Contrasti e paradossi sono il vero motore stilistico della moda, il terreno alle base di tutte le trasformazioni più radicali nel gusto, la sola chiave di lettura per comprendere ogni principale rivoluzione estetica in materia di abbigliamento. Solo nel corso del secolo scorso, ad esempio, i creatori annoverati tra le maggiori personalità che hanno contribuito, con la loro visione innovativa, a modificare i canoni di un ideale di femminilità in perenne mutazione, nel ridefinire sul piano dello stile il concetto stesso di donna, hanno attinto a piene mani, in maniera apparentemente assurda, proprio dalla moda maschile. Coco Chanel nel suo processo di semplificazione formale degli abiti femminili traeva continua ispirazione dalla più elementare struttura dei capi ideati per gli uomini, a Yves Saint Laurent si deve invece il merito di aver reso lo smoking, il completo simbolo dell’eleganza maschile, un richiamo di assoluta sensualità per le donne. Per non parlare dei tailleur e delle giacche di Giorgio Armani, superbi esempi di rigorosa raffinatezza e cross – road tra generi, o della camicia bianca, classico passepartout onnipresente nel guardaroba di ogni uomo, divenuta tra le mani di Gianfranco Ferré un pretesto per dar luogo, in ogni sua collezione, ad un immaginifico processo di reinvenzione della silhouette femminile. Ad omaggiare e a rendere giustizia al formidabile contributo dell’architetto della moda, scomparso nel 2007, e alle sue geniali creazioni, che l’hanno distinto nel panorama contemporaneo e non solo, della couture, è oggi una mostra, “La camicia bianca secondo me”, inaugurata lo scorso 1 Febbraio al Museo del Tessuto di Prato (http://www.museodeltessuto.it/il-percorso-espositivo/esposizioni-temporanee/la-camicia-bianca-secondo-me-gianfranco-ferre, fino al prossimo 15 Giugno) voluta e organizzata con il supporto della stessa Fondazione Gianfranco Ferré. Ventisette strabilianti e fantasiose interpretazioni della camicia bianca, ideate nei suoi quasi trent’anni di attività, in cui la semplicità di struttura di partenza del capo viene ogni volta rifuggita e messa in discussione, in un processo creativo teso a dilatarne o riscriverne componenti e dettagli (polsini, collo, maniche) in un’arditezza di forme e volumi difficile anche solo da poter immaginare. Perché le creazioni di Ferré sono un’esplosione di creatività, sono meduse, nuvole, geyser, sono architetture rampicanti che si appropriano dei corpi per ridisegnarne la fisicità nello spazio, sono pezzi scultorei che mescolano riferimenti storici, epoche e stili, facendoli convivere in un insieme di straordinario ed insolito equilibrio. Così come chiariscono anche i numerosi bozzetti originali, gli scatti delle riviste patinate e le proiezioni delle sfilate che fanno da contraltare all’intera esposizione, tra cui si distinguono le immagini del direttore artistico Luca Stoppini (foto), che nel loro singolare effetto a raggi x forniscono un diverso piano di lettura strutturale e un punto di vista totalmente inedito sulle stesse camicie in mostra. E per quanto si possa rimaner amareggiati dalla notizia, diffusa quasi in concomitanza con l’inizio dell’esposizione, della definitiva chiusura della stessa maison Gianfranco Ferré (http://www.iltempo.it/cronache/2014/03/02/il-marchio-ferre-chiude-i-battenti-1.1225205) poter ammirare nuovamente le sue idee in tutta la loro energica potenza significa anche prendere consapevolezza di come una simile genialità sia impossibile da rimpiazzare.
Archivio mensile:marzo 2014
Assenza mezza bellezza!
Spot 30″ di Poltronesofà con Sabrina Ferilli – YouTube.
Questa, con ogni probabilità, sarà la recensione peggiore che vi capiterà di leggere su di una pellicola meritevole in realtà di pareri ben più illustri ed autorevoli, i quali ovviamente, si sono già scomodati al riguardo, non sempre in maniera tenera né unanime a dirla tutta. Ma si sa, i critici, quelli veri, devono per forza (o forse per contratto) sputare un po’ di veleno, pena non essere considerati dei seri professionisti. La differenza (e il vantaggio) nell’aggiungere qui anche la mia bislacca opinione all’oceano di reazioni, forse spropositate, che “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino – da pochi giorni premio Oscar come miglior film straniero – ha incredibilmente sollevato, sta nel ribadire, nel caso ce ne fosse bisogno, la natura tutt’altro che prestigiosa e competente di questo spazio, così come la già declarata frivolezza dell’autore e la sua colossale (e vergogonosa) ignoranza in materia di cinema. Premesso che non oserei mai addentrarmi nel merito della recente vittoria agli Academy Awards (evidentemente se una giuria di esperti l’ha decretata, aggiungendolo alla breve lista degli italiani premiati con lo stessi riconoscimento nel tempo, si tratta senza dubbio di un film di qualità, e dovremmo rallegrarcene tutti) l’avevo già pregustato lo scorso anno al cinema, incuriosito dai commenti contraddittori e dalla critica nettamente divisa in due sul valore stesso dell’opera di Sorrentino. E ne ero uscito un po’ frastornato: né entusiasta, né disgustato, avevo piuttosto apprezzato l’inizio energico e roboante, l’abbagliante minuzia della fotografia, lo sviluppo della storia fin verso la metà, per poi clamorosamente smarrirmi (e a tratti annoiarmi) nella seconda parte. Insomma, l’avevo liquidato in fretta con un “Ni. Sì, cioè, forse interessante. Ma non credo di averlo capito del tutto”. Perché può succedere che una pellicola non ci seduca fino in fondo, o non arrivi a convincerci, ma dovrebbe anche sorgerci il legittimo dubbio che forse non siamo in grado di comprenderla davvero, di coglierne ogni spunto o riferimento, di riconoscerne eventuali citazioni o rimandi. Ma, al solito, è sempre più rapido, comodo, diffuso dar luogo a commenti feroci, come abbiamo visto questi giorni, da esperti improvvisati, che riuscire a fare, talvolta, della sana autocritica. Poi, finalmente, a poca distanza dagli Oscar, la messa in onda de “La grande bellezza” in tv, e anche io, che ormai non festeggio più martedì grasso da quando a diciotto anni ammutolii un’intera discoteca, travestito da ballerina di charleston, come milioni di italiani decido di rimanere a casa per riguardarlo con maggiore e necessario scrupolo.
E qui la prima sorpresa. Perché non lo ricordavo. O meglio, avevo rimosso tutta la lungaggine della vicenda finale, quella della “Santa” e delle presenze inquietanti che le ruotano attorno, compresi i fenicotteri, di cui ancora mi sfugge il profondo significato (nel caso ce ne sia uno!). Ed il motivo era che mentre il film continuava a scorrere, io mi ero fermato a rimuginare sull’improvvisa, frettolosa e in parte ingiustificata scomparsa del personaggio più accattivante, struggente, vero, dell’intera storia, quello della spogliarellista Ramona/Sabrina Ferilli. Che in mezzo alla ripugnante antipatia radical chic degli altri ruoli e al restante contorno di squallore mondano, aveva finalmente introdotto una nota di calda umanità, velata di una malinconia fragile e decadente, con cui risultava impossibile non simpatizzare all’istante. Considerato poi che non si tratta in questo caso della Ferilli popolana ma gioiosa vista in tanti spot (video allegato) o quella in versione sexy e un tantinello trash del famoso strip per lo scudetto della Roma e dei fortunati calendari, ma di una raffinata quanto toccante prova da attrice di sorprendente talento. Ho perfino pensato che l’inspiegabile morte di Ramona/Sabrina nella trama, che piomba sugli spettatori senza un chiarimento sul suo tragico destino, inserendo magari un fotogramma con una stanza di ospedale o una lapide, che so, anche con una sola lacrima versata da chicchessia, fosse in realtà dovuta a una lite burrascosa con il regista durante la lavorazione del film, che è arrivato così a farla fuori all’improvviso. Ipotesi che sono tornato a prendere in considerazione vista la sua discutibile assenza, lamentata su tanta stampa dalla stessa Ferilli, alla citata notte degli Oscar (http://qn.quotidiano.net/spettacoli/cinema/2014/03/03/1033994-oscar-grande-bellezza-ferilli.shtml). Perché io, Sabrina, alla cerimonia di consegna dell’ambita statuetta, l’avrei senz’altro portata. Primo, per dimostrare agli americani che oltre Sofia Loren (chiamata infatti quindici anni fa per la premiazione di Roberto Benigni) forse qualche altra valida maggiorata nel cinema ce l’abbiamo ancora. Ma soprattutto perché se “La grande bellezza” di cui si parla è chiaramente e volutamente assente in tutto il film di Sorrentino, alla Ferilli va riconosciuto il merito di incarnarne quel poco che c’è e per cui varrebbe la pena guardarlo.