Dangerously in love?

Nessuno che si sia azzardato a sbilanciarsi ammettendo di averci creduto, anche solo per poche ore, nessuno che abbia voluto dichiararsi così ingenuo, sprovveduto, boccalone (termine che forse non comprenderete tutti, perché molto in auge nella mia Maremma ma difficile da trovare così spesso altrove. Però esiste sul serio, già verificato sul dizionario) da non capire che si sia trattato soltanto dell’ennesima bufala mediatico – sentimentale “tirata sicuramente fuori per fare un po’ di pubblicità a San Valentino, che da quando c’è la crisi non lo considera più nessuno” (interessante teoria sostenuta con fermezza dalla cassiera del mio supermercato di fronte a tre anziane e inorecchite clienti). Però concedetemi di insinuarvi il dubbio: e se fosse semplicemente vero? Non voglio dire che lo sia, so bene quanto voi che il presidente degli Stati Uniti, l’uomo forse più potente e più minacciato al mondo, si trovi già abbastanza costretto a fare i conti con una tale e asfissiante valanga di impegni che il riuscire a includervi anche un’amante, da tenere poi necessariamente ben nascosta alla consorte, alle figlie, ad altre centinaia di persone che si aggirano di continuo alla Casa Bianca, sarebbe un compito più gravoso dell’intera lotta al terrorismo internazionale. Soprattutto se l’amante in questione non fosse stavolta una banale seppur giovane stagista, alla Monica Lewinsky per capirci (e non veniamo a cavillare sul fatto che non sia neppure corretto usare per la signorina Lewinsky la definizione di amante “tout court”. Non è che lei e Clinton trascoressero il tempo nella stanza ovale giocando esattamente a freccette), ma nientepopodimeno che una supersexy e altrettanto celebre, se non di più, popstar mondiale. (Perdonatemi ma qui devo aprire per forza un’altra parentesi su mio padre, che l’altra sera mi ha chiamato appositamente per chiedermi “Ma chi è ‘sta Beyoncé? E’ famosa?” e io “Certo, è quella…” e giù con tutte le indicazioni possibili per fargli focalizzare la fanciulla. “Ah, ho capito”, mi fa dopo venti minuti di spiegazioni dettagliate al telefono “ma non si chiamava Rihanna?”).

Dicevamo: lo strombazzatissimo ed esplosivo gossip, sgonfiatosi poi come un paracadute al suolo nel giro di meno di 24 ore, del presunto, segreto e scottante flirt fra l’attuale presidente Usa Barack Obama e la ex Destiny’s Child Beyoncé Knowles, che ha tirato perfino in ballo autorevoli testate giornalistiche (come il Washington Post, affrettatosi difatti a smentire) e provocato imbarazzanti dietrofront dei suoi assertori (il paparazzo francese Pascal Frontain) per quanto chiaramente inconcepibile, è però riuscito ad eclissare di colpo su qualsiasi sito o social network tutte le altre ben più (importanti e) fondate notizie (http://www.ansa.it/web/notizie/photostory/primopiano/2014/02/10/Scoop-Usa-relazione-Obama-Beyonce_10047355.html). Per un semplice motivo: sarebbe una coppia davvero perfetta. E non fingete di non averci neppure pensato. Sì, d’accordo, c’è il  dettaglio, tutt’altro che trascurabile, che entrambi siano già (pare) felicemente coniugati e peraltro arricchiti di graziosa prole di contorno. Poi, insomma, Michelle è una tipa senza dubbio in gamba, piace (soprattutto alle donne), osa (soprattutto nel look), era inoltre da tempo che una first lady non riusciva ad ottenere un consenso così ampio ed unanime da parte di stampa e cittadini. Mentre Jay – Z, il rapper passato nel 2008 dallo status di storico fidanzato a quello di amorevole maritino della sensualissima Beyoncé, per quanto entrato di diritto nella top ten dei cantanti più famosi e pagati negli States, in quanto ad avvenenza e carisma è sempre rimasto un gradino (ma anche due o tre) dietro alla più affascinante consorte. Obama invece, con quel diretto e bianchissimo sorriso buca-schermi, quei modi così sicuri e disinvolti, quella sottile fierezza tipica di chi è arrivato in alto ma ci tiene ad apparire modesto, sarebbe, almeno come impatto estetico, all’altezza della presupposta e procace amante. Anche perché, diciamocelo, tutti i precedenti (e anche recenti) casi del genere su questo punto mostravano sempre un evidente squilibrio di immagine a svantaggio, ahimè, della parte maschile; cominciando proprio dall’algida Carla Bruni, che forse non eccellerà in simpatia, ma, anche se adesso sospettosamente ritoccata, non si può negare superi nettamente in bellezza (e in altezza) il marito, l’ex – presidente francese Nicolas Sarkozy. Per non parlare poi di François Hollande, attualmente in carica all’Eliseo, che sembrava sparito dalle pagine dei nostri giornali fino a quando la stampa scandalistica ne ha intercettato la relazione clandestina con l’attrice Julie Gayet (più giovane di 18 anni e naturalmente incantevole) a scapito della compagna Valérie Trierweiler (per la quale aveva lasciato, dopo 30 anni e 4 figli, Ségolène Royal. Un recidivo). So che non sarebbe sufficiente questa congettura superficiale per avvalorare l’eventuale relazione tra Obama e Beyoncé, che suona assurda almeno quanto un flirt casereccio tra il nostro Napolitano e Orietta Berti. Ma assurdo per assurdo: proprio in questi giorni Hollande è in visita ufficiale alla Casa Bianca, sicuri che sia soltanto una coincidenza?

Mal Comune?

▶ Dj Angyelle feat. Cladì & Curio 247 – It’s Up To Me – YouTube.

Detesto le generalizzazioni, il parlare per grandi gruppi, estendere i ragionamenti includendo diverse classi di individui quando poi sarebbero i singoli individui, proprio in quanto singoli, a fare la differenza. Riconosco però che quando si tratta di affrontare in toto la categoria “italiani” esistono dei pregi e dei difetti collettivi in cui, peccando forse un po’ di superficialità e approssimazione, bene o male dimostriamo quasi tutti, senza troppi sforzi, di possedere alcune precise caratteristiche appartenenti a un ventaglio di comportamenti, reazioni o risorse, presto riconoscibili come “peculiarità nazionali”. E lo scenario politico di questi giorni, le accese modalità di discussione o di vero e proprio scontro che hanno trasformato il parlamento italiano, nelle ultime settimane, in uno squallido campo di battaglia, è purtroppo soltanto l’ennesimo esempio di una delle nostre peggiori qualità, l’inettitudine al dialogo. Prescindendo dalle ragioni o dai torti, dalla classica frase a cui si ricorre come solita, inoppugnabile, giustificazione, quel “hai cominciato prima tu”, che ogni cittadino adulto dotato di senno dovrebbe aver abbandonato con la fine delle elementari, i toni deplorevoli con cui si è svolto il recente dibattito politico, hanno prodotto soltanto l’effetto deleterio di sviare il necessario confronto dai contenuti a favore di milioni di digressioni su una forma irrispettosa e inaccettabile. Parole vergognose come “boia”, “squadristi”, “stupratori”, così come i ceffoni sonori volati tra parlamentari o la ripugnante pratica dei libri dati al rogo non dovrebbero esattamente rientrare nella prassi quotidiana con cui si conduce una normale e civile discussione, ma farci innanzitutto gridare allo scandalo, muovere la nostra indignazione, spero non addirittura farci rimpiangere una vecchia conoscenza decaduta che apostrofava qualche illustre collega straniera come “culona inchiavabile” (lungi dal me il rimpiangerla, sia chiaro). Macchè, niente, tolleriamo senza battere ciglio o addirittura difendiamo a spada tratta, acriticamente, qualsiasi uscita fuori luogo o pesante insulto proveniente dalla parte politica che ci rappresenta per il solo fatto che ci rappresenta, senza metterne in discussione il valore, la decenza o piuttosto il loro esserne del tutto privi. Succede inoltre, in questo Paese che ha fatto del paradosso e della contraddizione la sua cifra stilistica più riconoscibile, che quando invece ricorriamo al sarcasmo e all’ironia – e in questo, come popolo, abbiamo talento da vendere – per mettere alla berlina innanzitutto noi stessi, per sorridere in maniera catartica dei nostri mali e delle nostre pecche, per sbeffeggiare i nostri vizi imperanti, ecco che allora si sollevano inutili polveroni mediatici sul caso, si scatenano reazioni spropositate rese ancor più vivaci da un’energia e da un piglio battagliero che in altre, più importanti, circostanze rimangono invece sopiti. Vado a riassumere l’ultimo, eclatante episodio: c’è un piccolo comune di 50.000 abitanti, Nichelino, in Piemonte (fino a pochi giorni fa noto soprattutto per ospitare il celebre complesso sabaudo della Palazzina di caccia di Stupinigi), il cui sindaco decide di mettere a disposizione gli spazi del proprio municipio come set in cui girare un videoclip musicale (video allegato). Il brano, It’s up to me, un motivetto disco orecchiabile firmato Dj Angyelle con la partecipazione della cantante Claudia Padula, in arte Cladì, ha in realtà il suo punto di forza nelle immagini del video stesso, un piccolo capolavoro di satira in cui si prende in giro un po’ di tutto: l’inefficienza e la fannullaggine dei dipendenti pubblici (la stessa che ci irrita ritrovare in ogni puntata de Le Iene), i ricatti, i mezzucci e gli intrighi di palazzo, ma soprattutto la vanità dei politici piacioni che si lasciano sedurre da belle e provocanti fanciulle, appoggiandone la carriera (e qui c’è mezza storia recente d’Italia). Apriti cielo: immediate le proteste da parte dei comuni limitrofi così come degli esponenti dello stesso partito e della giunta regionale che chiedono l’immediato ritiro del video, (http://www.affaritaliani.it/cronache/nichelino-video-hard-comune060214.html), accusato di essere sconveniente, offensivo, addirittura hot, mentre non si placa la bufera sul sindaco (che tra l’altro compare in coda nei ringraziamenti della clip stessa) per aver permesso un simile oltraggio al decoro istituzionale del posto. Peccato che il video non sia, alla fine, né troppo osé, così come tanta stampa sembra sostenere, né particolarmente volgare, in ogni caso sempre meno di tutto ciò che siamo abituati da tempo a vedere in qualsiasi trasmissione tv, dal quiz pomeridiano al noioso talk show politico. Peccato constatare, in conclusione, che siamo di fronte alla solita bravura, all’italiana, di riuscire a polemizzare a oltranza sul nulla. In questo, dobbiamo ammetterlo, non abbiamo rivali in tutto il mondo.

Quando una stella muore…

Philip Seymour Hoffman winning Best Actor – YouTube.

Con una prevedibilità e un cattivo gusto di natura semi – universale, inclini allo stesso modo a sollevare la più annichilente banalità di reazioni come a legittimare una successiva quanto macabra ossessione per certi inutili e trascurabili dettagli, il repertorio di comportamenti collettivi in caso di prematura, tragica e scioccante scomparsa di un volto noto dello spettacolo – ogni volta più simile, a dire il vero, all’ennesimo, interminabile e noiosissimo déjà – vu – si compone sempre di alcune chiare e specifiche fasi, peraltro ben individuabili. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, è il triste e sfortunato caso di Philip Seymour Hoffman, straordinario attore hollywoodiano trovato morto solo qualche giorno fa nel suo appartamento di New York, drammatica vicenda divenuta anch’essa paradigmatica di un irritante e superfluo atteggiamento generale che si sta trasformando in una pessima consuetudine quando si ha a che fare con certe dinamiche di diffusione e fruizione delle notizie. Perchè, quell’inspiegabile dispiacere che coglie più o meno chiunque di fronte alla morte in giovane età di personaggi celebri, lo sgomento per l’improvvisa e inaspettata scomparsa di un viso che il grande schermo o qualunque altro media ci ha reso familiare, (seppur mai incrociato durante la nostra tranquilla esistenza condotta dall’altra parte del pianeta), sembra che adesso debba necessariamente passare attraverso il conoscere il maggior numero di particolari possibili sulla sua dolorosa fine (meglio se fornendo una cospicua quanto raccapricciante dose di dettagli morbosi). Non vorrei peccare di eccessiva semplificazione o vestire i panni del moralista da quattro soldi che si scaglia contro il mal costume dei “tempi moderni”, quando in realtà si è sempre un po’ indugiato in casi del genere, forse per tentare una maggiore presa sul pubblico, nell’accentuare il “lato oscuro” di simili vicende. L’impressione però è che adesso, da quando cioè la rete ha permesso più o meno a tutti di colmare le proprie lacune pseudoculturali in ogni campo con la rapidità di un clic, chi tradizionalmente detiene il compito di informare sui fatti (leggi stampa e dintorni) tenda a farlo secondo modalità piuttosto deprecabili.

Vado al sodo, servendomi proprio della storia di Hoffman per esemplificare il mio, forse astruso, ragionamento: comincia a circolare la notizia della morte di un attore, il nome però non dice granché, così lungo poi, meglio cercarlo su Google (come si scriverà mai?), ah, eccolo, sbucano anche le immagini, sì, il viso non sembra del tutto nuovo, accidenti in quale film era? forse somiglia perfino a qualche altro attore, ma dove diamine si sarà visto? Nel frattempo migliaia, forse milioni di utenti web, che hanno ripercorso esattamente le stesse azioni, vanno già diffondendo ed annunciando su ogni possibile pagina di ogni possibile social il loro cordoglio, la loro commozione, compreso il solito teatrante che arriva sempre a sostituire la propria immagine del profilo con quella del personaggio appena deceduto (chissà con quale utilità poi). Per carità, fra tutti ci sarà anche chi è stato sinceramente un accanito fan della prima ora, ma insomma, distinguerlo adesso nel mare magnum di esperti di cinematografia che affiora d’un tratto in un paese in genere dedito alle commedie di Vanzina è piuttosto arduo. Quindi se da un lato il tragico fatto rimbalza dappertutto amplificato alla velocità di fulmine, dall’altro tv e testate online si prodigano nel confezionare i propri servizi sul personaggio in questione, nelle teoria delle intenzioni più esaustivi, nella pratica dei fatti ovviamente non limitati a ripercorrerne la carriera (leggibile ovunque, anche sulle pagine dell’80% dei tuoi contatti) ma infarciti di uno scontato e avvilente contorno. In ordine, in coda a quello che in gergo si chiama coccodrillo (l’articoletto strappalacrime post – mortem) si ritrovano così: 1) l’immancabile pezzo sulla “maledizione” di un talento e di una fama difficili da gestire (con annessa digressione su eventuali abusi di droga e alcol 2) la carrellata di volti noti, partendo dalla metà secolo scorso fino all’altro ieri, vittime di un simile destino (per capirci, cominciando da Marilyn Monroe per finire a Whitney Houston) 3) il video a riprova della vita comunque difficile del vip e/o la sfortunata coincidenza con un altro evento altrettanto drammatico. Nello specifico, lo stesso video qui allegato, risalente alla premiazione di Hoffman come miglior attore protagonista nel 2006 per il film Truman Capote, ricomparso su gran parte della stampa di questi giorni per sottolineare la presenza, nella medesima rosa di candidati di allora, di un altro attore prematuramente scomparso, l’australiano Heath Ledger. E’ forse doveroso riproporre perciò le stesse immagini per leggerle da un punto di vista diverso, per un ricordo più rispettoso di tanti particolari affiorati questi giorni sulla vita privata dell’attore e spacciati per tracce di una sua vulnerabile umanità: quello di uno straordinario e singolare interprete, di cui spesso si sbagliava il nome, che conclude commosso il discorso più importante della sua carriera ringraziando semplicemente l’anziana madre.