Lunga vita agli spot!

Fonzies XXL Concorso (Spot 40”) – YouTube.

Devo smetterla di lamentarmi dell’autunno. A dire il vero, dovrei piantarla di lagnarmi in genere, ma insomma, se già riuscissi ad evitare quei ciclici piagnistei stagionali, in cui di solito mi smarrisco tra Ottobre e Novembre e che poi riprendo con altrettanto impeto diciamo verso metà Marzo, avrei già compiuto un enorme progresso (è poi non è che possa diventare d’un colpo perfetto, così, quasi per magia, considerati soprattutto i 29 anni di difetti che mi trascino alle spalle). Anche perché, per quanto già riconosca in pieno tutte le avvisaglie dell’imminente tracollo psicofisico che mi abbatte umore e spirito fino al cenone di Natale (occasione in cui viene sedato da massicce quantità di cibo e di alcol) devo confessare che questo inizio di stagione mi sta riservando non poche gradite sorprese. Inaspettate e incoraggianti proposte professionali, volti e nomi che riemergono da un passato a volte remoto, piccole, quotidiane ed assidue gratificazioni personali, come il numero sempre crescente di utenti che, spinti chissà da quale (inspiegabile?) pulsione, scelgono liberamente (spero) di seguire questo blog, nonostante le condizioni di semiabbandono in cui versa, talvolta, per giorni interi. Solo ieri, ad esempio, invece del solito fuggi fuggi domenicale, a cui sono ormai da tempo abituato, causa principale di lunghi pomeriggi festivi scanditi da un’affluenza pressochè minima, si è sfiorata al contrario la cifra record di quasi 450 visitatori, un numero che trovo impressionante, viste le dimensioni modeste di questo progetto, la sua fama che non si estende al di là di amici/familiari/colleghi e soprattutto la scoraggiante assenza di un nuovo post. Segnale, forse, che la noia di quelle interminabili e piovose domeniche autunnali non coglie solo me, con la differenza che io ho tutto da guadagnare dalle vostre giornate di sbuffi e cazzeggio online, spese a curiosare in rete in cerca di chissà cosa (lungi da me suggerirvi un’alternativa, continuate pure a trascorrere il vostro tempo qua sopra).

Tutto ciò senza considerare che questo autunno 2013 ha preso l’avvio con una quantità eccezionale di notizie, eventi e frivolezze da gossip spicciolo, spesso tra l’impensabile e il ridicolo, che nella mia testa perennemente in moto equivalgono a una straripante ondata di materiale a cui poter attingere per dare sfogo in queste pagine a tutta la mia irrequietezza stagionale, incanalata così in qualcosa di concreto, non proprio utile, ma finalizzato ad un po’ di sana evasione, quello forse sì. Mi ritrovo così ad avere semplicemente l’imbarazzo della scelta su chi o cosa scagliare le mie superficiali invettive da blogger finto-tuttologo; il quale, considerato il delicatissimo momento politico in cui quest’Italietta si ritrova per l’ennesima volta, preferisce evitare riflessioni su defunti partiti che rinascono dalle proprie ceneri – più come zombie che come la leggendaria araba fenice – pseudoministri dimissionari, crisi di governo, di stabilità, di nervi collettiva che mi auguro prima o poi ci riporti alla piacevolezza antica di quei bei tempi rivoluzionari in cui tante questioni si risolvevano con una bella ghigliottinata in piazza e via. Ci terrei invece a dire la mia su quel vespaio sollevato dalle considerazioni, più retrograde che inopportune, di un noto imprenditore del settore alimentare il quale, in un’intervista radiofonica, con arroganza e ingiustificabile leggerezza ha dichiarato di non essere intenzionato ad inserire famiglie omosessuali nei suoi spot perché preferisce avere come target la famiglia “tradizionale”. Premesso che a stupirmi è stata la gravità di un’affermazione così anacronistica per un uomo d’affari di questo millennio (che dimostra tra l’altro di non capire un’acca di marketing per sottovalutare l’incidenza del pubblico gay), che forse non si è reso ben conto di produrre pasta e biscotti, prodotti per gustare i quali sono necessari una bocca, dei denti, una lingua e un apparato digerente funzionante (attrezzatura identica, fino a prova contraria, in esseri di qualsiasi orientamento sessuale) ma santiddio, fai pubblicità con Banderas e una gallina: non c’è un uccello di troppo rispetto alla tua tanto celebrata famiglia “tradizionale” (sto parlando della gallina, naturalmente)? Forse una lezione in questo senso può giungergli dall’ultimo spot dei Fonzies (video allegato), 40 secondi di  divertente doppio senso che scuotono una tranquilla località della profonda provincia italiana, in cui luoghi comuni e personaggi tipici di un qualsiasi paesino (il barbiere, la sartina, il sacrestano), quanto di più “tradizionale” si possa immaginare, sono dissacrati, strumentalizzati, messi al servizio dell’ironia del messaggio finale. Una pubblicità anticonvenzionale, efficace, che sfiora la volgarità senza cederle il passo; indice che forse, almeno in tv, sta prendendo finalmente piede una realtà meno bacchettona. Aspettando che arrivi anche altrove, a cominciare dalla tavola.

Demolition girl

▶ Miley Cyrus – Wrecking Ball – YouTube.

A me suscita tanta tenerezza. Non sto scherzando, è davvero ciò che provo ad ogni sua apparizione. Ogni volta che le vedo sbattere, ad esempio, quegli enormi occhioni azzurri, strabordanti di mascara, nel goffo tentativo di restituirci una pessima imitazione di uno sguardo ammaliante o sexy. Quando osservo le sue foto, quasi sempre poco e mal vestita, mortificata da abiti di un eclatante cattivo gusto (mai pensato di licenziare lo stylist?) congelata in pose innaturali e volgarotte, maldestramente atteggiata sui red carpet di tutti i più noti eventi musicali, davanti ad obiettivi impietosi, che ne ritraggono la pressoché totale mancanza di sensualità. Non so come spiegarlo, ma mi prende un’incontenibile, quasi fraterna, voglia di raggiungerla, porgerle un accappatoio, sussurrarle “Dai, copriti, lo vedi che non è il caso”, darle un’amichevole pacchetta sulla spalla, due pizzicotti alle guance, suggerirle “adesso andiamo a casa, ti sciacqui il viso, ti rimetti quel grazioso vestitino a fiorellini e torniamo qua, contenta?”. Perché se ti è toccata in sorte la (s)fortuna di cominciare giovanissima la tua carriera in quella fucina di talenti a stelle e strisce che è il Disney Channel (lo stesso da cui poi sono partiti Britney Spears, Christina Aguilera, Justin Timberlake…l’equivalente, per numero di volti sfornati, del nostro Non è la Rai, ma con meno gnocca), se devi parte del tuo successo a quell’immagine di brava ragazza americana, un po’ in salute, tutta sorrisi bianchissimi e vitamine, non è che di colpo ti puoi improvvisare una trasgressiva bad girl e pretendere di risultare per giunta credibile. Eppure qualcuno dovrebbe spiegarglielo a Miley Cyrus (all’anagrafe Destiny Hope Cyrus, per chi pensava che certi nomi fossero solo appannaggio di Brooke di Beautiful), ventenne cantante/attrice/produttrice/già milionaria, figlia d’arte (papà Billy Ray è uno dei tanti, da noi sconosciuti, cantanti country capelloni), esplosa come fenomeno planetario nella serie tv Hannah Montana e ora in cerca di nuova gloria come più matura (e più svestita) icona pop. Non basta ossigenarsi o rasarsi a zero i capelli (azione peraltro già tentata, più fortunosamente, dalla stessa Britney in uno dei suoi impeti schizofrenici), ricoprirsi ovunque di numerosi e insulsi tatuaggi, simili a scarabocchi, leccare voluttuosamente un martello (un martello? ma ti sembra erotico?) e volteggiare in mutande o completamente nuda in groppa ad una palla da demolizione, che guarda caso, è anche il titolo dell’ultima hit (video allegato). Mi spiace, ma da tempo siamo abituati a ben altro: ai torbidi tweet di Rihanna intenta a rollarsi sigarette sospette, alla genialità di Lady Gaga tutta rivestita di braciole, per non parlare dell’insuperata Madonna, che da decenni va avvinghiandosi a crocifissi come a tizi nerboruti, che va mimando sul palco amplessi con donne/oggetti/pavimenti, e tu Miley vuoi scandalizzarci mostrandoci un po’ di lingua, mezza tetta e tre quarti di chiappa? Ma se perfino Cher, una che nonostante il triplo dei tuoi anni potrebbe farti ancora le scarpe, ma che insomma, un esempio di stile e raffinatezza non lo è mai stata, ti ha più volte duramente criticata, perché non darle ascolto? Perché purtroppo, nonostante l’impegno profuso per affrancarti dalla  precedente immagine di divetta acqua e sapone, questa svolta sexy nella tua carriera, la tua nuova canzonetta e il relativo video pseudointrigante, saranno forse ricordati, in futuro, solo per l’involontaria, rappresentativa, metafora. Una grande, pesantissima, palla.

Ansiautunno

Se siete già da tempo lettori di questo blog, andate avanti. Ve lo consiglio, seriamente, saltate a piè pari questa breve introduzione e cominciate dal capitoletto seguente (sempre che riesca a scriverne uno). Il motivo è dei più semplici: qui non troverete nulla che suoni alle vostre orecchie come del tutto nuovo, originale, mai letto prima in qualcuno dei miei post più vecchi. Non solo perché siamo già giunti, prima di quanto pensassi, a superare la bellezza di 100 miei interventi (questa che sta scorrendo sotto i vostri occhi è precisamente la creatura n. 101, proprio come l’arcinota carica disneyana, con la sola differenza che l’unico cane qui potrebbe essere l’autore); cifra che mi costringe, per non trovarmi a ripetere con troppa frequenza le stesse parole, a dover leggere un po’ di tutto, dalle ricette stampate sulle buste dei cibi alle etichette dei prodotti per il bagno (anche se dubito che termini come “liofilizzato”, “emolliente” o “dermatologicamente testato” possano mai tornarmi utili in un eventuale post). Quanto soprattutto perché il sovracitato autore/quadrupede si sta, come immaginerete, già fasciando paranoicamente la testa in attesa della (per lui) più temuta stagione, che solo tra qualche giorno scalzerà le ultimi propaggini estive: l’autunno (no no no, suonerebbe un’azzeccatissima eco). Lo detesto. In ogni suo dettaglio. Non ne sopporto il lento scemare pomeridiano della luce che prelude a sere sempre più lunghe, il progressivo e impietoso affievolirsi della temperatura, il cupo ingiallirsi del mio giardinetto (foto allegata) che a poco a poco si trasforma in un disordinato pavimento di foglie croccanti (e come tale poi rimane per lunghi mesi). Mi irrita l’arrivo inevitabile delle piogge, le gocce che si inseguono formando malinconici rivoli sulle finestre, gli alberi e la frutta rivestiti di toni smorzati. Ma ciò che maggiormente mi inquieta, mi atterisce e mi turba è il suo equivalere al dover trovare (chissà poi dove) nuove energie necessarie per pianificare, organizzare, riprendere in mano tutto l’incompiuto lasciato volutamente alle spalle durante l’estate. Un severo richiamo all’urgenza dei propri doveri, alla disciplina necessaria per gestire tutti gli impegni, alle regole che dovrebbero scandire la vita di un serio ed equilibrato 29enne: insomma, per me che sono pigro, indisciplinato, immaturo (e men che mai 29enne) una vera e propria tortura.

Se avete davvero seguito il mio consiglio iniziale e state cominciando a leggere questo post da qui, vi riassumo cosa vi siete persi: niente. C’è un blogger, brontolone e metereopatico, che si rifuta di dare il benvenuto alla prossima stagione autunnale, perché nel suo immaginario coincide con il dover mettere in ordine e riallestire una vita in cui di ordine ce n’è sempre stato ben poco. A dire il vero anche la mia casa rispecchia il caos e la mia stessa inquietudine settembrina, soprattutto perché, al momento, sto lavorando a dei testi che avrei dovuto consegnare da giorni e che non riesco ancora a concludere. Vivacchio perciò perennemente inchiodato davanti al pc, che raggiungo facendo il dribbling tra pile di libri e riviste da consultare, accampate ovunque nei corridoi, su tavoli, sedie e divani, dei totem cartacei che obbligano gli ospiti a sedersi sul pavimento o li invitano a scattare foto da condividere, con mia somma vergogna, sulle proprie pagine dei social. Ed è proprio mentre posavo lo sguardo su una di queste instabili torrette di volumi, in cerca di nuova ispirazione per i miei scritti, che oggi mi ritrovo gradevolmente spiazzato dall’arrivo, a sorpresa, di un’e.mail da parte di una mia vecchia conoscenza. Una persona che ha condiviso con me momenti importanti, dalla trepidazione dei primi esami all’Università all’incertezza, anche economica, dei primi lavori, e che è stata persino partecipe della mia ultima iscrizione in palestra (esattamente quindici anni fa). Una persona un tempo familiare, e che poi, come spesso succede senza alcuna vera ragione, ho lasciato uscire dalla mia esistenza per superficialità, noncuranza, perché le nostre strade hanno preso direzioni opposte e noi abbiamo permesso che la distanza, la quotidianità, la diversità dei nostri obblighi diventassero una scusa e un muro per non vederci né sentirci per lungo tempo. Fino ad oggi appunto. Quando la sua gradita e.mail ha interrotto il silenzio in cerca di un mio consiglio: che fosse appropriato ad un suo nuovo inizio, al chiudere un capitolo della sua vita per aprirne un altro, al ricominciare, con le sue forze, ad affrontare questo come i prossimi autunni. Ed è stato oggi, che ho capito: per risollevarci, per ripartire, per rimetterci in moto non abbiamo bisogno di progetti dettagliati e di bellicosi piani d’attacco. Abbiamo bisogno di qualcuno pronto a dirci che possiamo farcela.

Chi dice “gonna”…

Alla terza segnalazione che mi giunge sull’argomento in meno di 48 ore, credo sia arrivato il momento di affrontarlo. Anche perché la vicenda, curiosa forse, se vogliamo surreale, per alcuni versi perfino ridicola, innesca in realtà tutt’una serie di riflessioni che possono scaturire appena si sfiora la delicata questione dei prezzi (esagerati?) di un capo firmato in confronto al suo effettivo valore commerciale. E, altra importantissima ragione, perché a richiedere esplicitamente il mio parere al riguardo sono due fra i più affezionati lettori di questo blog (circa la metà del totale, quindi) a cui si è aggiunta oggi stesso mia madre in una delle sue scoppiettanti telefonate mattutine, di quelle che riesco a malapena a fronteggiare replicando con suoni gutturali del tipo “mmmmh mmmmmh”, l’unica risposta che sono in grado di fornire (non solo a mammà) quando la mia voce ancora fatica a svegliarsi. Ma per rispetto all’autorità genitoriale (e perché, in fondo, mamma va pubblicizzando questo blog ovunque, con quella tenera fierezza, tipica di ciascun genitore di fronte all’inutilità dei progetti dei propri figli) e all’assiduità delle vostre e.mail, intrise della piacevole illusione che qualcuno sulla faccia della terra tenga davvero in considerazione i miei vaneggiamenti online, vi chiarirò finalmente la mia tanto attesa opinione. Non senza aver prima precisato un punto: non appartengo alla categoria dei fashion – victim, di quelli cioè che difendono a spada tratta la moda perché soggetti all’idolatria del marchio, degli abiti firmati, della griffe a tutti i costi. Possiedo sei paia di scarpe, tre per stagione, non ho mai speso più di 30 euro per dei jeans, e spesso utilizzo capi di seconda mano, dismessi da amici e parenti, anche se di una taglia diversa dalla mia. Questo per sottolineare che la mia nota passione per la moda nasce dal considerarla soprattutto un affascinante e singolare linguaggio, un insieme di segni di cui ciascuno si appropria, come crede, per comunicare qualcosa di se’, che vada al di là delle parole stesse. Una puntualizzazione necessaria, perché forse nelle righe che troverete qui di seguito affioreranno considerazioni diverse da quelle lette altrove, rispetto alla vicenda in questione, che non vorrei mai venissero attribuite a un mio eventuale, totale e acritico, asservimento alle leggi del fashion – system.

Vicenda che a questo punto conviene riassumere: riportata per la prima volta qualche giorno fa dal tabolid inglese Daily Mail (http://www.dailymail.co.uk/femail/article-2412137/Woman-sues-Prada-unable-remove-stain-971-silk-skirt.html) e quindi ripresa anche da autorevoli testate nazionali (http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/12/prada-macchia-che-ci-riporta-alla-realta/709334/) si tratta dell’assurda storia di Catherine Whitty, fisioterapista 40enne australiana, che, dopo l’acquisto di una gonna di Prada da indossare ad un party, alla non modica cifra di 1600 dollari (circa 1150 euro), ha chiesto il risarcimento totale della stessa, accordatogli dal giudice, dal momento che il costoso capo, durante l’occasione mondana per cui era stato scelto, si era indelebilmente macchiato di champagne. A motivare la decisione del giudice la valutazione del valore oggettivo della creazione, che tra qualità del tessuto (a occhio e croce un taffetas, ma stabilirlo dalla foto è difficilissimo) taglio e confezione, seppur pregevoli, raggiungeva una cifra notevolmente inferiore al prezzo di acquisto. E di qui il moltiplicarsi delle accuse al sistema moda in toto, colpevole, anche a detta dei nostri giornalisti, di vendere l’illusorietà di oggetti esclusivi e staordinari che poi si rivelano per quel che sono, cioè abiti, fatti di stoffa, che quindi si macchiano. Ma pensa. Ok, mettiamo un po’ di ordine. Primo: sostenere che una gonna, per il solo fatto di averla pagata cara, sia automaticamente esentata dalla possibilità di macchiarsi, lacerarsi, rovinarsi è come voler affermare che il Titanic non sarebbe mai potuto affondare (e invece sappiamo tutti la fine che ha fatto). Secondo: la signora avrebbe potuto acquistare un capo nuovo ovunque, dal mercatino sotto casa ai grandi magazzini di cui anche l’Australia sarà piena: ma ha scelto una griffe internazionale, pagando, oltre al prezzo della qualità stessa del capo, la possibilità di essere additata al party come una donna dai gusti raffinati, aggiornata in fatto di moda, di una certa estrazione sociale e di un certo censo (perché non è che siano abiti per tutte le tasche), attributi in più che derivano solo dall’indossare una creazione firmata. Eccolo il valore, soggettivo ma condiviso al momento dell’acquisto dalla sbadata fisioterapista, della famigerata gonna: che non risiede esclusivamente nella materia prima, della stoffa appunto, che si può macchiare di champagne, ci mancherebbe, ma da una serie di altre prerogative che gli abiti di una grande firma del settore trascinano con se’. Che avrebbe a questo punto il solo dovere di specificare nell’etichetta “Attenzione: è pur sempre una gonna. Si può danneggiare!”

Strani divieti

Escludendo una breve, memorabile e destabilizzante parentesi romana (la capitale è un magnifico labirinto sovraffollato, inadatto alla mia anima tutt’altro che metropolitana) vivo ormai a Firenze (o giù di lì) da quasi due decenni, da quando cioè vi approdai come un giovane studente con qualche sogno (e capello) in più e con qualche consapevolezza (e chilo) in meno. Da allora, vuoi per la mia risaputa sbadataggine, vuoi per un vezzo divenuto nel tempo una radicata abitudine, giro per le vie del capoluogo toscano quasi esclusivamente a piedi (in auto per di più m’inferocisco dopo pochi minuti), trasformando così i miei necessari spostamenti in piacevoli passeggiate di cui approffitto per rilassarmi, schiarirmi le idee, osservare incuriosito passanti, negozi, edifici. A voler essere sinceri fino in fondo, possiedo inoltre un senso dell’orientamento degno di un criceto appena sceso dalla sua ruota: non memorizzo le strade, neanche quelle che percorro più frequentemente, men che mai i nomi delle stesse vie, e quando sono in altre città mi ritrovo spesso a rigirare un’incomprensibile piantina come se fosse una pizza nel piatto, per poi arrendermi alla mia evidente imbranataggine e chiedere indicazioni al primo malcapitato di turno. Il tutto, manco a dirlo, al contrario del mio amore, al quale, in qualunque posto del pianeta ci possiamo trovare al momento, sono sufficienti due rapide occhiate ai lati della testa per affermare con decisione “Di qua!”: ed è sempre la direzione giusta, circostanza che spesso mi fa sorgere il dubbio che abbia già girato il mondo a mia insaputa, forse in compagnia di innumerevoli ed altrettanto misteriosi amanti.

Tornando all’argomento principe di questo post, che non sono le assurde fantasie impregnate di gelosia del blogger, ma il suo sovente girovagare, talvolta senza meta, con la mente distratta e il naso all’insù, da pochi anni a questa parte le mie camminate distensive si sono arricchite di un’ulteriore pratica, che si va ad affiancare alla già stramba consuetudine di soffermarmi a leggere tutti gli eventi, i nomi e gli anni presenti nelle targhe commemorative poste sulle facciate dei palazzi (fatelo anche voi, si imparano un sacco di cose). Si tratta questa volta di una sorta di piacevole caccia al tesoro, indirizzata a scovare, anche negli angoli più perfiferici della città, gli interventi di Clet, un artista francese attivo in Italia già dai primi anni ’90, che dal 2005 risiede proprio a Firenze e che, unicamente armato di fantasia e di un’idea brillante, ha ritoccato il volto più ordinario di questo come di altri centri, in Italia e all’estero, disseminando un po’ ovunque i suoi originali lavori (foto allegata). Che altro non sono che comunissimi cartelli stradali, reinterpretati con l’applicazione di alcuni stickers, e trasformati così in ironiche o amare scenette, popolate di personaggi stilizzati, indaffarati in azioni epiche o al contrario quotidiane, che si affacciano beffardi, spensierati o malinconici, silenziosi eppure eloquenti, da uno degli oggetti di uso più comune (e spesso più ignorato) della nostra realtà urbana. Un’operazione arguta ed efficace, troppo spesso e troppo semplicisticamente liquidata come “arte da strada”, che invece dimostra come la contemporaneità possa riuscire ad appropriarsi di nuovi mezzi e di nuovi spazi anche in quei luoghi in cui risulta difficile arginare l’ingombro di una tradizione culturale vecchia di secoli. Interventi che esemplificano inoltre come il fine ultimo dell’arte ai nostri giorni non sia unicamente quello di provocare, scioccare o aggredire lo spettatore, ma di spingerlo, con garbo e leggerezza, ad una più pacata riflessione, facendogli semplicemente volgere lo sguardo appena sopra di se’. E perchè no, di strappargli un sorriso.