Ennji ha origini coreane, il dono naturale di infondere un’irresistibile dolcezza in ogni parola o movenza, la rara eleganza di chi sa distinguersi anche solo indossando una maglia a righe marinare e pantaloni spruzzati qua e là d’oro, oltre a qualche dubbio sulla mia vera età, che mi fa ripetere almeno tre volte appena mi siedo di fronte a lei, conquistandosi così da subito tutta la mia totale e vanitosa simpatia. Giorgio, suo marito, nome ribadito da una buffa scritta campeggiante su un berretto di lana che arriva a nascondergli le sopracciglia, parla velocemente e con un curioso accento del nord, inconsueto per le mie orecchie, mentre ci tiene a precisarmi che la zona dove ci siamo conosciuti per caso durante il mio primo ape milanese (che sta per aperitivo, perché qui tutte le parole si abbreviano, ma è un concetto su cui torneremo) è la più in voga al momento per i giovani dediti alla movida cittadina, forse dimenticando la mia non più esatta appartenenza alla categoria e ignorando di sicuro la mia profonda natura pantofolaia, piuttosto refrattaria alla folla. Gigi invece, maremmano come me in trasferta per lavoro nel capoluogo lombardo, ha parole di entusiasmo nel descrivermi la sua nuova vita quassù “perché poi, nel week-end, con un’ora di auto sei già in montagna o al mare” lasciandomi così intendere che il suo apprezzamento è rivolto soprattutto alla possibilità di pianificare delle fughe frequenti dalla grigia e snervante piattezza di questo cielo, spesso del medesimo colore denso e opaco che ha l’acqua nel secchio una volta lavati i pavimenti. Melisa, gentile e colta giornalista che nel nome sembra già riassumere la sua straordinaria e raffinata sensibilità, tenta di confortarmi con la sincera ammissione di tornare con piacere da queste parti dove ha vissuto per lungo tempo e dove ha conosciuto persone ancora oggi fondamentali nella sua vita, placando così in parte quella mia smania insensata di trovare in breve tempo nuovi amici, tarlo che si accompagna ai miei lunghi e detestabili momenti di solitudine, spesso arginati con dannose quanto consolatorie dosi massicce di cioccolato fondente. Tra questi pensieri strampalati dunque, rivolgendo a chiunque incontri quello stupido ma per me essenziale quesito “cosa ami di Milano?” mi butto già alle spalle il primo, faticoso, mese in questa città, la terza nel giro di soli cinque anni in cui mi trovi, quasi per caso, dopo Roma e Firenze, a soggiornare e a lavorare, con un preoccupante movimento ascensionale che mi fa temere di dover riscuotere un giorno la mia (magra) pensione in un qualche paese scandinavo dalle temperature rigide e dalla fioca e deprimente luce diurna, io che al contrario ho sempre sognato una serena e soleggiata vecchiaia in costume e ciabatte, in riva al mare.
Non che poi mi manchino i motivi per apprezzare Milano, sia chiaro: a cominciare dalla sua proverbiale ed indiscutibile efficienza, estesa, ad esempio, a tutti i mezzi pubblici, la stessa che mi fa sgranare gli occhi di fronte all’affermazione scandalizzata della signora che sbotta indignata alla fermata dell’autobus “è una vergogna, dieci minuti e ancora niente!”, io che, memore di interi pomeriggi nel resto d’Italia buttati in attesa di un qualsiasi mezzo puntuale, sarei ormai rassegnato ad ingannare quel tempo familiarizzando con gli altri speranzosi individui incontrati sotto i tabelloni degli orari. Più incomprensibile, semmai è il ritmo forsennato che tutti sembrano tenere senza batter ciglio, sin dalle prime ore del mattino, correndo letteralmente su e giù per i marciapiedi senza sosta, lo sguardo fisso verso l’infinito o in basso ipnotizzato dallo smartphone, come se non esistesse altro modo di spostarsi in città, che sia un tantinello più rilassato o anche solo umano. Macché, niente, avanti, si trotta, e guai a intralciare il passo altrui con un’andatura non altrettanto rapida, si rischia di essere travolti o scalzati del tutto, soprattutto nella necessaria operazione di assalto all’affollatissima scala mobile della metro, pericolosa pratica collettiva, per adeguarmi alla quale, arrivo sempre al lavoro con troppo anticipo e sono costretto a fare due giri a vuoto dell’isolato, perché di fermarsi in strada alcuni minuti, ed essere così additato come il vagabondo di turno, non se ne parla. Senza considerare poi che il mio ufficio si trova nei pressi di via Montenapoleone, in pieno quadrilatero della moda, zona pullulante di creature impeccabili e impomatate, quasi sempre vestite di nero (“te l’avevo detto di indossare solo black minimal!” tuona infatti la mia amica Chiara al telefono), mentre io, aggirandomi fra loro con ancora l’impronta del cuscino sullo zigomo, i miei maglioncini verde menta o rosa salotto di Barbie, le camicie a quadri da taglialegna appena stirate, sembro piuttosto un clown intrufolatosi per dispetto in un corteo funebre. E poi c’è la stramba parentesi linguistica: perché il tempo, risorsa da non sprecare mai nei propri spostamenti, pare vada risparmiata anche nel pronunciare le parole, quelle maggiori di due sillabe irrimediabilmente troncate a metà. Ho assistito dunque inerme a espressioni del tipo “sono in para(noia)”, “non mi fare una svioli(nata)”, con apoteosi finale incarnata dalla fanciulla che mi sale per sbaglio su un piede con il suo stivaletto dal tacco rinforzato e poi si scusa con un “oh, mi disp(iace)!” affermazione che non sono riuscito a controbattere, in parte per il dolore, ma soprattutto per la sua spiazzante incomprensibilità. Per il resto dei termini, va da sé, è preferibile accantonare l’italiano e servirsi del corrispettivo inglese, anche solo se ci si trova a parlare di description, action o qualunquealtradannatacosapurchéfiniscainition, con una predilezione per l’acronimo a.s.a.p. (as soon as possible), diffusissimo tra chi, come chiunque del resto a Milano, ha fatto della fretta la propria intima cifra stilistica. “Sei un fashion blogger anche tu?” mi chiede infine Maddalena, mamma, giornalista, scrittrice, professionista insomma dalla tipica propensione al multitasking, forse prezioso appannaggio di chi nasce e cresce lungo i Navigli, “beh, non così fashion, a dire il vero, il mio blog non ha tutto questo appeal!” “hai detto appeal? ti starai mica adattando alla parlata milanese?” Oddio, di già?