Intravisto e poi di nuovo sparito, come un treno di passaggio che sfreccia troppo veloce davanti agli occhi fissi sul binario, quel briciolo di relax strappato con caparbia ostinazione alla maratona delle vacanze natalizie, rimasti in balìa di quegli odiosi chili da smaltire, dell’albero con qualche pallina ammaccata da smontare, dei primi, pessimi acquisti in saldo da rinchiudere nell’oscurità dell’armadio insieme ad altri simili sbagli conservati “perché, non si sa mai, potrei sempre indossarli”, rieccoci qui a fare un’altra volta i conti con tutti i nostri, puntuali quanto campati in aria, progetti e le nostre richieste più balzane che abbiamo già affidato speranzosi all’ignaro 2015. Il mio, a dire il vero, è cominciato con qualche stranezza di troppo che non dovrebbe peraltro più stupirmi, dato il generale andamento oscillante di questa mia testa liscissima fuori e intrigatissima dentro che, volenti o nolenti, si trova a gestire corpo (in espansione) e anima (da dannazione). Placata da qualche tempo, grazie a una piacevole e intima chiacchierata a tavola con il mio omonimo amico Alessandro, quell’ansia mista a panico che spesso si manifesta nella notte accompagnata dal placido pensiero “oddio, stavolta muoio”, riscontrati nelle sue parole gli stessi identici sintomi e le stesse, preoccupanti e infondate, paure, le mie nevrosi, persa forse quell’aura di esclusività che pensavano di possedere, hanno visto bene di migrare altrove, ricomparendo sottoforma di improvvisi attacchi claustrofobici che mi colgono in un qualunque spazio, a mio avviso sempre troppo denso di mura o di persone. Circostanza poco piacevole che di fatto mi costringe ultimamente a sgattaiolare fuori dalla metro tipo tre/quattro fermate in anticipo rispetto a quella più vicina alla mia meta, che tento poi di raggiungere con una non programmata (e talvolta lunghissima) passeggiata all’aperto, oppure ad uscire di corsa, sudaticcio, dal posto in cui sto mangiando, e senza neanche consumare il caffè (già pagato), perfino a dileguarmi dall’ufficio per rinchiudermi rapido in bagno ad affacciarmi snervato alla finestra, dove immancabilmente vengo intercettato dagli operai al lavoro sui ponteggi che ormai saluto con un gesto della mano, come fossero vecchi amici. Ma perché tormentarsi, in fondo anche quest’ultima manifestazione di scarso equilibrio psichico, ne sono certo, sparirà proprio come tutte le altre, magari stavolta senza essere neanche rimpiazzata da nuovi e più paralizzanti timori: in fondo l’anno con le sue stimolanti incognite è appena cominciato, l’oroscopo pare sorridere al mio segno e non sono neanche riuscito ad introdurre degnamente la mia scrupolosissima lista di buoni propositi per il 2015 che avevo intenzione di propinarvi in questo post e che vado di seguito ad aggiungere:
- Studiare un po’ di norme pratiche e legali di navigazione, perché pur discendendo da una famiglia di marittimi da generazioni non ho mai provato a cimentarmi nell’ambito, perché nonostante quel mare dove sono cresciuto, che tentavo da bambino di disegnare consumando tutti i pennarelli blu, sia l’unico posto in cui mi senta veramente a casa, so a malapena tenere in mano due remi, e perché un domani vorrei anche acquistare una barchetta con cui scendere a pescare nelle sere d’estate.
- Sperimentare dei piatti che mi richiedano un maggior tempo di preparazione e che mi facciano finalmente scoprire il piacere della cucina, io che mi spazientisco sempre troppo di fronte ai fornelli, che reputo ore sprecate quelle in attesa dell’acqua che non sembra mai bollire o del dolce infinitamente lento nel cuocere, e che mi rassegno a guardare i miliardi di programmi tv sull’argomento con lo stesso vivace interesse che di solito mi suscitano i necrologi sui quotidiani.
- Accettare serenamente il fatto che 29 anni (giorno più, giorno meno) non sono mica più 19, che le energie soprattutto non sono le stesse, che se nella medesima giornata mi ostino a volerne far troppe poi non è un delitto rincasare e rimanere almeno un’ora a guardare il soffitto, stremato, senza sensi di colpa perché non sono più riuscito ad andare a correre, ora che sto esaurendo tutte le possibili scuse al riguardo (il freddo, quel dolorino fastidioso al ginocchio, le scarpe troppo basse, etc).
- Smetterla di irritarmi se in un posto in cui entro per la prima volta mi si rivolgono subito con il tu, perché forse siamo rimasti in pochi ad apprezzare quella desueta e distante educazione del lei, che fa un po’ secolo scorso in certi locali pubblici. Cercare anche di non arrabbiarmi se dopo mezza parola pronunciata, fosse anche “salve” o “ciao”, mi puntano subito tutti sorridenti l’indice, aggiungendo “toscano, eh?”, e poi attaccano soddisfatti quella noiosissima solfa della “Coha – hola con la hannuccia horta horta”. Ah, e imparare a chiedere da bere una Pepsi, che almeno non ha le C.
- Trovare una nuova definizione, meglio se inglese, per il mio settore professionale e per le mie competenze, perché alla domanda “tu cosa faresti/saresti?” la risposta, per quanto corretta, “lo storico del costume” suscita sempre sguardi compassionevoli, perfetti se rivolti a un animale in estinzione, che so, un cucciolo di panda. Evitare però le formule Fashion expert o peggio Fashion blogger che nell’opinione comune equivalgono sempre al “vagabondo/mantenuto/nullafacente”, “bravo sì, facile occuparsi di moda, sì, con tutti i veri problemi che ci sono in questo Paese!”
- Trovare un nuovo lavoro, meglio se in linea con il mio settore professionale e le mie competenze, ora che, giunto quasi alla conclusione di questa ultima, imprevista e soddisfacente esperienza milanese, mi sento pronto come non mai a rimettermi in gioco, grazie all’energia ottenuta dal misurarmi con una città e con un ambiente in cui credevo di non riuscire a sopravvivere per più di un giorno o due. E soprattutto spostare questo proposito in cima alla lista, che la tanto sognata barchetta per pescare, in qualche modo, un domani, la dovrò pur riuscire a pagare.