Cielo grigio su

negramaro – “Sole” (videoclip ufficiale) – YouTube.

Vi assicuro che io ci metto tutto l’impegno. Per scrivere qualcosa di leggero, spiritoso, che ci rallegri la giornata, per non sconfinare nella malinconia dove spesso vanno a rifiugiarsi miei post, per non tediarvi con i racconti nostalgici della mia vita che neppure uno psicologo, ben pagato, vorrebbe più ascoltare. E’ solo che piove, da giorni. Grazie tante, una finestra ce l’abbiamo anche noi, potreste rispondermi a questo punto. No, dico sul serio, per me è un problema quasi insormontabile. Perché il mio umore s’ingrigisce di pari passo col cielo, portandomi spesso a pensare che nella mia vita precedente fossi un animale da letargo, più probabilmente una lucertola. Un rettile sì, di quelli che rimangono ben nascosti nella propria tana durante le stagioni buie e fredde, per poi uscire immobili per ore a godersi il minimo spiraglio di sole. Magari potessi farlo anche adesso. Invece mi trascino per casa ringhioso e incupito dalla pioggia ininterrotta, che ha il potere di tirare fuori il peggio di me, a partire dal look, i maglioni vecchi e sformati in cui mi abbandono per giorni, la barba che non ho la minima voglia di accorciare, così come i sedici capelli superstiti che si affacciano sulle tempie (ora che li guardo bene, un paio sono anche bianchi, uff). Tutto questo masticando nervoso le mie ultime scorte di cioccolato, dannoso rifugio consolatorio delle mie giornate grigie o di bassa autostima, mentre lo schermo del pc ancora bianco pare fissarmi anche lui in attesa di chissà quale illuminazione o stupidaggine incombente. Ma la mia meteropatia da guinness, la stessa che al mattino, appena sveglio, senza neppure inforcare gli occhiali (e sbattendo quindi a lampade e comodini) mi costringe come prima azione quotidiana ad aprire le imposte per fare entrare la luce (quando c’è), ostacola anche la voglia di scrivere le solite battute per risultare simpatico a tutti i costi sul mio blog. In questi casi dovrei, senza troppi inutili tentativi, semplicemente tacere, o lasciar perdere. “Ma in fondo mi conosco, sbaglio tutti i tempi” recita però questo magnifico verso, così appropriato, della canzone che vi allego, intitolata (guarda caso) Sole, dei Negramaro. Primo, perché quella di Giuliano Sangiorgi, il frontman del gruppo, è l’unica voce maschile a cui permetto di fare compagnia alla mia collezione discografica di regine, Mina, Whitney, Madonna (lo so, i miei gusti musicali sono decisamente pop e tutt’altro che raffinati…e allora?). Secondo, perché la sto riascoltando in loop da ore mentre aspetto che mi arrivi invano una qualche ispirazione per buttare giù due frasi sensate e soprattutto che torni un po’ di sereno nel cielo. Altrettanto invano. Come non detto. “Ci saranno altri silenzi e altri tempi da sbagliare”.

Internet vs nonni

Da uomo d’intelligenza acuta e dalla battuta sempre pungente mio nonno Guerrino sapeva benissimo di possedere un nome che a noi nipoti non piaceva, così come forse non era mai piaciuto neanche a lui, e ci permetteva di chiamarlo più semplicemente nonno Guasti. Per la sua carnagione bruna e olivastra, che ho ereditato insieme alla precoce calvizie, nonno Marsilio invece era conosciuto in paese con il soprannome di Turchetto, e difficilmente, da bambino, ovunque andassi, sfuggivo a chi con una sola occhiata riusciva a risalire velocemente alla parentela. A nonna Rina piaceva spesso fermarsi a scambiare quattro chiacchiere con le mie amiche, che riempiva di complimenti, a volte esagerando un po’, forse nella mai abbandonata speranza che trovassi finalmente una fidanzata. L’ultima a salutarci, due anni fa, è stata nonna Giulia, per la quale ero stato sempre Alesandro, con una “s” sola: aveva mani d’oro in cucina e lavorava la maglia ai ferri con un’abilità e una velocità mai più viste altrove, tanto da corredare per decenni tutta la famiglia (1 marito, 4 figlie, 7 nipoti, ben 12 persone), ogni inverno, di calzette di lana per la notte che ancora oggi conservo. Parlare di nonni è una di quella operazioni che si tingono di immediata e inevitabile nostalgia, perché ti costringe a viaggiare a ritroso nel tempo, a ripescare nelle pieghe della memoria i luoghi e gli odori dell’infanzia che, smarriti quasi del tutto nel percorso della vita, rimangono solo a popolare i nostri ricordi e i nostri sogni di adulti. Li ho visti tutti, i miei nonni, cambiare a poco a poco sotto il mio sguardo, trasformarsi così da creature gigantesche che mi tenevano in braccio a esseri piccoli piccoli, sempre più affaticati dal peso degli anni ma con il sorriso inalterato, loro che nella mia fantasia consideravo invincibili, perché sopravvissuti a un mondo inimmaginabile, fatto di racconti e parole che suonavano terribili, come guerra, povertà, lutti. Ecco perchè non mi sorprende ma in parte mi rattrista il risultato a cui è giunta una recente indagine, citata dal magazine britannico Telegraph (http://www.telegraph.co.uk/technology/google/9899171/How-grandparents-are-being-replaced-by-Google.html) che sottolinea come, nell’era digitale e di internet, tre nonni su quattro siano stati praticamente “sostituiti” dalla rete. In sostanza, invece di ricorrere alla saggezza del familiare più anziano, le nuove generazioni, per qualsiasi consiglio, domanda, anche per un banale aiuto con i compiti di scuola, preferiscono affidarsi a Google o a Wikipedia; che, di sicuro, troveranno la risposta corretta più velocemente e senza bisogno di ripetere la domanda troppe volte per problemi di udito, ma che forse, tolgono alla ricerca quel valore umano chiamato esperienza di cui i nonni sono senza dubbio i detentori. Non so quale sia il vostro parere, se, come sempre, di tutta la vicenda, il sentimentale che talvolta prevale in me non riesce a cogliere il lato positivo. Fatto sta che i miei genitori, adesso nonni, hanno visto bene di munirsi di un tablet con cui al momento intrattengono mia nipote, forse per la paura di essere rimpiazzati, in futuro, da un insulso motore di ricerca.

Eva contro Eva

Avevo cominciato a sospettarlo già nel lontano 1994, quando, in vacanza con tre amiche a Londra, con il pretesto di imparare un po’ di inglese, ci ritrovammo nella City interamente tappezzata dalle gigantografie di un’ammiccante Eva Herzigova, ritratta a mezzo busto e vestita solo di biancheria intima nera, che implorava di guardarla negli occhi (allego una foto per chi non lo ricorda o all’epoca era troppo giovane, o forse non ancora nato). Era appena sbarcato in Europa il miracoloso Wonderbra, il reggiseno che prometteva curve da pin-up anche a chi usciva dal trauma di un’adolescenza mortificata da soprannomi crudeli come tavola da surf o da stiro, in un decennio in cui l’ideale estetico femminile si avvicinava molto di più a Jessica Rabbit che non alle Winx. Ricordo che nonostante la generale curiosità e la mia insistenza (odio fare shopping per me, ma se devo accompagnare un’amica butto via interi pomeriggi) non riuscii a convincere nessuna delle mie compagne di viaggio a provare, anche solo per scherzo, quel capo che prometteva risultati portentosi. “Guarda, neanche se mi trasformasse in lei” “Sembrerei una del Drive – In (n.d.r. trasmissione tv degli anni ’80)” “A me lì dentro non ne entrerebbe neanche mezza” furono più o meno le loro risposte, che ci fecero ripiegare su un altro programma, cioè un’incursione al Pizza Hut, pubblicizzata proprio da un altro manifesto lì accanto, con altre due top model, Linda Evangelista e Cindy Crawford, che invitavano a provare le nuove Margherita con la crosta al sapore di formaggio. Ora, a distanza di quasi venti anni, non avendo trovato alcuno studio scientifico in grado di spiegarmi perché il 90% delle mie conoscenze femminili non mangia la crosta delle pizze e le abbandona nel piatto, alla mercé del più goloso della tavola (vi sconsiglio comunque quelle al formaggio, non so se esistono ancora ma erano disgustose), mi sono però proprio oggi imbattutto in quest’altra ricerca che fa decisamente al caso mio. Si tratta di una scoperta firmata dell’Università britannica di Warwick (http://www.wbs.ac.uk/news/do-thin-models-and-celebrities-really-help-sell-to-women/), e riportata anche da numerosi siti nazionali come quello dell’AGI (http://www.agi.it/research-e-sviluppo/notizie/201303011218-eco-rt10105-studio_immagini_modelle_possono_compromettere_shopping) che evidenzia come le donne disprezzino in realtà le campagne zeppe di immagini di corpi femminili perfetti, e quindi i prodotti ad esse associati, preferendo invece accostamenti più velati e sottili. In altre parole, croste al formaggio sì, reggiseni no. Beh, forse può dipendere dalla comprovata complessità retrostante gran parte dei ragionamenti delle donne: gli uomini, macchine in genere più semplici, quando si sbilanciano in un “si, va bene” intendono proprio “sì, va bene”. La stessa frase, pronunciata da una bocca femminile, equivale a “Ti avrò anche detto che va bene, ma sai perfettamente che non è così, dovresti conoscermi e sapere cosa mi va bene e cosa no, anche se non te lo dirò mai!”. In parte però temo ci sia anche lo zampino della famigerata e perenne competizione, in ogni campo, tra le esponenti del gentil sesso; lavoro da anni in ambienti a maggioranza femminile, e della tanto sbandierata solidarietà fra donne ne avessi mai vista, anche lontanamente, la più pallida ombra. Più facile assistere a piccole cattiverie, ripicche, sgambetti, tutti mascherati da enormi sorrisi di circostanza, tra colleghe che fingono pubblicamente affetto e a fette poi ci si farebbero volentieri l’una con l’altra. La prima domanda è: perché? La seconda: Eva Herzigova adesso pubblicizza creme antirughe. Qualcuna le ha forse provate?