A stuzzicare la mia, ormai nota, curiosità è stata soprattutto quella scelta singolare del titolo. Con un ossimoro così ben confezionato, forte di una stringente e contrastante dualità, a chi come me ha imparato solo con il tempo a convivere, sdrammatizzandone gli effetti, con le proprie ossessive stramberie, quelle parole sembravano infatti fin troppo calzanti per non buttarsi a capofitto nella visione di una storia in cui poter, forse, ritrovare qualche traccia della stessa, imperfetta e rocambolesca, umanità. Aspettativa, questa, che la pellicola in questione, apprezzata e apprezzabile, non delude affatto: perché Diario di un maniaco perbene, primo, fiabesco eppur verosimile lungometraggio di Michele Picchi, proprio in questi giorni nelle nostre sale cinematografiche, è una commedia fresca e rassicurante, che, dosando garbo, tenerezza e ironia, tratteggia uno spaccato di una quotidiana e, allo stesso tempo, speciale esistenza, perennemente in conflitto con le proprie, inevitabili, voragini interiori e il desiderio di non lasciar trasparire all’esterno le più profonde o lievi incrinature dell’anima. Quelle, naturalmente, con cui si trova a fare i conti l’inquieto e stralunato protagonista, Lupo (Giorgio Pasotti), pittore quarantenne travolto da una sotterranea crisi personale e artistica, acuita da un approccio a tratti spiritosamente voyeuristico nei rapporti con il variegato universo femminile che lo circonda e da cui, talvolta, rimane irrimediabilmente turbato. Debolezza che tuttavia non gli impedisce di attirarsi sempre, e in parte di subire, le simpatie e gli apprezzamenti degli altri, invadenti o stravaganti, individui che gli ruotano attorno, a cominciare dai pochi amici, forse sinceri ma non altrettanto disinteressati, passando per una ex ancora asfissiante, preda di un catastrofico vittimismo sociale, fino ai vicini, calorosi e bizzari, tutti in qualche maniera sensibili ai suoi modi fin troppo cordiali e alla sua apparente linearità di condotta. Già, perché solo lo spettatore viene reso partecipe del sottile dramma, se così si può dire, presente nella testa di Lupo, leggibile tra le righe di quel travolgente flusso di pensieri all’origine di una vita più immaginata che vissuta, imperniata su una continua fuga dalla realtà per supposta inadeguatezza, la stessa che gli fa spesso accarezzare l’idea di un suicidio plateale, senza mai prenderla veramente in considerazione. Tutto sembra dunque scindersi per contrapporsi o per continuare a viaggiare su binari paralleli: la Roma “caciarona” e un po’ becera che il protagonista pare solo apprezzare dall’alto dei tetti, al rifugio nel suo appartamento sgangherato, i silenzi che seguono la gentilezza di un sorriso e che nascondono invece grovigli di riflessioni, i difetti di un’identità travagliata, invisibili a chi si ferma alla piacevolezza della superficie e che emergono dirompenti invece nei momenti di piena solitudine. Gli unici tra l’altro caratterizzati da una necessaria e spiazzante sincerità, altrove unicamente affiorata nel tenero rapporto di Lupo con la nipote, una bambina di nove anni, la sola di fronte a cui il portagonista sembra finalmente non temere l’eventuale ridicolaggine dei suoi comportamenti. Un film delicato, surreale ma concreto, consigliabile a chiunque, soprattutto a chi crede che nella vita, come in un qualsiasi altro gioco, non si tratti semplicemente di vincere o di perdere ma di provare almeno a imparare le regole.