In fin dei conti è una banalissima domanda, ma in genere il doverle rispondere mi mette in seria difficoltà. Quando qualcuno, con fare diretto o con disarmante schiettezza, mi chiede “tu sei felice?” ecco che replico perdendomi in migliaia di labirintiche e articolate premesse, un po’ come faccio qua sopra con l’inizio di tutti i miei post. Il motivo di tanta esitazione risiede a dire il vero nella mia incapacità di trovare pienamente adeguato un semplice monosillabo (sì, no, boh), perché convinto che la parola “felicità” non si applichi poi con altrettanta facilità, nella vita di tutti i giorni, a così tante situazioni ed emozioni. Non credo infatti che tale, appagante sensazione, il fine ultimo, in teoria, di ciascuna umana esistenza, corrisponda poi ad uno stato d’animo duraturo o prolungato nel tempo, una sensazione cioè di vivificante e pieno benessere mentale in grado di estendersi poi per chissà quanto: quella, semmai, sarebbe più opportuno definirla serenità, ed è una condizione della psiche altrettanto auspicabile, forse perfino più importante, senza dubbio ugualmente difficile da mantenere. Personalmente ritengo che la felicità vera e propria si manifesti all’improvviso, frammentata in pochi, intensi, attimi, di valore peraltro soggettivo, e il riconoscerla in quel preciso istante, nella sua fugace e sconquassante epifania, sia il segreto più profondo per poterne godere appieno. E’ di preciso ciò che mi succede quando il mio amore, che si alza per lavoro al mattino sempre prima di me, mi lascia la tavola apparecchiata per la colazione, con il caffè ancora fumante, e un bigliettino romantico del tipo “Buongiorno. Ricordati di avviare la lavastoviglie”. E’ mia nipote di due anni che prova a ripetere il mio nome, e lo riduce a una sequenza di sillabe impronunciabili, arricciando il naso e aggiungendo il suo sorrisone sgangherato e soddisfatto, come a dire “Visto brava?”. Sono i miei genitori, che raggiungo nel loro curatissimo orticello, a due passi dal mare, con mia madre che gongola nel mostrarmi le rose rosse rampicanti che le ho regalato da poco e che adesso occupano rigogliose un intero pergolato. E’ il riuscire finalmente a vedere con i miei occhi un’opera o un luogo che ho sempre sognato di visitare, come mi è successo la prima volta al cospetto degli affreschi michelangioleschi della Sistina o con i marmi del Partenone al British Museum, con il Partenone stesso o con capo d’Orso a Palau, in Sardegna, o con il profilo massiccio del monte Saint Victoire, lo stesso immortalato in decine di tele da Paul Cézanne; e la loro dimensione sempre fuori scala, troppo imponente o troppo smisurata per ciò che alla fine è la mia limitata immaginazione, mi lascia senza fiato, a bocca aperta, in uno stato di inebriante e indescrivibile vertigine.
L’ultima volta che ho pensato ”adesso sono felice”, risale, per fortuna, solo a pochi giorni fa. Riuscito nell’ardua impresa di incastrare qualche meritato pomeriggio di riposo, secondo un programma difficilissimo da stilare, in base ai diversi impegni di lavoro e alla vita frenetica della suddetta dolce metà, ci concediamo, sfiniti, un po’ di tregua al mare. Approdati su una spiaggia appartata in una giornata particolarmente afosa, ci rendiamo conto che su un chilometro scarso di litorale, dall’acqua incredibilmente cristallina, siamo i soli. A coronare l’idillio da Laguna Blu, ecco guizzare dalle onde una coppia di delfini che si rincorrono sulla superficie azzurra per qualche minuto, offrendo lo spettacolo della loro sagoma sinuosa ai riflessi dorati del sole e ai nostri sguardi increduli. Un momento magico e perfetto: neppure la sceneggiatura più melensa di una romantica commedia rosa o di una stucchevole telenovela sudamericana avrebbe potuto fare di meglio. Certo, ho pensato subito dopo, se mi fossi azzardato a condividere seduta stante su Facebook o su qualsiasi altro social ciò che mi stava accadendo in quel preciso attimo, non solo avrei sciupato la poesia di una situazione da godere preferibilmente nel privato, ma, conoscendo lo spirito sarcastico dei miei contatti, avrei ottenuto commenti del tipo “Sì, certo, chissà che ti sarai fumato”, oppure “Io invece sto con Moira, le colombe e gli elefanti!”. Ci riflettevo quello stesso pomeriggio, quando, intento nella mia nullafacenza da spiaggia e immerso nelle mie solite letture da sotto l’ombrellone, venivo a conoscenza, dalle pagine di un noto quotidiano, dell’esistenza di un nuovo social network interamente dedicato alla condivisione esclusiva dei momenti di felicità, dal nome assai poco equivocabile, Happier (https://www.happier.com/). Certo, una valida alternativa a chi non ne può proprio più degli sfoghi infiniti, spesso esagerati e talvolta inopportuni che regnano incontrastati su Facebook o delle liti animose, delle cattiverie gratuite o delle polemiche dagli strascichi settimanali che fanno invece la fortuna di Twitter. L’intuzione, senza dubbio originale, è di una cittadina statunitense, di origine sovietica, che risponde al nome di Nataly Kogan e che forse, raccoglierà numerosi proseliti tra chi è più propenso (e sicuramente ce ne sono tanti) a dipingere, anche solo virtualmente, la propria esistenza come tutta rose e fiori, o almeno a coglierne, sempre e in ogni occasione, il lato positivo. La domanda però è: seguireste davvero un siffatto contenitore online di sole amenità? Per quanto mi riguarda, la risposta, lampante, è arrivata stavolta in meno tre secondi: no. No perché provo infinitamente più empatia con chi si adira, si lagna, si espone senza riserve con le proprie debolezze, i propri difetti, i propri immancabili lati vulnerabili. No perché reputo di gran lunga più divertenti, fantasiosi, degni di attenzione i moti di rabbia, di sconforto, di smarrimento, conditi dalla giusta dose di ironia e di sarcasmo. No perché la vita sarà pure una folle corsa per inseguire la felicità; senza dimenticare che, soprattutto, è ciò che invece accade tra un vano tentativo e l’altro.