Non è il dettagliatissimo mansionario, pochi ma densi fogli contenenti la spiegazione scrupolosa di tutti i miei numerosi compiti da svolgere, che mi ritrovo a rileggere ogni sera con la necessaria calma prima di addormentarmi e con cui ho inevitabilmente finito per rimpiazzare il libro che tentavo invece di concludere da settimane, abbandonato per il momento senza riserve al capitolo sette. E neppure l’improvvisa e magnetica bellezza che si spalanca di fronte ai miei occhi increduli ad ogni angolo o passaggio segreto, in genere vietato al pubblico, esistente nello straordinario e secolare edificio in cui sono capitato, che il mio ultimo quanto inaspettato incarico mi permette al contrario di poter ammirare. La prima cosa su cui sono rimasto a riflettere per pochi minuti, in silenzio, nel mio nuovissimo ambiente di lavoro, l’ennesimo in cui a 29 anni suonati (da tempo) inauguro un’ulteriore tappa della mia incomprensibile e variegata carriera, è, al solito, il cartello ben visibile e un po’ singolare che trovo appeso nel bagno, e che recita “si prega di usare poca carta igienica” (come poca? cioè, uno ne usa quanto crede di averne bisogno, no?), insolito ma sicuramente migliore di quello che ricordo di aver visto una volta nella toilette di in una redazione e che esortava invece ad usare “esclusivamente” la carta igienica (come “esclusivamente”? cioè, non è che uno preferisca altre tipologie di carta per certi scopi, no?): dettagli in teoria insignificanti che però la dicono lunga su cosa catturi in realtà la mia bizzarra attenzione e rimanga poi impresso a lungo nella mia memoria, occupando il posto di tante altre informazioni sicuramente più utili. Ma tant’è: accantonata per il momento la pur gratificante esperienza milanese che avrei dovuto replicare proprio in questi giorni e optato al contrario, con serenità, per un ritorno nel più familiare ambiente museale fiorentino, ecco che mi trovo ancora una volta fare i conti con tutte le incognite, le perplessità e le speranze che un nuovo inizio professionale necessariamente comporta, cercando come sempre di tenere bene a mente i soliti buoni propositi che, conoscendomi, disattenderò in tempi brevi e che vado subito ad elencare:
- provare a placare quell’ansia insostenibile che mi tiene compagnia sin dal risveglio e che mi avrà pur impedito, in questa vita quasi trentennale, di essere giunto in ritardo una sola volta in tanti anni di lavoro, ma che attualmente mi obbliga a rimanere per alcuni interminabili minuti fermo come un baccalà a fissare la macchinetta dove strisciare il mio badge finché non scatta l’ora esatta prevista per l’inizio del mio turno.
- evitare a casa di radermi il viso mentre ascolto e canticchio la mia playlist di vecchi successi dance anni ’70, tipo Diana Ross o Donna Summer, perché poi la tentazione di ballarci sopra è sempre tanta e puntualmente va a finire che mi procuro piccole ma profonde ferite alla gola e al mento, che destano sempre un’insana curiosità sul lavoro e che non posso stare a spiegare senza risultare nell’opinione altrui un po’ picchiatello.
- riuscire a mentire anche con il volto, o almeno, ad accordare quel “no, figurati, nessun problema” che la mia voce riesce, non so come, a pronunciare alla perfezione, con un’espressione facciale che sia un tantinello più adeguata, perché è al momento prematuro mostrare in certi casi tutto il mio disappunto, che al contrario sembra sempre affiorare con chiarezza come se l’avessi tatuato a caratteri cubitali sulla fronte.
- vincere la mia personale resistenza all’uso delle chiavi minuscole che ho sempre detestato, tipo quella della cassetta della posta relegata da anni chissà poi dove, perché le bollette e le lettere le ho sempre recuperate infilando audacemente le dita con manovre serpentine e perché al lavoro invece devo riordinare e riconsegnare qualcosa come una dozzina di odiosissimi mazzi diversi.
- ripassare mentalmente tutti i nomi dei numerosi nuovi colleghi, che carinamente si sono presentati sin dal primo giorno mentre io ero troppo assorto a scrutarne i visi con tutti quegli interessanti particolari su cui in genere mi soffermo (la forma delle sopracciglia, il taglio di capelli, ecc.), e così mentre loro mi salutano già da un po’ con un affettuoso “Ciao Alessandro” io riesco solo a replicare più banalmente “Ciao…ehmm, mmmh..(come accidenti si chiama?)!”
- evitare soprattutto di affezionarmi, come spesso mi succede, proprio agli stessi colleghi appena menzionati, anche se mi ci vorrà ancora qualche settimana per impararne i nomi ma non per dar loro maggiore confidenza, perché in alcuni già riconosco persone a cui posso voler bene all’istante e perché tanto tra sei mesi, con tutta probabilità, dovrò ricominciare, in un altro posto, con altri, personalissimi e strampalati, buoni propositi da non rispettare.