A Natale puoi…

▶ Bridget Jones Diary – Renée Zellweger, Colin Firth Reindeer Christmas Jumper OFFICIAL HD VIDEO – YouTube.

Non mi venite poi a fare i pignoli puntualizzando che il seguente post è stato probabilmente inserito nella categoria sbagliata, cioè “moDa”. Primo, qui c’è solo una persona, cioè il sottoscritto, deputata a sistemare le cretinate che scrive dove meglio crede, e se una categoria mi rimane alla fine un po’ sguarnita, è bene rimpolparla di contenuti. Secondo, il primo consiglio che andrà a comporre l’imminente lista di accorgimenti e strategie per affrontare la giornata di domani (è Natale, lo ricordavate, vero?), un modesto ma collaudato elenco di istruzioni finalizzate al “come sopravvivere al 25 Dicembre”, riguarda proprio l’abbigliamento, se non altro per la funzione spesso “catartica” dei capi che scegliamo, a cui affidiamo il compito di tradurre il nostro (pessimo) umore. Le prossime righe saranno perciò volte a illustrare pochi, semplici mezzi per poter neutralizzare le piccole e grandi scocciature di cui è costellato ogni santo Natale, secondo modalità ovviamente estranee a un’ipotetica persona di classe o buongusto, che d’altronde non si sognerebbe mai di seguire alla lettera i miei personali consigli (come tutto il mio blog, del resto). Bene, cominciamo:

1) Siate ridicoli: sì, avete capito bene. Indossate pure quel terribile maglione di lana tutto decorato con i cristalli di neve o il disegno di una renna dalle corna ramificate all’infinito, proprio come Mark Darcy/Colin Firth nel diario di Bridget Jones (video allegato). Tanto non c’è scampo: nessuno è immune dal regalo d’abbigliamento kitsch, che vogliate oppure no vi ritroverete comunque a scartare un paio di guanti con le dita a forma di faccina, una sciarpa simile a un animale morto o un’insalata troppo rigogliosa, un cappello fluorescente pieno di trecce o nappe. Siate superiori, ironici, coraggiosi: rivestitevi tranquillamente di tutte le brutture ricevute, e vi approprierete anche di un altro spirito, elegante no di certo, ma di sicuro più divertito.

2) Siate lenti: soprattutto nei preparativi personali, impiegate ore per eventuali depilazioni, rasature, trucco, parrucco, e abbondante profumazione. Tutto il tempo che spenderete nella cura di voi stessi, del vostro aspetto (che, a Natale, deve essere impeccabile, per far schiattare d’invidia chi vedete solo una volta all’anno per le feste) è tutto tempo risparmiato per la noiosissima parentesi “scambio di auguri e di regali”, che diventerà più veloce che mai (“sai, devo proprio andare, ho fatto tardi stamani” è una scusa che funziona sempre. Poi bacetto al volo, e scia di profumo da lasciare, rigorosamente.) Allenatevi inoltre a ripetere allo specchio “Beeeneee” con un sorriso convincente e naturale. Tra tutti i parenti, amici, ex – conoscenti che incontrerete – perché, tanto, a Natale nessuno è evitabile – salterà fuori senza dubbio la domanda che non vorreste mai sentirvi rivolgere in questo periodo (del tipo “e l’amore/il lavoro/la famiglia e/o la casa, dimmi, come va?”), a cui occorre replicare per forza con un entusiasmo inesistente, senza far trasparire dal volto imbarazzo o disagio. Ecco dunque aprirsi il collegamento con la terza regola che è…

3) Siate bugiardi. Sfacciatamente. Tanto non è mica inconciliabile con il classico “tutti più buoni”. Vi consiglio solo di mentire, come ho fatto ad esempio poco fa per non farvi beccare in contropiede dai quesiti più inopportuni. Oppure con chi si presenterà – perché, statene pur certi, succederà anche a voi - corredato di regalo costosissimo o realizzato interamente con le sue mani (anche il pacchetto, e ci terrà a dirvelo) e voi non ne ricordavate neanche l’esistenza sulla faccia della terra. Inutile rimediare, con questo genere di persone, con un pensiero last minute, da comprare dove, poi, la figuraccia ormai è andata e ogni rattoppo sarebbe superfluo. Per uscirne basta esordire candidamente con “ma come, ci eravamo ripromessi niente regali quest’anno, solo beneficienza (citate anche qualche ONLUS, se ne ricordate)” e perlomeno non sembrerete dei mentecatti o avrete comunque insinuato il dubbio nel vostro interlocutore che la sua memoria stia cominciando a fare cilecca. Se tutto questo non dovesse bastare, ultima e più importante regola

4) Siate ubriachi: niente fa trascorrere più velocemente il Natale come un doppio aperitivo consumato già dal mattino presto. Fidatevi. E tanti auguri.

Mostruoso talent(o)

C_4_articolo_2007527__ImageGallery__imageGalleryItem_0_image

E’ soltanto un dubbio, ma forse, anche stavolta, si tratta della semplice realtà dei fatti: quello tra moda e tv, è, alla fine, un connubio infelice. Un matrimonio imperfetto, squilibrato, un’unione che genera spesso obbrobri, che mortifica la natura del variegato linguaggio dello stile, che non rende giustizia alle diverse potenzialità del mezzo televisivo. Basterebbe arrendersi all’evidenza che il piccolo schermo sia, tutto sommato, inadatto a narrare le trasformazioni e le dinamiche in fatto di tendenze, o forse siamo ancora lontani dal trovare una formula particolarmente appropriata che riesca a coniugare alla perfezione due mondi così distanti. Fatto sta che al momento i numerosi, spesso superficiali, talvolta scialbi programmi televisivi, in cui la moda è di frequente relegata, soprattutto in Italia,  faticano a distinguersi per originalità, competenza, appeal. Inutile sottolineare che l’esempio più calzante è il modello Jo Squillo, un contenitore privo di una regia sensata, che indugia sulle prodezze di un ex-cantante pop anni ’80, riciclatasi da tempo come conduttrice, intenta a scorrazzare tra sfilate, backstage e parterre con una telecamera piazzata sulla fronte, come fosse una lampada da minatore, tra la perplessità generale e lo sgomento degli intervistati. Discorso a parte meritano i canali televisivi tematici, quelli che per fugare ogni dubbio sulla loro natura hanno sempre la parola Fashion nel proprio titolo (Fashion Tv, World Fashion Channel, etc), e che arrivano a sfinire anche il più accanito spettatore o appassionato della materia, sottoponendolo a ore interminabili di video istituzionali di migliaia di collezioni, provenienti dai quattro angoli del mondo, trasmessi tutti per intero. Altrettanto fastidioso è l’eccesso opposto: il montaggio incalzante di immagini, frammentate ai limiti dello schizofrenico, non di rado appannaggio dei servizi di vari tg, o delle trasmissioni che nel campo hanno fatto scuola (l’imitatissima Nonsolomoda, ad esempio), dove non si fa mai in tempo a distinguere un tacco, una fibbia, un occhio ed ecco che ti ritrovi già catapultato ai titoli di coda. Se a questo si aggiunge il rammarico per la momentanea e ingiustificata sparizione dal palinsensto de La7 dell’unico, longevo, programma confezionato con gusto e perché no, cultura, M.O.D.A, ideato e condotto dalla bravissima Cinzia Malvini, al cospetto del deleterio moltiplicarsi altrove di personaggi bizzarri e caricaturali, in più spacciati per esperti di costume, che ti propinano, dalle 8 del mattino, discutibili consigli su cosa indossare, il panorama comincia a farsi davvero desolante.

Avevo perciò atteso volentieri e guardato di buon occhio l’annunciato debutto di una nuova trasmissione televisiva, Fashion Style, in onda, dallo scorso Novembre, il lunedì sera su La5, che forse, vestendo i panni del “talent“, del programma cioè volto alla ricerca dell’astro nascente in quel settore – format già collaudato sulle più varie categorie professionali come cantanti/ballerini/chef e di recente, anche scrittori (se non l’avete ancora visto, vi consiglio Masterpiece, la domenica sera, su Rai 3) – poteva risultare un esperimento interessante. Ancor più degna di attenzione la presenza, tra i giurati deputati a valutare le qualità dei vari aspiranti fashion designer, make – up artist, hair – stylist e modelle selezionati nelle puntate, di Cesare Cunaccia, arguto scrittore e giornalista di moda, firma autorevole non così nota al grande pubblico perché di rado presente davanti alle telecamere. Peccato che nel suo delicatissimo e azzeccato ruolo Cunaccia sia affiancato dalla spigliata Alessia Marcuzzi, sempre brava e spiritosa, per carità, (nel caso specifico offuscata però da una luce innaturale, che le dona quell’alone da apparizione mariana a cui già da tempo ricorrono Lilli Gruber e Barbara d’Urso), ma che con la moda, francamente, c’azzecca quanto un mio eventuale ingresso da un parrucchiere. Decisamente più incomprensibile poi la terza giurata, Silvia Toffanin, smagrita ex – valletta, adesso presentatrice, imparentatasi poi con un senatore decaduto (è la compagna di Pier Silvio) che, soprattutto in un’occasione, dimostra di non conoscere il limite del senso del ridicolo, quando si rivolge poco garbatamente a una modella candidata con un “potresti fare la velina”, forse dimenticando che da quella schiera di fanciulle svestite e sgambettanti, in “ine”, proviene lei stessa (era una “letterina” di Gerry Scotti, insieme ad Alessia Fabiani e Ilary Blasi). Il tutto introdotto e commentato dai frizzanti interventi di Chiara Francini, giovane e graziosa attrice, un po’ troppo attenta a sottolineare sempre la sua “toscanità” (voglio dire, neanche la mia vicina ultraottantenne, cresciuta in pieno territorio fiorentino, è solita esprimersi con tutte quelle “c” e “g” strascinate) tra le, spesso importabili, creazioni, le acconciature, il trucco e il fisico dei “provinanti”, in una girandola di espressioni come trendy, glamour, stylish buttate lì a casaccio e risultati il più delle volte grossolani, pacchiani, da dimenticare. Impossibile infine non notare lo studiato tormentone che solerti, giuria e conduttrice, tendono, allo stesso modo, a ripetere all’infinito: “A Fashion Style non conta solo il talento”. E meno male, aggiungiamo noi: perché non sembra affatto comparire.

Post-upendo!

P10102333

E’ bene sottolinearlo subito, questa volta si tratta di un post autopromozionale. In maniera diretta, esplicita, oserei dire sfacciata, mi servirò insindacabilmente del mio blog per affrontare e pubblicizzare il mio lavoro. Le ragioni mi paiono chiare: qui sopra decido io, senza possibilità di appello, ed essere liberi di scrivere scemenze, di sfogarsi, di sparire per giorni senza dover rendere conto a nessuno (se non ai soliti dodici miei lettori che lamentano le mie brevi fughe), digitare eventualmente parole senza senso tipo “qwertyuiop”, rimane di certo uno dei lati più divertenti del possedere un proprio spazio on-line. L’altro, e forse più importante motivo, è che amo profondamente quel che faccio: ho scelto di assecondare una passione dirompente, di lanciarmi in una professione straordinaria e insicura, in ambienti talvolta ostili, disorganizzati, aridi di opportunità e di solide prospettive per il futuro. Ma rimango uno storico del costume: risposta che quando fornisco a chi mi domanda “e tu, di cosa ti occupi?” suscita spesso facce perplesse, angoli della bocca ripiegati in modalità dubbiosa, espressioni tra il risibile e il compassionevole. Quindi, tanto per chiarire, sono un modesto e squattrinato esperto di abiti e di moda (precisazione che aggiungo sempre alla risposta di cui sopra…la parola “moda” intendo, non le delucidazioni sul mio conto perennemente in rosso): lavoro che affianco necessariamente ad altri impegni o collaborazioni, perché non rientro di certo tra le figure più richieste in questo paese, perché in pieno terzo millennio vivere di “vecchi stracci” da studiare è arduo, perché alla fine non rinuncio neanche a mettermi in discussione e ad affrontare nuovi o diversi settori. Ma quando mi si presenta finalmente l’opportunità di misurarmi nel campo che più di ogni altro avverto come mio, ne ricevo un’iniezione di pura vitalità che mi ricarica per lungo tempo, che mi ripaga delle mille difficoltà e delle spiacevoli, inevitabili delusioni, e che non penso alla fine di essere mai riuscito a saper trovare altrove. Fortunatamente, da ben cinque anni, collaboro con la Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze, unica istituzione museale nazionale deputata ad illustrare la storia della moda dal passato sino ai nostri giorni: il capitolo seguente sarà perciò il resoconto della sua ultima, imperdibile, mostra.

Ci sono voluti ben due anni di riunioni interminabili, di scambi di e.mail al vetriolo o di lunghe telefonate di sostegno tra tutta l’equipe, di intere giornate trascorse nei depositi del museo a valutare, misurare, analizzare le creazioni ritenute più adatte all’esposizione, il tutto coordinato dall’infaticabile talento della direttrice Caterina Chiarelli. Il risultato è la nuova e coinvolgente selezione espositiva Donne protagoniste del ’900, inaugurata lo scorso 12 Novembre e che rimarrà ad impreziosire le sale della Galleria per i prossimi due anni, secondo l’appurato criterio che un abito non possa rimanere al pubblico per lungo tempo, pena subire uno stress fisico tale da comprometterne la conservazione. La sfida rimane perciò ogni volta quella di assecondare la particolare natura dinamica del museo stesso, che avvalendosi della continua rotazione di opere e manufatti da esporre rimane un unicum nel suo panorama, e di riuscire inoltre a legare i singoli abiti, in base ad un principio già adottato nelle ultime mostre, da un tema comune che si snodi lungo tutto il percorso. Questa volta il fil rouge si tinge quindi di rosa, perché volto ad illustrare l’intero universo femminile degli ultimi due secoli, mettendo in scena le creazioni e il guardaroba di donne che si sono distinte nei più diversi settori, assegnando ogni volta alla moda un ruolo di spicco nella propria vita. Ci sono dunque volti noti dello spettacolo, come Patty Pravo, visibilmente emozionata e lusingata il giorno dell’anteprima, che ha deciso di donare alla Galleria alcuni suoi abiti storici indossati a Sanremo, come il celebre kimono in maglia di metallo creato da Gianni Versace nel 1984 (foto allegata), appositamente collocato sulla sommità di una lunga scala che ricorda proprio quella del festival canoro. Ci sono, per la prima volta orgogliosamente esposti in un museo statale, le raffinate e stravaganti creazioni di Anna Piaggi, la più eccentrica e colta giornalista di moda, scomparsa di recente, che nella sua straordinaria carriera di musa e amica dei più importanti stilisti ha collezionato pezzi rarissimi come manti e mise di primo ’900 firmati Poiret, Gallenga, Schiaparelli. Ci sono i semplicissimi ed emozionanti abiti privati di Eleonora Duse, attributi all’artista spagnolo Mariano Fortuny e risalenti al breve periodo di lontananza dalle scene dell’attrice. E ancora i pregiati e rappresentativi vestiti di Cecilia Mattuecci Lavarini, annoverata tra le più importanti collezioniste mondiali di haute couture, di Rosa Genoni, prima creatrice nazionale ad introdurre nel secolo scorso il concetto di Made in Italy, i ricercati e divertenti bijoux di Angela Caputi. E molte altre superbe e spettacolari creazioni, che non vi svelo, sicuro che vogliate accorrere ad apprezzarle di persona.

History Chanel

▶ “Once Upon A Time…” by Karl Lagerfeld – YouTube.

“Sapevi che Chanel ha cominciato facendo cappelli?” mi chiede a bruciapelo, qualche sera fa a cena, mio padre, tra la mia faccia incredula, con la bocca spalancata dallo stupore, lo sguardo preoccupato di mia madre traducibile in un “Te lo dicevo io, sta partendo di testa” e l’espressione attonita del mio amore che mi bisbiglia timidamente “Che faccio, gli tolgo il vino?”. “Bravo, è verissimo” rispondo io “la prima boutique aperta era proprio una modisteria” “in un paesino della Normandia” aggiunge lui “ah, e aveva anche una sorella!” “Va bene, chi vuole il caffè?” taglia corto mia madre, destabilizzata dall’ipotesi che un altro Guasti manifesti all’improvviso un qualche nocivo interesse per la moda e la mia dolce metà che aggiunge “Io prenderei un amaro”, forse pensando di affidare all’alcol la sua crescente consapevolezza di trovarsi a tavola con una famiglia di svitati. La conversazione in realtà non a tutti potrebbe sembrare così campata in aria. Forse perché non conoscete mio padre. La creatura che incarna con più correttezza gli esatti antipodi della parola moda. Che vivrebbe eternamente piantato nella sue tute da ginnastica, con le solite scarpe tutti i giorni ai piedi, che al limite arriva a rinnovare il suo look aggiungendo in inverno un berretto di lana. Che dubito abbia mai fatto una sola ora di shopping in tutta la sua vita, che potrebbe perfino incontrare Giorgio Armani in persona e riuscire a pensare “Questo qui ha una faccia conosciuta, forse è un attore”. Che da uomo concreto, pratico, capace, anche di non pronunciare mai parole inutili o di troppo, rifugge automaticamente, ma senza disprezzo, qualsiasi manifestazione superflua di cura dell’esteriorità. Che anche quella sera, come spesse altre volte, ridacchia sotto i baffi, svelando i suoi denti piccoli e radi, identici ai miei, per poi concludere fiero “T’ho stupito, eh?”.

“Questo di sicuro” replico io “ora però dimmi dove l’hai imparato” “Ho visto un film” mi risponde “forse un po’ vecchio, in bianco e nero”. Non so quanto sia stato a rimuginarci sopra, prima di capire quale pellicola avesse mai potuto guardare per apprendere così dettagliatamente alcuni aspetti, neanche tra i più conosciuti, della vita di Coco Chanel. Poi, d’un tratto la soluzione: si trattava senza ombra di dubbio del corto Once upon a time (video allegato). Un video di una dozzina di minuti, per la regia dello stesso Karl Lagerfeld, anima della maison Chanel da tre decenni esatti, uscito la scorsa primavera per celebrare i 100 anni della prima boutique Chanel. Una ricostruzione un po’ romanzata ma efficace del debutto commerciale di Chanel a Deauville, piccola località di villeggiatura della Francia settentrionale, in pieno clima Belle Époque. Un originale tributo alla storia della più grande designer del Novecento, alle sue semplici e rivoluzionarie idee di stile – a partire dai cappelli piccoli e lineari, in un’epoca in cui i copricapi erano un ingombrante tripudio di piume – con una magrissima Kiera Knightley nei panni della stessa mademoiselle Coco, un piccolo stuolo di top model (Lindsay Wixon, Saskia de Brauw, Stella Tennant) e di socialites (lady Amanda Harlech, Jamie Bochert) chiamate ad interpretare invece personaggi, aristocratici e non (la marchesa Casati, lady de Grey) che gravitavano intorno all’universo Chanel degli inizi. Uno short movie che avevo guardato con misurato interesse, senza riflettere invece sul suo potenziale “didattico”, perché facile ed accessibile a tutti, anche a chi non ha mai masticato moda. “Ma non era un vero e proprio film” dico infine a mio padre “tu intendi il cortometraggio di Karl Lagerfeld” “Karl chi?” risponde lui, e io “Lagerfeld, babbo (ndr: la parola “papà” a casa Guasti non è mai esistita), lo stilista di Chanel” “No, non lo conosco” conclude lui, e poi ”dal nome pensavo fosse un attore”. Ok, come non detto.

Dancing queen

lea_t2Non è ancora celebre né paparazzata come Naomi, o controversa e inossidabile come Kate Moss, neanche strapagata come la brasiliana Gisele Bundchen, sua connazionale. Eppure Lea T, al secolo Lea Cerezo, professione modella, 32 anni vissuti da cosmopolita tra l’Italia, la Francia e il Sud America è tutt’altro che una sconosciuta nel rutilante mondo del fashion – system. Il suo è piuttosto un nome di nicchia, di quelli che difficilmente escono dal giro degli addetti ai lavori, la sua enigmatica bellezza non risulta ancora inflazionata come nel caso delle altre top model, a dire il vero non sarebbe neppure corretto definirla una top model. Che sia idolatrata e corteggiata da stilisti e fotografi di mezzo mondo, questo è fuori discussione; soltanto la scorsa settimana il suo corpo sottile incedeva sulle passerelle di Parigi, splendidamente fasciato in una creazione di Givenchy, marchio di cui è la principale testimonial da diverse stagioni. Anzi, per Riccardo Tisci, italianissimo direttore creativo dal 2005 al timone della maison francese – caso eclatante di strepitoso talento nazionale accaparrato in giovane età dai più furbi cugini d’Oltralpe – Lea T. è molto di più dell’intenso volto scelto per le sue campagne: è un’amica, una sorella, una musa. Una creatura naturalmente dotata di un fascino singolare, un mix di esuberanza e fragilità, una per cui, tra uno scatto e l’altro durante i servizi fotografici o nei backstage delle sfilate, si è soliti spendere quegli aggettivi che fanno subito professionista del settore come ”adorable”, “amazing”, “divina”. Una che deve indubbiamente parte del suo successo, oltre che alla notevole e innegabile avvenenza, alla sua, peraltro mai taciuta, ambiguità sessuale: in realtà, pur non avendone lei stessa mai fatto mistero, a chi la ama e la segue da tempo non è mai importato granché se sulla sua carta d’identità ci sia scritto uomo o donna. Per la moda Lea T è solo e soltanto Lea T. Poi è arrivata la tv.

Che al contrario, non si è limitata a raccontare il lato umano di tutta la sua vicenda, a narrare quel percorso, tormentato e doloroso, anche dal punto di vista fisico, di chi a un certo punto della vita scopre di abitare nel corpo sbagliato. Ha ovviamente rovistato nel suo passato, saccheggiando i suoi ricordi di un’infanzia privilegiata da figlio di un famoso e amato calciatore (il padre Toninho Cerezo ha militato nella Roma negli anni ’80), seguendo con spropositato, superfluo e dettagliato interesse tutte le fasi della sua progressiva e intima trasformazione. Adesso è andata oltre: tentando di farne, indecorosamente, un’attrazione di grido, un fenomeno da baraccone, provando a solleticare la morbosità del grande pubblico con il richiamo del “terzo” sesso che entra trionfalmente sui nostri schermi. E’ successo a Ballando con le stelle, semipenoso show del sabato sera di Rai Uno, condotto da un’immutabile Milly Carlucci, in cui personaggi più o meno noti dello spettacolo e dello sport fanno a gara per distruggere la loro fama di sex – symbol dimostrando di non essere in grado di eseguire a tempo neppure due passi di tango o di valzer. Stando sempre attenti, tra l’altro, per quel finto perbenismo, buonismo o moralismo che contraddistingue la tv di Stato, a non citare mai, nel caso di Lea, concorrente del programma, la parola trans, quasi suonasse come un insulto o peggio, un vocabolo del tutto nuovo o incomprensibile per le delicate orecchie degli ascoltatori della rete. Attribuendole un’immagine superata e stereotipata – un fiore appuntato tra i capelli, una gonnellina bianca, leggera e svolazzante, come se fosse appena uscita da una pellicola con Carmen Miranda – puntando sullo scandalo o sullo sbigottimento per la sua presenza tra i vip ed ottenendo una cocente delusione per ciò che il video restituisce: la figura di una donna delicata, per niente trasgressiva, men che mai volgare, di sicuro molto meno di alcune stelline nel cast dello stesso programma. Ecco chi è semplicemente Lea in tv: una modella, che balla, con grazia, e sorride, spesso. Alla faccia, forse, di chi, l’ha seguita solo per deprecabile curiosità.