In principio fu Gigi Hadid: bionda bellezza raggiante made in California, classe ’95, un nomignolo che in Italia suona curiosamente maschile (abbreviazione del più esotico Jelena Noura), un cognome di chiara provenienza mediorientale (il padre, Mohamed Hadid, è un noto imprenditore immobiliare di origini palestinesi), un fascino solare e prorompente avuto in eredità dalla madre (l’ex modella olandese e star della tv americana Yolanda Foster). Con queste premesse (e questo straordinario patrimonio genetico) non stupisce affatto che Gigi sia diventata, a soli 21 anni ed in pochissime stagioni, il nome più richiesto dall’intero fashion system internazionale, collezionando sin dal suo debutto, avvenuto nel 2011, copertine, contratti e campagne che l’hanno piazzata direttamente ai primi posti nella classifica delle top model più pagate al mondo stilata di recente da Forbes (appena dietro alle brasiliane Gisele Bundchen e Adriana Lima, per intenderci). Una carriera sfolgorante la sua, già coronata da traguardi che altre colleghe raggiungono in tempi più rilassati (come l’immancabile presenza sul Calendario Pirelli, nell’edizione 2015 firmata da Steven Meisel) e arricchita di passi strategici che fanno di Gigi una star mediatica a tutto tondo: dalle risposte piccate via web a chi l’accusava di non entrare esattamente in una taglia 38, (polemica conclusasi, guarda caso, con il suo ingaggio miliardario da parte del colosso dell’intimo Victoria’s Secret), passando per l’amicizia affettuosa e fin troppo ostentata con alcuni personaggi dello spettacolo (tra cui la celebre cantante statunitense Taylor Swift), per finire con il fidanzamento, manco a dirlo, sbandieratissimo, con l’ex degli One Direction Zayn Malik (tanto per ribadire che il binomio top – model/pop star funziona ancora dai tempi di Simon Le Bon e Yasmin Parvaneh). Ad intaccare, e forse un domani offuscare, la fama della sensualissima Gigi, potrebbero però essere le quotazioni in ascesa dell’altra bellezza di casa Hadid, la sorellina minore Bella: 20 anni fra pochi giorni (è nata il 9 Ottobre del ’96), brunetta dal volto più algido e sofisticato, una vaga somiglianza con la nostra Carla Bruni (in fase pre – Sarkozy e pre – botox), un profilo straordinariamente perfetto su cui pesa il sospetto di un ritocco chirurgico, la giovane modella era già comparsa in alcune importanti campagne fotografiche al fianco della sorella stessa (tra cui quella di Balmain dello scorso inverno, foto allegata), così come capita di vederle sfilare assieme sulla medesima passerella in occasione delle numerose fashion week in giro per il pianeta. Ma per spiccare degnamente il volo in solitaria e forse non passare alla storia della moda come l’ennesima “parente di”, Bella ha sfoderato il suo personale repertorio di mosse giuste per guadagnarsi i riflettori: così, tanto per non smentire il dna familiare, si è trovata un compagno musicista tutto suo, il cantante r&b canadese The Weeknd, pescandolo tra i nomi più in vista nel panorama mondiale. Non soddisfatta è comparsa lo scorso Maggio sul red carpet del festival di Cannes in un succinto abito rosso fuoco di Alexander Vauthier, con scollatura e spacco da cardiopalma (espediente rimarcato, con esiti più patetici e volgari, da alcune starlette di casa nostra all’ultimo Festival di Venezia), raggiungendo, in una sola serata, picchi imprevisti di popolarità. Ed è finita a far parlare nuovamente di sé, forse suo malgrado, per la recente e rovinosa caduta in passerella a New York, da Michael Kors, pochi giorni fa, brutto incidente che però in passato ha consolidato il successo di ben altre top (le scarpe con zeppa vertiginosa di Vivienne Westwood da cui cadde Naomi Campbell nel lontano 1993, ad esempio, sono da allora esposte nel prestigioso Victoria & Albert Museum di Londra). Senza dimenticare che sul solito dualismo e sull’eterna rivalità tra la bionda e la bruna campano da decenni centinaia di storie al cinema, e poi cartoni, favole, perfino le veline e le vallette di Sanremo: volete che non funzioni proprio stavolta?
Archivio mensile:settembre 2016
Photo food…
“Guarda qui cos’ho preparato oggi!”. E’ quasi ora di pranzo, annoiato e impaziente desidero solo poter scendere dal treno, come al solito, in ritardo, il servizio gratuito di connessione wi-fi reclamizzato ogni minuto sullo stesso convoglio sembra procedere altrettanto a rilento, e per visualizzare l’immagine inviatami via Whatsapp dalla mia amica Loredana devo aspettare di ritrovarmi una mezz’ora più avanti solo, al tavolo di un bar, di fronte ad uno squallido tramezzino, divorato in quei pochi secondi che precedono il mio appuntamento di lavoro, in altre circostanze neppure sufficienti ad ordinare un velocissimo pasto. “Sembrano davvero buoni!” riesco, non so come, a replicare, mentre mi ustiono il palato buttando giù un caffé troppo bollente, e la vista di quel succulento piatto di spaghetti alle vongole, campeggiante nella foto inviatami poco prima, non fa che accrescere l’acquolina in bocca, oltre alla comprensibile voglia, mista ad invidia sottile, di barattare il mio misero pranzo con quella pietanza immortalata, in apparenza ben più gustosa. Direi che il suo messaggio ha ottenuto senza dubbio l’effetto desiderato: perché è per questo che, smartphone alla mano, fotografiamo come forsennati milioni di portate rese esteticamente impeccabili, grazie a quella dedizione spasmodica, un tempo appannaggio esclusivo di personaggi da libro di ricette come Wilma de Angelis o suor Germana. E’ per questo che curiamo allo stremo impiattamento e presentazione di qualsiasi prelibatezza, vera o presunta, uscita dalle nostre mani, sempre in preda alla criticabile ma diffusissima smania di condividerla sui social non appena poggiata quell’ultima foglia di basilico sulla sua sommità. Per cercare, nel più vasto pubblico del web, maggiore o incondizionata approvazione, consensi e commenti lusinghieri, per coccolare il nostro ego culinario con il moltiplicarsi costante di like, stelline o cuoricini, per ottenere in risposta quell’entusiasmo che mariti, mogli, fidanzate/i o figli troppo distratti a tavola non sembrano ugualmente riservare ai nostri piatti così amorevolmente preparati, spesso al contrario demoliti da critiche del tipo “però manca un po’ di sale” o “secondo me è sbagliata la cottura!”. Per metterci in mostra, e forse anche alla prova, su di un terreno più familiare, democratico, a portata di mano, come lo è poi la cucina, per regalare finalmente una vetrina degna e spaziosa alle nostre supposte abilità ai fornelli, fino ad oggi tenute nascoste fra le mura domestiche o al massimo svelate a parenti e amici utilizzati come cavie dei nostri peggiori esperimenti con il cibo. Contagiosa moda collettiva o frontiera recente della vanità 2.0, il foodspotting (questo il termine corretto per descrivere la mania di inondare la rete, Instagram in primis, con foto di piatti tutte noiosamente uguali a sé) è anche l’ultimo bersaglio della nuova e riuscitissima campagna Ikea (video allegato), l’arcinoto colosso svedese di arredamento colpevole di aver riempito le nostre case con mobili dai nomi impronunciabili e di aver trasformato in un incubo i nostri week-end di shopping forzato tra mensole da misurare e piumoni talvolta esagerati per le più miti temperature nostrane. Con la medesima ironia e l’efficacia già notate nelle precedenti pubblicità ideate dallo stesso gruppo, lo spot citato si scaglia così contro l’inutile ossessione quotidiana di fotografare e condividere sulle proprie pagine internet i piatti prima ancora di poterli assaggiare, mettendo in scena un raffinato ambiente aristocratico settecentesco e ipotizzando la ricerca di potenziali gradimenti virtuali in quell’epoca, in un tripudio di costumi sfarzosi, volti pallidamente truccati e parrucche (peccato quest’ultime non tornino di moda, ne approfitterei subito). Con un messaggio finale piuttosto esplicito “Let’s relax. It’s a meal“. Rilassiamoci, è solo cibo. Parole che terremo bene a mente quando, magari contro la nostra volontà, ci ritroveremo proprio all’Ikea a rigirare tra le mani un piccolo barattolo di SILL SOMMAR (aringhe marinate), tentando di intuirne, forse invano, il contenuto.
Un bel tacer…
A volte, semplicemente, non si ha nulla da dire. Altre, soprattutto in pieno clima di vacanze, diventa normale e quasi indispensabile voler staccare la spina, interrompere il peso e la prevedibilità di certi ritmi e tentare di sottrarsi ad ogni tipo di routine. Altre ancora, in maniera forse più banale, la voglia di raccontare, commentare o dispensare opinioni e consigli da quattro soldi (i miei intendo) sulla vita in generale lascia spazio al solo desiderio di viverla appieno quella stessa vita, senza avvertire la minima necessità di condividere, rendere pubblico o dare in pasto a chicchessia, nemmeno a quei pochi e fedeli lettori faticosamente conquistati nel tempo, alcun frammento, privato e prezioso, della propria esistenza. Il che in teoria cozzerebbe un po’ con la ragione stessa di possedere un personalissimo e a tratti insensato contenitore virtuale come questo, edificato sul mio solo punto di vista e sugli stralci di una bizzarra quanto ordinaria quotidianità. Ma star qui a spiegare nel dettaglio i motivi del recente, maggiore (e credetemi, non previsto) silenzio mai avvenuto nei quasi quattro anni di storia di questo mio blog, facilmente riassumibili poi in un fatale mix estivo delle tre premesse poc’anzi elencate, distoglierebbe forse troppo dalla parola alla base della riflessione di oggi, quel citato, fondamentale, spesso sottovalutato silenzio. Affaccendati gran parte dell’anno a trovare necessariamente modi e spazi per poter dire, talvolta urlare, la nostra, sempre iperconnessi e dunque pronti a sparare a zero su quella stessa rete che ci aggiorna all’istante su tutti i fatti e i fattacci, pare quasi impossibile oggi coccolare invece l’idea di farsi per un po’ da parte, rallentare presenze e interferenze virtuali, ritagliarsi dei sani e vitali attimi per ritornare al solo piacere di ascoltare e perché no, di ascoltarsi. Voci e situazioni riscoperte durante quest’estate, mai notate prima, al contrario, per distrazione, superficialità, sovraccarico di impegni e di pensieri, ce ne sarebbero in abbondanza. Che le risate di mia nipote, ad esempio, o dei figli dei miei amici, al mare, mentre fanno i tuffi, hanno lo stesso suono vivace e tintinnante di quando da bambini passavamo i pomeriggi ad arrampicarci pericolosamente sugli scogli. Che certe paure infondate, tipo le vertigini, non si placano o svaniscono nel tempo, e risalire a distanza di decenni su di una ruota panoramica non fa altro che risvegliare quella dimenticata sensazione di vuoto improvviso nelle gambe e i medesimi, paralizzanti, brividi nel vedere rimpicciolire a poco a poco la gente. Che nessun pudore o timore del giudizio altrui bloccherà mai il nodo alla gola che ti assale di fronte alla solita vista del tuo artista preferito, neanche quando ti avvicini troppo alla tela, per tentare di scorgere le pennellate, e l’allarme prontamente scattato nel museo fa voltare su di te gli occhi di tutti gli altri turisti. Che regalarsi degli attimi di totale e benefico nulla, tentare di sgombrare la testa ingolfata di preoccupazioni, recuperare fiato, energie, una dimensione vitale più umana e tollerabile rimane forse l’unico vero buon proposito da portarsi in valigia dopo le ferie. Tanto il tempo per tornare a parlare e a scrivere, più o meno a sproposito, quello c’è sempre.