circolo ARCI che offre corsi di zumba a prezzi stracciati e serve amari introvabili altrove dagli anni Settanta. Se hai fortuna, nel minuscolo ma ben fornito supermercato – l’unico nei dintorni ad avere la rarissima Viennetta al pistacchio, cosa che costringe la mia amica Claudia ad apposite incursioni in macchina da un paio di frazioni più in là –  puoi trovare vip del calibro di Marco Masini (il che la dice lunga sull’allegria del posto) o, se ti va meno bene, chi scambia il tuo spiccato accento maremmano per romano e ti chiede incuriosito ”icchè tu ci fai qui?”. Oppure, come è successo a me lo scorso inverno, di incontrare all’uscita, con le buste della spesa, la tua ex-compagna di banco del liceo, Chiara, di cui avevi perso le tracce da una dozzina d’anni, praticamente identica ad allora (ma invecchio solo io?), che vive nel paesino adiacente al tuo con un marito siciliano e un meraviglioso bambino con la sua stessa vitalità negli occhi. Un’occasione magnifica per riallacciare i rapporti, ritrovarsi a tavola con la scusa di parlare dei vecchi tempi, consolarti almeno un po’ perchè, al contrario di lei, non avrò lo stesso aspetto dei miei 17 anni ma una memoria decisamente migliore della sua, quella sì. E capita anche, come ieri sera, che Chiara, vulcanica e imprevedibile esattamente come ricordavo, mi trascini fuori a cena ad orari impensabili dopo un’estenuante giornata di lavoro, e poi al cinema per un film altrettanto impensabile (“Mai Stati Uniti” di Vanzina, mi spiego?) e tra le risate chiassose al ristorante e le risate soffocate durante la proiezione, e le canzoni urlate in macchina al ritorno (tipo Alicia Keys, video allegato), io sia riuscito ad accantonare per un po’ le preoccupazioni e lo stress di una vita adulta che non so gestire, per rispolverare, nascosta chissà dove, la spensieratezza di quegli anni. E che adesso sia qui, seduto davanti a uno schermo con un sorrisino ebete, a ringraziarla, perché anche la sincerità di un affetto, che con il passare del tempo non cambia di una virgola, è merce assai preziosa.