Ci sono momenti in cui, anche una persona votata alla frivolezza e alla superficialità di interessi, come me, riportati immancabilmente (e maniacalmente) sul mio blog, come se fossero questioni di chissà quale importanza, ha bisogno di uno stop. Di ricavare cioè un piccolo spazio per riflessioni di altro, forse più noioso, genere, con cui spero di non tediare il mio pubblico, che mi dimostra invero più fedeltà quando mi lancio in considerazioni e post di stampo ironico e brioso, perché, effettivamente, mi riescono meglio. Mi scuso in anticipo perciò se nelle parole seguenti non troverete la consueta vena satirica o il commentino pungente, ma i miei pensieri, in queste occasioni, vanno in tutt’altra direzione. Succede quando la mia tranquilla quotidianità, fatta di affetti sinceri, di lavori saltuari a cui non mi abituerò mai, di sogni e di ambizioni irrinunciabili, viene messa inaspettatamente alla prova da una perdita improvvisa, da quell’idea, spaventosa e detestabile, di una separazione definitiva. Credo che il dolore sia qualcosa di intimo, inviolabile, che occorre difendere dall’interferenza degli sguardi altrui, che le lacrime versate in pubblico siano poco cosa rispetto a quelle ricacciate a fatica indietro o spese in solitudine. Ma quando alla sofferenza si intrecciano la rabbia, il senso d’impotenza, la delusione per un lieto fine che sembra giungere solo nelle fiabe, la necessità di uno sfogo, come questo, diventa inevitabile. Per il grande rispetto e per l’ammirazione che nutro nei riguardi della persona in questione, non scenderò nei dettagli drammatici della sua storia, perché reputo di cattivo gusto consegnare al web una vicenda così delicata. Non posso fare a meno però di condividere qua sopra la grande lezione che ho tratto dalla sua vicinanza in quasi dieci anni di rapporto professionale, in cui non sono mancate incomprensioni, piccole liti, divergenze, ma anche gratificanti manifestazioni di stima reciproca. Avevamo perciò imparato a comprenderci, ad ammettere le nostre differenze, a parlare con la schiettezza e la lealtà necessarie sul lavoro. Mi aveva parlato apertamente anche della sua malattia: con grandissima dignità, con la fierezza e la caparbietà di chi non vuole arrendersi, di chi si attacca ostinatamente alla vita anche quando quest’ultima gioca il peggiore degli scherzi. E da allora il nostro abbraccio di saluti si è fatto più tenace, intenso, per il timore, sempre più concreto, che potesse essere l’ultimo. L’ultimo, purtroppo, c’è stato, non più di tre mesi fa. Non credo di poterlo mai dimenticare.
(n.d.r. La foto allegata è uno scorcio di mare del mio Argentario. Il mio luogo natìo a cui in genere affido la malinconia di simili pensieri. Spero non vi dispiaccia.)