Se siete vittime, come me, di quella nuova forma di schiavitù tecnologica che vi impedisce di navigare in rete senza il sottofondo adeguato di decine di video musicali selezionati un po’ a casaccio da YouTube o di un qualche avvincente giochino per smartphone con cui trastullarvi per ore, in preda ad una sorta di trance ipnotica (nel mio caso un quiz di cultura generale che porta drammaticamente allo scoperto le mie penose lacune in matematica o scienze), avrete di sicuro notato in queste settimane lo spot “disturbatore” più presente, trasmesso e inflazionato, di quelli insomma da saltare in rapidità tramite il salvifico skip this ad, a pochi secondi dal loro inizio. Si tratta di una conturbante e naturalmente poco vestita Naomi Campbell che, a 45 anni suonati, sempre in cerca di nuove carriere da intraprendere e con cui forse rimpiazzare un domani quella sfolgorante e pluridecennale di top model, ha dato vita, insieme al brand di intimo Yamamay, ad una linea di sensualissimi e microscopici capi di lingerie, fanstasiosamente chiamata appunto #IAmNaomiCampbell (nel caso qualche spettatore distratto non l’avesse riconosciuta subito al primo fotogramma). Ciò che però è interessante verificare, come ho fatto io di recente in un dannoso sabato pomeriggio di shopping in compagnia di alcune amiche, è che la citata campagna, firmata dal fotografo Mario Testino, suscita, nella più generale opinione femminile, la quasi pressoché totale mancanza di empatia proprio con le stesse donne per cui gli indumenti sarebbero pensati, e questo appunto per l’ingombrante presenza della Campbell. Di fronte infatti alle vetrine che ospitano fior di gigantografie ritraenti l’indiscutibile e sempre statutaria bellezza della Venere Nera, i commenti più facilmente leggibili sulle labbra delle passanti si muovono spesso fra “sì, ma tanto è merito di photoshop”, “ormai non ha più un capello, non vedi la parrucca?” “quegli zigomi turgidi però non mi convincono”, e via dicendo. Chiamatela invidia latente, eccesso di attitudine alla critica facile, incontenibile insofferenza verso le creature dotate di corpicini flessuosi e armonici, ma Naomi piace poco alle donne, perché giudicata insopportabilmente perfetta, dunque un tantinello irritante, di sicuro troppo distante. Colpa della sua innegabile appartenenza alla ristrettissima e osannata categoria delle supermodel? Sbagliato, perché tra quel “vecchio” stuolo di bellezze irraggiungibili anni ’90, epoca in cui sulle passerelle incedevano volti più noti e forme più morbide, c’è chi si è invece distinta per essersi conquistata con successo anche la stima di molte donne (oltre che le attenzioni di molti uomini) con un espediente facile facile, guarda caso ribadito con insistenza tra le pagine di un curioso libro celebrativo, uscito proprio in questi mesi. Becoming (Rizzoli New York 2015, nella foto un particolare della copertina) è difatti il titolo dell’ultima fatica editoriale (se così si può dire) di Cindy Crawford, celeberrima, strapagata e splendida top, occasionalmente prestata (senza troppo successo) al cinema, la quale, quasi giunta alla delicata soglia dei 50 (cifra che compirà il prossimo 20 febbraio), ha scelto di riunire in un’unica, patinatissima, pubblicazione tutti i più famosi e accattivanti scatti (tra cui quelli indimenticabili di Herb Ritts, Helmut Newton, Peter Lindbergh) realizzati in quasi tre decenni di carriera. Tutti intervallati, o per meglio dire, quasi curiosamente collegati, da un’inaspettata serie di brevi dichiarazioni, aneddoti, mini – interviste, che paiono stridere con quell’immaginario di assoluta e inarrivabile perfezione restituito al contrario nelle immagini, quasi a voler calare il suo fascino abbagliante, sottolineato da quel piccolo e riconoscibilissimo neo sulle labbra, in una dimensione più umana, familiare, condivisibile forse da qualsiasi altra donna. Partendo da una lista di insospettabili (e inesistenti?) difetti, svelati nel tempo da affermazioni del tipo “combatto da sempre contro la mia cellulite” (evidente, no?) “ho le orecchie a sventola” (le avevate notate?) “spesso occorreva nasconderle nei servizi”, fino a tutta una di sorprendenti considerazioni sul tempo che passa: “magari potessi dire che sia facile per me invecchiare. I capelli grigi, le rughe, per una che fa il mio mestiere sono cambiamenti più duri da affrontare”. Aggiungendo infine “La gente ama nelle modelle ciò che non siamo. A volte dimentico che le mie immagini più famose non sono frutto della realtà, ma fanno solo parte dell’illusione di essere Cindy Crawford”. E come ipotetica risposta alla collega/rivale di allora, Linda Evangelista, che presuntuosamente affermava negli stessi anni di non alzarsi dal letto per meno di 10.000 dollari, stupisce al contrario imbattersi nelle pagine di Becoming in un assai più candido “Vorrei svegliarmi tutte le mattine somigliando davvero a Cindy Crawford”. Che, sospettiamo, sia stato un bel sogno espresso, forse ancora oggi, da milioni di altre donne nel mondo.