Le persone che, come me, vantano un rapporto privilegiato con il mare, perchè nate in una località, come la mia, in cui ogni minima variazione di colore o di stato di agitazione di quella sconfinata superficie d’acqua all’orizzonte influisce inevitabilmente sull’umore della gente o sui ritmi delle loro giornate, o perchè discese da una famiglia, come la mia, per cui solcare le onde rappresenta da generazioni la principale risorsa di lavoro (tradizione che mi sono guardato bene dal voler seguire) si riconoscono da due fondamentali e universali caratteristiche. La prima è una sorta di reazione inconsapevole, un atteggiamento così inevitabile, radicato, invisibile soltanto a chi, cresciuto in campagna come in città, ha disposto di ben altri scenari come sfondo per la propria esistenza, che consiste nell’ostinarsi a ricercare con gli occhi, di fronte ad un qualsiasi e diverso panorama, seppur altrettanto mozzafiato – profili sinuosi di colline, agglomerati di edifici, montagne innevate – sempre ed esclusivamente il mare. Anche se in maniera razionale sai bene che lì, a 3500 metri di quota dove magari stai trascorrendo la tua settimana bianca o nel punto più alto di quella città che stai visitando, sparsa su chilometri di quartieri che si distendono concatenati a perdita d’occhio, la vista del mare equivarrebbe ad un miraggio o ad una preoccupante allucinazione, ogni altro paesaggio continua ad apparirti comunque soffocante, claustrofobico, addirittura incompleto senza la tua visione abituale di una rassicurante distesa d’acqua salata. L’altra prerogativa che contraddistingue chi è cresciuto giocando a tirare i sassi dalla riva o tentando, con incoscienza, il primo bagno della stagione a Pasquetta, riguarda quella famosa storia dell’avvicinare una conchiglia all’orecchio per riuscire a distinguere il rumore stesso del mare: ecco, chi continua a farlo con convinzione, statene pur certi, non è una persona abituata a soffermarsi, anche solo per qualche minuto, ad ascoltarne veramente la voce. Perché quel sibilo muto che può riprodurre da vicino il guscio di qualche mollusco, molto più simile in realtà al fruscìo di un citofono guasto o al verso di un qualche animale notturno in lontananza, non ha nulla a che fare con quel musicale e ipnotico fragore provocato dalle onde spezzate dal vento o che arrivano a infrangersi dolcemente sulla riva. Che poi è la melodia di cui sento ancor oggi una mancanza dolorosa nonostante i miei quasi vent’anni di frenetica vita cittadina, che almeno una volta al mese abbandono senza riserve e senza rimpianti proprio per disporre anche di un solo pomeriggio in cui poter passeggiare in solitudine o sedermi in silenzio di fronte al mare, unici momenti in cui anche un essere superficiale e materialista come me arriva a pensare di possedere forse una sua spirtualità, una sorta di anima da dover coccolare ogni tanto. E per quanto non esista alcuna valida alternativa o surrogato efficace che possano sostituirsi alla piacevolezza e alla necessità di una simile esperienza, mi sento di consigliarvi questa recente scoperta, che non è ovviamente paragonabile all’ascolto in presa diretta del vocìo delle onde o della natura in generale, ma che rispetto al fastidioso rumore dei clacson o al caos assordante su cui si affacciano spesso case e posti di lavoro, può forse essere d’aiuto per recuperare relax e concentrazione. Si tratta di un sito, Noisli (http://www.noisli.com/), nome derivato da noise, rumore in inglese, ma ideazione tutta italiana (la sua mente è un giovane designer di Treviso, Stefano Merlo) che si presenta come un semplice generatore di suoni naturali, da selezionare tra quelli presenti sul menu (“mare”, ma anche “vento”, “foglie”, “ruscello”, etc) e riprodurre come sottofondo musicale da tenere in casa o al lavoro. Nato solo 5 mesi fa ma utilizzato già da oltre 5 milioni di utenti web in tutto il mondo, grazie anche ad una grafica minimal di immediata comprensibilità, Noisli associa i benefici della scelta del suono a quelli della cromoterapia, mutando ciclicamente i toni del proprio sfondo con colori che rilassano la vista; il tutto prevedendo, a breve, anche il lancio di una simile app per smartphone e tablet. Molto più comoda e funzionale, forse solo meno romantica, di una vera conchiglia raccolta in riva al mare.
Archivio mensile:febbraio 2014
Ma si’ nato in Italy!
Per anni si è parlato di lei come di una delle poche donne in grado di tenere testa, in quanto a talento e successo, all’apparente strapotere dei suoi colleghi maschi, in un periodo in cui, agli albori del prêt – à – portér, il mestiere di stilista sembrava quasi esclusivo appannaggio degli uomini. Per lungo tempo è stata considerata tra le personalità più colte, lungimiranti e innovative dell’intero settore della moda, lei che tra i primi, insieme a Missoni e a Walter Albini, decise di eleggere Milano, all’epoca nascente realtà industriale italiana, come vetrina ideale per la presentazione e la produzione delle sue collezioni, voltando così definitivamente le spalle a Firenze. Da un paio di giorni invece il nome di Krizia, o meglio, quell’ingegnoso pseudonimo, scovato in un dialogo di Platone sulle vanità, dietro cui si cela da sempre l’identità e l’intenso lavoro di Mariuccia Mandelli, 60 anni di attività nel fashion – system, un impero da circa 200 milioni di euro l’anno e centinaia di punti vendita sparsi nel mondo, dalle Antille all’estremo Oriente, ha tenuto di nuovo banco su tutti i giornali, non tanto per la coincidenza con le note settimane della moda, quanto perché si tratta (purtroppo?) dell’ultimo, eclatante caso di una prestigiosa griffe nazionale finita in mano di una qualche holding straniera (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2014/02/24/Krizia-passa-cinesi_10138742.html). Ritrovandosi ad ingrossare così le fila, insieme ad altri storici marchi italiani come Gucci, Valentino, Bulgari, Fendi, Emilio Pucci, delle maison del lusso passate sotto il parziale o totale controllo di società estere, in grado di rivitalizzarne quotazioni in borsa e capitale, ma che, forse, in nome del profitto, ne mortificano la storia o ne sacrificano, inevitabilmente, l’identità. Considerato soprattutto che nel caso di Krizia, brand che in anni recenti riusciva ancora a distinguersi per scelte all’avanguardia – come la prima trasmissione di una sfilata in streaming sul proprio sito o l’apprezzata collaborazione con giovani designer come Alber Elbaz, Giambattista Valli, Gianluca Capannolo e Fulvio Ruggiero – non si tratta di una cessione o di un passaggio ad uno storico gruppo francese, che, almeno, in fatto di moda potrebbe vantare un’altrettanto rinomata tradizione, ma all’azienda cinese Shenzen Marisfrolg Fashion, di proprietà della fondatrice, Zhu ChonYu, che si troverebbe dunque a ricoprire il doppio ruolo di presidente e direttore creativo. Per capire davvero con quali risultati occorrerà attendere ancora un anno, quando verrà finalmente presentata la prima collezione Krizia di nuova ideazione, quella per l’autunno/inverno 2016, che ci auguriamo non stravolga del tutto la fantasia e l’arditezza tipica delle note creazioni del marchio. Alcune delle quali, come i celebri capi dai tessuti metalizzati ispirati allo skyline di New York o le copiatissime maglie raffiguranti creature feline esotiche e dirompenti come in una tela di Ligabue, pare siano state selezionate, proprio in questi giorni, per l’imminente mostra sulla storia del made in Italy in programma al Victoria and Albert Museum di Londra, The Glamour of Italian fashion 1945 – 2014, (http://www.vam.ac.uk/content/exhibitions/exhibition-the-glamour-of-italian-fashion-1945-2014/), curata dalla storica Sonnet Stanfill, artefice di uno straordinario lavoro di ricerca tra gli archivi di numerose case di moda nazionali durato svariati anni. Il risultato è un’esposizione concepita come un viaggio articolato attraverso l’affermazione di un’industria e di un gusto ancora oggi riconosciuti a livello mondiale, dalla nascita del concetto stesso di moda italiana, alla fine del secondo dopoguerra, all’indiscusso apice del fenomeno, alla seconda metà degli anni ’70 (grazie a nomi quali Giorgio Armani, Gianfranco Ferré, Gianni Versace), fino a giungere ai nostri giorni, in cui gli stilisti paiono ritornati ad una condizione di semi-anonimato, offuscati dal peso e dall’ingombro del nome stesso del brand. Sempre che, di qui al 5 Aprile, data in cui è prevista l’inaugurazione della mostra, non si aggiunga qualche altra azienda storica a quelle per cui, le parole made in Italy, come Krizia, abbiano assunto ormai solo il sapore di un glorioso e nostalgico passato.
App – erò!
Se non ci fosse da riderci su, la questione alcune volte potrebbe trasformarsi per me in un vero e proprio dramma. Il fatto è che non conosco affatto mezze misure. Diciamo pure che sono vittima di alcuni meccanismi di natura maniacale che spesso riescono a prendere del tutto il controllo della mia testa, e non facendo io dall’inizio alcun tipo di opposizione, mi lascio tranquillamente guidare ogni volta sul ciglio di circoli viziosi, dall’apparenza innocua, che in breve tempo si trasformano invece in veri e propri tunnel di dipendenza, di cui riconosco la pericolosità troppo tardi, quando ormai vi sono definitivamente annegato. Per fortuna non si tratta (quasi) mai di abitudini poi così nocive o letali: le droghe, ad esempio, non mi hanno mai neanche lontanamente incuriosito, ma non escludo che, se cominciassi, mi troverei sulla strada della più misera perdizione nel giro di dieci, al massimo venti giorni. Ecco, forse è proprio questo il punto: se sperimento una qualsiasi cosa da cui riesco a trarre anche il minimo piacere o divertimento, questa assume immediatamente le sembianze della mia nuova fonte di beatitudine, un’occupazione o una fantasia prediletta in cui mi butto a capofitto tralasciando senza pudore qualsiasi altro impegno o incombenza, un’urgenza e una priorità che non lasciano più spazio ad ulteriori attività. Ed è sempre stato così, sin da bambino: se avvertivo nascere una nuova passione per un argomento studiato a scuola, l’assecondavo fino a conoscerne tutto lo scibile, passando intere giornate sui libri, a sviscerarlo sotto ogni suo aspetto, anche secondario, per saperne di più dei miei stessi insegnanti. Stessa cosa per lo sport (che ho abbandonato anni fa, lasciando libera la natura di compiere il suo passaggio distruttivo sul mio corpo): iscritto a un semplice corso di nuoto, il mese successivo ero in vasca, ogni giorno, anche il sabato, a dimenare bracciate come un forsennato per ore e svariati chilometri. Quando poi mi sono dato alla corsa, ho sfidato quotidianamente strade sconnesse, salite e intemperie, ma non riuscivo a rinunciare neppure di fronte alla follia di un giro in pieno inverno, sotto la pioggia scrosciante, a orari adesso improponibili. Per non parlare del cibo: capacissimo, ancora oggi, di divorare in pochi minuti e senza pentimenti, intere scatole o stecche di cioccolato (meglio se fondente), quando poi decido di mettermi a dieta arrivo a perdere peso al ritmo di 5/6 kg al mese (mai più preso un simile slancio però, neanche ora che ne avrei un gran bisogno). Inutile aggiungere che simili pulsioni, di colpo, vengono poi impunemente abbandonate dal sottoscritto da un giorno all’altro, senza peraltro una vera ragione. Non si tratta ovviamente di tirar fuori un improvviso e salvifico rigore, qualità del tutto assente in questo mente bizzarra, né di forza di volontà, mai posseduta neanche a sprazzi, né tantomeno di self control, risorsa preziosa di cui avrei invece disperata necessità ogni volta che mi sfuggo. Più banalmente, a un certo punto, mi stufo. E ciò che fino a un minuto prima mi appariva così insostituibile o irrinunciabile esaurisce dunque il suo potere magnetico ai miei occhi, i quali di sicuro andranno altrove in cerca di qualcos’altro con cui rimpiazzarlo. Circostanza che al momento aspetto accada con la mia attuale passione culinaria, la marmellata di zucca, che, manco a dirlo, divoro barattolo dopo barattolo, e che mi ha reso di nuovo, come in tutti i casi precedenti, una creatura quasi del tutto monofaga.
Sul podio delle mie recenti ossessioni di questi anni, che almeno non incidono sull’ordine degli acquisti al supermercato o sulle mie drastiche oscillazioni di peso, è salita con sorpresa un’irrefrenabile quanto al momento totalizzante dipendenza da social network e app. Eppure non mi ritengo un essere particolarmente predisposto o dedito in generale al mondo della tecnologia: ho imparato a fatica a far funzionare un pc, a suon di imprecazioni e “fatal error”, e compro un nuovo telefonino solo in caso di necessità, dopo uno smarrimento, un furto o quando di sua iniziativa decide di tuffarsi nella pozzanghera più profonda di tutta la provincia (il tutto ovviamente già accaduto). Ma dal giorno della mia sciagurata iscrizione a Facebook, ad esempio, da cui non sono riuscito a staccarmi più di dieci minuti, anche la notte, per le prime tre settimane, continuo imperterrito a condividere con i miei amici frasi sceme, link musicali e foto di dubbio gusto con un ritmo spasmodico, che ha del preoccupante. Poi è arrivato il momento di Twitter: che mi aveva stimolato con l’illusione di poter conversare o interagire con personaggi noti o che ammiro profondamente, i quali, in tutta risposta, nel migliore dei casi invece mi ignorano, nel peggiore riescono perfino a mortificarmi o massacrarmi in soli 140 caratteri. Capitolo a parte merita la mia ultima mania, lo scambio di messaggini tramite Whatsapp: piattaforma con cui divulgo informazioni basilari (come la lista della spesa o i milioni di inutili emoticon che inoltro al mio amore), oppure tengo monitorata, tramite assillanti richieste di foto, la crescita dei figli dei miei amici, soprattutto vengo sommerso da quel disgraziato di mio cognato da una quantità impressionante di video, spesso hard, che cancello all’istante prima che mi partano a tutto volume in bus o in treno. Con il risultato che ad ogni vibrazione vera o presunta che pare giungermi dalla borsa, arrivo a controllare compulsivamente, ogni sei secondi, il telefono, in attesa di quel simpatico dischetto verde foriero di un qualche nuovo messaggio in arrivo. E adesso che l’app è stata acquistata qualche giorno fa dall’onnipresente Marc Zuckerberg, artefice dello stesso Facebook, per la modica cifra di 19 miliardi di dollari (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2014/02/19/Facebook-compra-WhatsApp-19-miliardi-dollari_10109224.html) operazione che l’ha reso, di fatto, il proprietario di tutto ciò che possiedo sul mio cellulare, ad eccezione di agenda, calcolatrice e sveglia, ho come l’impressione che dovrei moderare o troncare del tutto la mia dipendenza, per evitare di dare in pasto ulteriori dettagli sulla mia vita privata a qualche squalo della comunicazione. Sarà ormai troppo tardi? Anche per iscrivermi di nuovo in piscina?
Che musica, maestro!
Stromae – Tous Les Mêmes – YouTube.
Sinceramente credo di vivere in un Paese straordinario, un Paese che racchiude tutto il proprio, innegabile fascino nella sua natura incomprensibile e contradditoria, nel suo lento muoversi come un gigantesco carro di carnevale tra la folla, come una sorta di creaturona animata da meccanisimi oscuri o vagamente intuibili, occultati a dovere dalla spettacolarità di un volto grottesco e attraente al tempo stesso. Un Paese, che, forse timoroso di sprofondare nella noia più cupa i propri cittadini, i quali, insomma, di motivi per lagnarsi ne avrebbero già accumulati una scorta abbondante anche per le prossime due decadi, ha visto bene di prendere l’abitudine, così, tanto per rallegrare la scena, di fare e disfare governi almeno una o due volte l’anno, anche se quello uscente, fino al giorno della sua caduta seminaspettata, veniva dipinto come perfettamente funzionante o almeno sostenuto da una qualche credibilità internazionale o da larghi consensi. Che poi, era quello che avevamo appunto pensato, perché in tanti ce l’avevano raccontata così, del lavoro apparentemente scrupoloso portato avanti dall’ex – premier Enrico Letta, il quale, si è ritrovato all’improvviso a pagare con la sua stessa testa, forse, l’imperdonabile scivolone mediatico di aver presenziato alle Olimpiadi invernali di Sochi nella Russia omofoba di Putin, unico, al momento, contestatissimo episodio della sua recente carriera politica. Ma si sa, agli occhi di un’opinione pubblica che a parole difende strenuamente i diritti della comunità omosessuale, quando poi forse ripristinerebbe volentieri i roghi, certi passi falsi appaiono inaccettabili, e per fortuna che a consolidare l’immagine di un’Italia più gay – friendly e tollerante c’abbia pensato Vladimir Luxuria, grazie al suo folle quanto eroico sventolare una bandiera arcobaleno nello stesso complesso olimpico (gesto per il quale è stata poi fermata e allontanata). A questo punto sarebbe logico attendersi come reazione numerose parole in lode e in difesa della ex – parlamentare spese dai suoi connazionali: macchè, molte più le critiche piovute su di lei, guidicata “irresponsabile”, “egocentrica”, senza contare inoltre i terribili insulti fioccati su tutte le pagine dei social network, dove il complimento più carino che le è stato fatto è “assomiglia alla moglie di Renzi (e in effetti)”!
Ah, già, sì, Renzi, il nostro “premier in pectore”, come ci ricorda quotidianamente ogni tg in apertura: che dire, non facciamo i disfattisti, proviamo almeno dargli un briciolo di fiducia iniziale. Certo che se riesce davvero a far tutto quello che (ci) promette, all’impressionante (e poco credibile?) ritmo di una riforma al mese, a Settembre avremmo già risolto i problemi che c’affliggono da oltre venti anni. E dopo che facciamo? Voglio dire, mica siamo abituati alle dinamiche di un Paese che funzioni sul serio. Vedremo. Tanto, tutte le nostre previsioni di politologi da strapazzo, in cui ci trasformiamo noi italiani ad ogni terremoto in parlamento, sono già state accantonate in favore della nostra anima da critici musicali che emerge di fronte ad un ben più importante evento di questi giorni: il festival di Sanremo. Che, appena cominciato, tra contestazioni, canzonette e mostri sacri della spettacolo (parlavo ovviamente della Carrà) ha già catalizzato l’attenzione di tutti, compresi quelli che si ostinano a dichiararsi immuni dalla diffusissima dipendenza da palco dell’Ariston (e poi si rinchiudono di nascosto per un’intera settimana, la sera, a casa, sul divano). Proprio a voi allora dedico la chiusura di questo post, dandovi quelle due nozioni in più sull’ospite straniero dell’ultima serata (in genere abbastanza sconosciuto), in modo da farvi bella figura di fronte ai vostri amici che avrete di sicuro invitato a casa per la finale del Festival. Trattasi di Stromae (video allegato), pseudonimo (ottenuto dall’inversione delle due sillabe di “maestro”) dell’artista belga 29enne (lui sul serio, mica come me) Paul Van Haver, padre ruandese e madre fiamminga, che ha già scomodato paragoni eccellenti, dalla gestualità di Jacques Brel al trasformismo di Grace Jones. Qualità che il cantante dimostra senza dubbio di possedere nel video Tous les memes, cliccato oltre 20 milioni di volte solo su YouTube, nel quale, travestito per metà da donna, si muove in un balletto memore di Thriller di Michael Jackson, sulle note di un brano che suona come una dura condanna di tutte le discriminazioni di natura sessuale. Tema, che come abbiamo già ampiamente dimostrato proprio in queste ultime settimane, a noi italiani sta particolarmente a cuore.
That’s amore!
▶ Everything But The Girl – Missing (Official) – YouTube.
La verità è che adesso non saprei davvero cosa dire. La verità, forse triste, se vogliamo un tantinello limitativa di certe pregorative, specie per chi si vanta con insistenza, come me, di lavorare con le parole, sistemandole in frasi non sempre di senso compiuto, è che in certi casi mi riscopro del tutto privo di fantasia. La verità è che per quanto stralunato, spesso astruso, talvolta non proprio ancorato a questo mondo, non riesco minimamente a inventare, a scrivere di qualcosa che non conosca, almeno in parte, in prima persona, a tradurre in testi situazioni senza alcun appiglio con la mia banale quanto sorprendente realtà quotidiana. La verità (e poi cambio incipit, lo prometto, perché questo avrebbe stufato anche me) è che avevo già pronto, perché confezionato con scrupoloso anticipo, un post di tono romantico (o quasi) da pubblicare a San Valentino, peraltro concluso in tempi brevissimi rispetto ai miei più che rilassati standard: ma ne era uscito un ritratto così intimo, anche se volutamente ironico, della mia vita di coppia, che in tutta sincerità non me la sono più sentita di affidare alla rete un simile racconto, perché mi è parso d’un tratto molto più importante condividerlo solo in due. Ed è successo che, come non avveniva da tempo, quelle parole intenzionalmente nate per una diversa divulgazione, che avrebbero forse strappato un sorriso a qualcuno di voi, si siano invece trasformate di colpo ai miei occhi in qualcosa di molto più prezioso delle mie inutili velleità di blogger fintosaputello fintosimpatico, assumendo da quel momento le sembianze uniche di un originale e fortunamente apprezzato regalo per la mia dolce metà. Eppure non abbiamo mai avuto negli anni la benché minima tentazione di scambiarci un pensiero o di festeggiare in altro modo il San Valentino: non che ci sia nulla di male nel farlo, sia chiaro, il fatto è che San Valentino è la festa di “tutti” gli innamorati, una data così spersonalizzante, generica, priva di quel gusto esclusivo di qualcosa avvertito come solo e soltanto nostro. Tra qualche giorno invece cadrà il nostro anniversario, il…esimo (e non specifico ulteriormente). Una cifra che in genere suscita negli altri commenti carichi di uno stupore prevedibile, che vanno dal “eh? impossibile!” al “ma siete matti?” e che comincia a fare un po’ impressione anche a me: soprattutto perché non mi sembra affatto trascorso tutto questo tempo.
Sì, certo, se guardo indietro, agli inizi della nostra storia, mi rendo conto che sia passata, per certi aspetti, un’era geologica: all’epoca io andavo in giro acconciato con una coda di cavallo in stile Fiorello prima maniera, mettevo solo camicie sgargianti, alla Formigoni, e in discoteca il brano più ballato era la canzone qui allegata (video) finita, inevitabilmente, per diventare anche la nostra canzone. Abitavamo lontani, e per non far lievitare le rispettive bollette telefoniche ci chiamavamo quasi sempre da cabine pubbliche (location oggi estinta), esaurendo schede su schede, perché la parola “cellulare” si usava solo per definire il furgoncino blindato dei Carabinieri. Oppure ci scrivevamo: né email né sms, naturalmente, ma lettere, centinaia, che conservo ancora oggi in una scatola, tutte maniacalmente divise per data, in cui ci raccontavamo nei dettagli ogni nostra giornata, nascondendo così, tra aneddoti e pessime battute, l’ansia di rivedersi presto. Era forse da allora che non scrivevo qualcosa solo per il mio amore: perché negli anni la crescente complicità, il vivere ormai da tempo sotto lo stesso tetto, il riuscire a capirsi al volo anche solo sgranando gli occhi o storcendo da un lato la bocca ne hanno a poco a poco smorzato la necessità per far spazio ad altre, ed altrettanto importanti, esigenze. Ed ero certo che sarei comunque ritornato a parlare della mia vita privata, perché il punto, alla fine, se vogliamo, è sempre lo stesso: come si fa a descrivere un sentimento universale prescindendo da ciò che si vive sulla propria pelle, come riuscire a dare la giusta voce ad un’emozione collettiva senza prima decifrare ciò che significa per noi stessi? Siamo sicuri che le diverse fasi di una storia, la semplice attrazione degli inizi, le note “farfalle nello stomaco” o i “batticuori” di un primo innamoramento, il crescente senso di responsabilità reciproco di una relazione che si consolida sulla conoscenza, la fiducia, la stima nell’altro, corrispondano alle stesse sensazioni per tutti? Non ho certo una simile presunzione, conosco bene però quello che nella testa e nel petto avverto come amore: quell’inspiegabile mix di accoglienza, serenità, completezza, sorpresa e soddisfazione che provo ancora oggi quando ci svegliamo insieme al mattino, Ed è ciò che auguro anche ad ognuno di voi, di provare, per questo San Valentino.