Per colpa di un percorso professionale gratificante quanto tortuoso, intrapreso tempo fa privilegiando una passione impossibile da ignorare e snobbando con giovanile incoscienza proposte che mi avrebbero garantito al contrario maggiori certezze economiche e contrattuali, ma anche l’insopportabile noia dei giorni di lavoro tutti uguali a se stessi, da più di una dozzina di anni mi destreggio nell’atipica quanto affascinante carriera di storico del costume, barcamenandomi così tra (i rari) archivi di abiti presenti nei nostri musei, interessanti mostre sull’abbigliamento e qualche dignitosa, seppur non troppo significativa, pubblicazione in materia. Tutte occasioni grazie alle quali ho avuto la fortuna, spesso accompagnata da un terrore giustificabile e paralizzante, di toccare con mano centinaia e centinaia di creazioni originali o di accessori delle più varie epoche e provenienze, di studiarne a fondo fattura e dettagli, di scoprirne, talvolta con stupore, accorgimenti sartoriali nascosti e minuziosissimi, come tagli millimetrici o cuciture invisibili e certosine, interventi in apparenza insignificanti, in grado di determinare invece in ogni capo il giusto e necessario adattamento dell’abito stesso al corpo chiamato ad indossarlo. Giungendo peraltro di frequente, alla fine di ogni lavoro, alla medesima e forse scontata osservazione: in quanto a straordinaria compresenza di stile, femminilità, ricercatezza di gusto e di esecuzione, pochi altri periodi storici riescono a distinguersi nell’intero panorama della moda italiana del secolo scorso come gli anni Cinquanta. Epoca in cui, in realtà, il made in Italy, ancora agli albori e appena regolato da un sistema di presentazione a buyer e stampa antesignano di quello odierno (le famose sfilate alla Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze cominciate nel 1952), affacciatosi da poco sulla soglia di un mercato destinato a divenire di lì a breve dirompente, si basava però sull’eccellenza di singole realtà sartoriali presenti in diverse città. Nomi quali quelli di Emilio Schuberth, il couturier partenopeo amato da dive come Gina Lollobrigida e celebre per impreziosire spesso i propri abiti con tocchi pittorici, di Roberto Capucci, il creatore animato da una vocazione scenografica, spregiudicata e scultorea per la moda, delle Sorelle Fontana, il team familiare e creativo primo a conquistarsi il favore della clientela americana, hanno tutti contribuito a definire quell’unicità di eleganza quale prerogativa di un decennio irripetibile per lo stile come sono stati appunto gli anni Cinquanta.
Devono aver avuto lo stesso pensiero anche i potenti vertici di Alitalia, la compagnia aerea sorta nel 2014 dalle ceneri in cui era ormai ridotta, anche a causa delle note e tumultuose vicende giudiziarie, la ex compagnia di bandiera, oggi invece risollevatasi, almeno nel capitale, dal provvidenziale ingresso fra gli azionisti della Eithad Airways, di proprietà degli Emirati Arabi, attualmente al controllo di circa la metà (49%) dell’intero gruppo. E che con l’obiettivo forse di sottolineare il nuovo, e speriamo meno accidentato, corso dell’azienda, ha visto bene di ripartire da una mirata e massiccia operazione di restyling, lanciata in pompa magna sulla stampa di mezzo mondo, e volta a rinnovare il look del personale di bordo, da qualche settimana dotato dunque di fiammanti (ma non infiammabili, ci mancherebbe) e, diciamolo subito, criticatissime divise (nella foto la campagna pubblicitaria). Che, per carità, trattandosi della tenuta professionale pensata appositamente per hostess e steward, categoria da cui si pretende, oltre a cortesia infinita e miracolose capacità di placare all’istante le ansie dei passeggeri, un aspetto naturalmente impeccabile, non oseremmo mai immaginare come un qualcosa di troppo informale o kitsch, che so, una tuta di ciniglia, o una mise particolarmente sexy e provocante. Un tocco di modernità, anche minuscolo, escluso in toto dalla pesante e fin troppo coprente classicità della suddetta divisa, dal momento che siamo ormai abbondantemente approdati nel terzo millennio, di certo non avrebbe infastidito nessuno. Anche perché l’artefice della contestatissima collezione, Ettore Bilotta, stilista dalla rispettabile ma non memorabile carriera, almeno non quanto quella dei suoi predecessori incaricati in passato da Alitalia del medesimo compito (le stesse sorelle Fontana, Mila Schön o in anni più recenti perfino Giorgio Armani), si è prodigato per tentare di evidenziare nel proprio lavoro un voluto omaggio alla raffinatezza tipica degli anni Cinquanta. Dove questa si sia poi nascosta in quel tripudio di tonalità ispirate al tricolore e apparentemente abbinate un po’ a casaccio in divise mai così orrendamente retro, in quelle calze verde bosco che riuscirebbero a rendere il polpaccio di ogni donna simile a una pianta grassa, in quel cappellino che pare purtroppo un soufflé sgonfio poggiato sulla testa, non è dato di sapere. Forse all’interno del semplicissimo e chissà quanto utile borsone in pelle pensato come pendant dell’orribile completo, unico, salvabile dettaglio di un insieme che, ci auguriamo, non contribuisca ad aumentare la nausea di cui tanti già soffrono in aereo.