Ma dalla noia, chi ci salva?

Vorrei poter dire che alla fine ne è valsa la pena. Di aver guadagnato spazio, a gomitate, tra migliaia di turisti asserragliati, come piccioni sui cornicioni, intorno Palazzo Vecchio, a Firenze, solo per riuscire a scattare una foto (quella allegata) ai piedi dell’enorme “R”, simbolo dell’iniziativa, per poi rassegnarti all’evidenza che la signorina giapponese di fianco a te non si toglierà mai dall’inquadratura, e non ti rimane che imitarne la posa, per tentare almeno di dare una qualche ironia allo scatto. Di aver atteso una buona mezz’ora sulle scale che conducono, all’interno dello stesso Palazzo, nel celeberrimo Salone dei Cinquecento, tra giovani fashion victim con addosso abiti che urlano la loro voglia di stupire e l’incertezza meteorologica, meno giovani radical chic, per fortuna vestiti più sobriamente, e la stessa signorina giapponese della foto che probabilmente si è persa e non trova più il suo gruppo. Di aver trascorso altri canonici quindici minuti, finalmente seduto al tuo posto, prenotato online con doveroso anticipo, nel brusìo sintomatico della curiosità generale, prima dell’attesissimo appuntamento che proprio oggi ha inaugurato, nel capoluogo toscano, il programma de La Repubblica delle Idee (http://racconta.repubblica.it/repubblica-delle-idee/2013/index.php?page=programma&ref=HRER3-1 ) – 4 giorni di incontri e dibattiti promossi dal noto quotidiano nazionale, con la partecipazione delle sue principali firme e di una ricca serie di scrittori e ospiti internazionali. Dicevo, un evento speciale quello di oggi (soprattutto per chi condivide i miei stessi interessi), dal suggestivo e dostoevskijano titolo La bellezza ci salverà,  che prevedeva la doppia presenza di un mostro sacro del giornalismo nazionale come Natalia Aspesi (una che chiunque voglia fare questo mestiere dovrebbe studiare a memoria pezzo per pezzo) e Frida Giannini, direttore creativo di un brand di moda tra i più importanti al mondo, Gucci.

Ebbene, in un’ora scarsa di conferenza, mi sono addormentato. Per ben due volte. Non tanto per le domande tutt’altro che sciocche della Aspesi, che comunque difettavano in parte della solita vena pungente e di quell’invidiabile sottigliezza che la giornalista sfoggia nei suoi articoli, necessarie alla riuscita di una buona intervista (ma una signora di tale spessore, cultura e importanza l’avrei perdonata anche se avesse taciuto per tutta la durata dell’incontro). Quanto per le risposte dall’insistente ed eccessivo tono autocelebrativo fornite dalla Giannini, che hanno ribadito infinite volte l’impegno umanitario (lodevole, per carità) del marchio e la recente sfida lanciata dal progetto Chime for change (http://www.chimeforchange.org/) che vede la stilista schierata al fianco di due celebrità come Beyoncé e Salma Hayek per promuovere il diritto all’educazione e alla salute femminile nel mondo. E ancora il legame speciale tra Gucci e il territorio fiorentino, sottolineato dalla salvifica acquisizione del marchio stesso di un’azienda in difficoltà come la Richard Ginori (peccato per quell’ombra sulla regolarità dell’operazione gettata dall’apertura da parte della procura di un fascicolo al riguardo, neanche accennata) e dalla linfa vitale che il brand in teoria trarrebbe dalla sua città natale, Firenze (anche se fu proprio sotto la direzione di Frida, quattro anni fa, che il quartier generale di Gucci traslocò a Roma). Potrei continuare con i mille consigli forniti su come una giovane donna, che ricopre un ruolo leader a livello mondiale, possa conciliare il suo durissimo e impegnativo lavoro con la recente maternità (lo scorso Marzo è nata la sua primogenita, Greta): beh, per una che è alla direzione creativa di un’azienda con un fatturato annuo di circa 2 miliardi di euro deve essere piuttosto difficile, sì. Insomma, non c’è stato né contraddittorio, né una critica, né tantomeno un affondo su questioni che potevano essere trattate con maggiore obiettività e non come un noioso e superfluo spot del marchio. Che, guarda caso, possiede proprio lì accanto Palazzo Vecchio un museo a proprio nome. Dove, uscendo, almeno ho rivisto la mia amica giapponese ritrovare il suo gruppo.

Più Bianca non si può

Dolce&Gabbana Light Blue TV Commercial – YouTube.

Anche se la moda non è fra i vostri principali interessi, anche se ricordate a stento quei quattro o cinque brand tra i più famosi perché letti di continuo nella vetrina del negozio sotto casa o perché vi hanno regalato una cravatta o un foulard firmati (che non indossate mai perché riciclati lo scorso Natale), conoscerete comunque di sicuro il bel faccino del personaggio di cui stiamo parlando. Perché Bianca Balti, 29enne (lei sul serio, mica come il sottoscritto) di Lodi, professione top model, è una delle pochissime italiane (le altre si contano sulle dita di una mano) ad aver conquistato con la sua indiscutibile bellezza le copertine e le passerelle più prestigiose di tutto il mondo. E nonostante alla sua, seppur giovane, età, molte delle sue colleghe sembrano sparire a poco a poco da magazine e sfilate, come nel crudele gioco dei Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie, perché costrette da un prepensionamento inevitabile nel mestiere passati i 25 (fanno eccezione le solite Claudia Schiffer e Naomi Campbell, ancora richiestissime nonostante la 40ina inoltrata), lei resiste, rilancia, risplende. Di più: è praticamente ovunque. Senza neppure la necessità imminente di dover adattarsi ad una nuova carriera, scelta che invece, secondo un diffuso costume nazionale, hanno già caldeggiato le altre modelle made in Italy, reinventandosi un ruolo diverso al cinema e in tv (come Eva Riccobono), in teatro (come Maria Carla Boscono), nella canzone e all’Eliseo (come Carla Bruni). Bianca no, almeno non ancora.

D’accordo, non sarà più il volto della Tim, dove è stata rimpiazzata dalla presenza, forse più rassicurante, di Chiara, la cantante vincitrice dall’ultima edizione di X- Factor. Da una parte, meglio così: in pochi avevano apprezzato la vocina un po’ stridula, con quella “erre” così debole, che la fanciulla purtroppo ha mostrato di possedere, non doppiata, negli spot al fianco di Neri Marcorè (un difetto ce l’ha anche lei, che diamine). Acqua passata: Bianca rimane comunque una delle protagoniste della campagna L’oreal, colei che pubblicizza il mascara dal miracoloso effetto  “ciglia a farfalla” (qualunque cosa voglia dire) o la tinta per capelli per ottenere lo “sfumato” (basta poco, un aggettivo, ed ecco che diventa glamour anche quella che, a tutti gli effetti, è una ricrescita trascurata). Ancora: è sempre lei, drappeggiata di rosa pallido, la testimonial del profumo “Signorina” di Salvatore Ferragamo, e la nuova compagna di gommone dell’avvenente modello britannico David Gandy nell’ultimo spot per la fragranza Light Blue di Dolce & Gabbana (video allegato). Lo so, non ci avevate fatto caso: ma non venitemi a dire che a distrarvi sono stati i Faraglioni di Capri, anche se il video fosse stato ambientato al Lido di Ostia, la vostra attenzione sarebbe comunque finita sul costumino bianco di lui. Infine, come se non bastasse, il nome di Bianca è perfino circolato, di recente, fra quello dei presunti consumatori illustri di un nuovo, singolare, prodotto, da poco finito sul mercato, cioè il dentifricio che promette di far dimagrire, il dietifricio (http://www.dietifricio.com/it/index.html): un ultimo ritrovato che pare riesca a tenervi lontani dai cibi, se utilizzato regolarmente. Ora, sugli effetti reali dell’originale articolo non siamo in grado di garantire; certo che, anche in questo caso, la nostra top model sarebbe stata una scelta azzeccata come testimonial, soprattutto se il dentifricio avesse promesso un sorriso abbagliante (lo slogan già c’era, è quello cretino che ho utilizzato io stesso nel titolo di questo post). Se comunque ci fosse l’intenzione di farle girare uno spot al riguardo, per favore, stavolta, non fatela parlare. Oppure affiancatele un tizio bruttino.

We’ll miss you, Missoni

Questa è una storia che si svolge secondo un copione più vicino alla trama di una fiction o di un romanzo rosa che alla realtà. La storia di un campione nazionale di atletica leggera, un promessa dello sport, che un incontro fortunato ed alchemico trasforma in uno dei maggiori protagonisti del prêt – à – portér mondiale. Una storia in cui ricorre spesso, come un amuleto, una lettera fortunata, la M. M come maglia, vera anima delle loro creazioni, stravolta, reinterpretata, resa ogni volta superba grazie alla perizia artigianale celata dietro alla preziosità di lavorazioni. M come mix di colori, un’infinità di gradazioni diverse, fuse come per magia in combinazioni sempre originali, imprevedibili, poste fianco a fianco per colpire lo sguardo con la stessa intensità cromatica di una tela pointilliste. M come moda, che cavalcano con l’unicità del loro stile da quasi sessant’anni, senza scossoni o tentennamenti, ma imponendo una visione di eleganza e soprattutto un gusto ben precisi, assolutamente innovativi, lontani dalla schematica ripetitività dietro cui spesso si arroccano i mostri sacri del mestiere. M come Missoni, la compatta famiglia di stilisti – artisti – imprenditori, chiave di volta di un successo straordinariamente duraturo, perché al di là delle leggi effimere di un settore pronto a idolatrare o distruggere il talento di un creatore nel giro di una stagione. Tutto inizia nel 1953, anno del matrimonio tra Ottavio e Rosita, data in cui vede la luce il primissimo laboratorio di maglieria fondato dai due, più simile in realtà al clima informale, da “bottega” sartoriale, che alla piccola industria. Ci sono davvero tutte le premesse per un ingresso in grande stile nel mondo della moda: dopo i primi successi commerciali di capi dalla sbalorditiva vivacità di fantasie e di colori, della cui carica rivoluzionaria si accorgono ben presto le più importanti boutiques milanesi, nel 1967 finalmente il debutto a Firenze a Palazzo Pitti. Da qui ha inizio l’ascesa inarrestabile dei Missoni, che divengono in brevissimo tempo sinonimo di creazioni in cui il disegno e la forza della cromia prevalgono sull’esuberanza di linee. Fattore che, unito all’inesauribile inventiva con la quale realizzano e mescolano i motivi decorativi dei loro abiti, fantasie disparate, quadri e zig – zag, linee ondulate e pois – sottilmente evocative delle tradizioni folkloristiche dell’Africa o dell’America meridionale – costituisce la formula vincente dello stile Missoni, in grado di attraversare, inossidabile,  oltre mezzo secolo di moda. Nel 2013, l’annus horribilis: il 4 Gennaio, Vittorio, il primogenito della coppia, scompare, a bordo di un aereo in volo tra l’arcipelago di Los Roques e Caracas, in Venezuela. Due giorni fa la morte di Ottavio Missoni, il fondatore, novantadue anni compiuti lo scorso Aprile. Due tragici avvenimenti che gettano di colpo un’ombra cupa e dolorosa sulla luminosità della loro storia, destinata comunque a continuare.

Like a mom

Si può accusarla di tutto. Di essere, ad esempio, una vera e propria cantante sui generis, una riconosciuta anomalia apparsa da tempo sulla scena musicale, forse addirittura l’unica artista capace di costruire una delle carriere più redditizie e longeve che si ricordino, senza aver mai posseduto una voce particolarmente incantevole o memorabile. Di essere poi riuscita a colmare le sue scarse doti canore a suon di scandali e di altri criticabili espedienti mediatici, di essersi ogni volta ingegnata a trovare il modo giusto per far parlare continuamente di se’, per essere ricordata come rivoluzionaria e trasgressiva icona sexy, per non sparire dalle pagine dei giornali sopraffatta dall’avvento e dal fascino di nuove e più talentuose star. Di non essere stata in grado di domare quell’irrisolto tormento artistico chiamato grande schermo, di aver più volte fallito al cinema inanellando una serie da guinnes di pellicole insignificanti, brutte oppure rivelatesi poi catastrofici flop al botteghino. Di non sapere arrendersi infine agli anni che passano inesorabili, ostinandosi, a un’età in cui le cantanti in Italia pubblicizzano ormai prodotti contro l’irritabilità e le vampate da menopausa, a rivendere la propria immagine come quella di un’eterna e a tratti ridicola teenager più che di una sofisticata (e ahimé ritoccata) cinquantenne. Ma non si può negare che quello dell’indiscussa regina del pop Madonna (nel caso non fosse ancora chiaro parliamo di lei) con la moda sia un rapporto privilegiato, in quanto, ogni minima tendenza passata, anche per caso, tra le sue mani, diventa subito fenomeno da esportare, trend da imitare, diktat da seguire. Una mostra di alcuni suoi storici abiti di scena perciò, come quella che si è tenuta pochi giorni fa da Macy’s a Los Angeles, (http://www.ansa.it/web/notizie/collection/videogallery_spettacolo/04/27/Angeles-mostra-Material-Girl_8620218.html) aveva tutta la possibilità di trasformarsi in una ghiotta occasione per celebrare e ripercorrere i trenta anni di un’attività, come poche altre nello show business, basata sul look e sul trasformismo. Peccato che le (poche) vetrine, in cui si trovavano allestiti alcuni suoi costumi indimenticabili, come il corsetto con i seni a cono creato da Jean Paul Gaultier nel 1990 o l’abito da sposa  indossato agli MTV Music Award del 1984 (foto allegata) siano servite solo per fare da sfondo alla presentazione della linea di abbigliamento Material Girl (chiamarla in un altro modo?) disegnata (così pare) dalla figlia della popstar, la sedicenne Lourdes Leòn. Evento per altro a cui la signora Ciccone non si è neanche degnata di partecipare. E che assume quindi tutti i contorni di una sbrigativa, insulsa e superflua operazione di marketing. Che siamo disposti a giustificare solo pensando che “ogni scaraffone è bello a mamma soja” e che lo scaraffone in questione necessitava dell’aiuto di mammà, diva mondiale, ma forse, come tante altre mamme, incapace di dire di no alla progenie.

L’antitestimonial

Siamo alle solite. D’accordo, la bellezza non sarà poi tutto nella vita. O per dirla con quell’infinità di proverbi che amiamo elargire in queste occasioni, la bellezza in fondo è nell’occhio di chi guarda (ma meno fastidiosa di un bruscolino o di una lente a contatto), perché non è mai bello ciò che è bello (e come potrebbe?) ma solo ciò che piace (a me piacciono da morire le lumache al sugo, dunque sono belle?) e via discorrendo. Oppure, come era solita ripetere Brigitte Bardot, che in fatto di bellezza qualcosuccia in più di noi comuni mortali ne sapeva, se non altro per la sola e forse ipnotica visione di se stessa, tutte le mattine, per decenni, davanti allo specchio, “la bellezza è un dono che va restituito”. Sì, ovvio, verissimo, ma intanto a vent’anni, prima che cominciasse quell’inesorabile trasformazione da meraviglioso volto del grande schermo ad attivista battagliera, un po’ sciatta e piuttosto intransigente, sei stata l’indiscusso sex – symbol di un’epoca e il sogno erotico di milioni di uomini, e non esattamente perché andassi predicando la salvaguardia dei cavalli da macello o dei cuccioli di foca. Ma proprio per quel, come lo chiami tu, dono, mia cara Brigitte, che, ti ricordo, non tutti, anzi, in minoranza, hanno avuto la fortuna di ricevere e dunque di poterne godere o di servirsene, anche se solo per un periodo di tempo limitato, impossibile da prorogare perfino per le più avanzate tecniche di chirurgia estetica. Credo che a questo punto manchi solo di citare l’adagio “altezza mezza bellezza”, ma si tratta solo di un altro caso di saggezza popolare facilmente smentibile, portando avanti proprio come esempio il personaggio che avevo intenzione di affrontare, divagazioni a parte, in questo post.

E cioè un ragazzone di quasi un metro e novanta, che all’anagrafe risulta registrato come Brian Hugh Warner, che come cantante già dalla fine degli anni ’80 ha riscosso poi un successo inarrestabile con il controverso pseudonimo di Marilyn Manson, che soprattutto si è dichiarato, in più occasioni, sadomasochista, autolesionista, particolarmente incline a droghe ed eccessi, e per finire in allegria, l’anticristo in persona. E che a milioni di fan in tutto il mondo risulterà carismatico, talentuoso, forse perfino affascinante. Di certo, bello nel senso più puro del termine non lo è e non lo è mai stato. Non che poi lui stesso si dia da fare più di tanto per accrescere o migliorare la propria gradevolezza estetica; anzi, pare invece ci metta tutto l’impegno per sottolineare con trucco e parrucco da Morticia Addams e altri discutibili artifici i tratti irregolari di quel suo viso inquietante, a cui comunque deve parte della propria fama. Uno sforzo che alla fine sembra sia stato premiato, almeno a giudicare dalla scelta del neo-direttore creativo di Yves Saint Laurent Hedi Slimane, che ha deciso, oltre che di mutare il nome storico dell’azienda in un più semplice e asettico Saint Laurent, di scommettere proprio sulla faccia pallida e picassiana di Marilyn Manson quale nuovo testimonial della griffe (foto allegata). Evento che assume quindi il sapore di una rivincita storica per tutti i bruttini, oggi finalmente rappresentati dal cantante statunitense, nelle pagine patinate delle riviste di moda, tra i soliti attori e indossatori belli e un po’ stucchevoli. Quelle Beautiful People che lo stesso Manson arrivava a deplorare in musica in uno dei suoi brani più noti: e che forse, già allora, aveva il sospetto di poter un giorno tranquillamente scalzare.