Tanta voglia di lei?

Sembrava la trama di un film già visto altre volte, quella che solo ieri serpeggiava sul web come la notizia più indiscreta sbucata fuori alla vigilia delle sfilate milanesi di prêt – à – portér, iniziate proprio oggi e in programma sino al 26 con tutto il noto contorno di debutti, polemiche e gossip che accompagneranno le proposte degli stilisti per il prossimo autunno/inverno (http://www.fashionunited.it/News/Columns/Uniqueness%0B%3A_divorzio_tra_Pinko_e_Facchinetti_201302198539/). Anche perché, ci chiedevamo, com’è possibile che quando si tratta di “divorzi eccellenti” tra un brand di moda e un designer ci sia sempre di mezzo lei? Lei è Alessandra Facchinetti, stilista, classe 1972, figlia del noto tastierista dei Pooh Roby (come si evince dall’impressionante somiglianza) e sorella dell’altrettanto famoso conduttore/cantante(?) Francesco, dal 2011 impegnata in una collaborazione con il marchio Pinko in un progetto piuttosto interessante e innovativo, Uniqueness, una linea presentata e venduta esclusivamente sul web (e in un paio di temporary store aperti e chiusi a Londra e a Milano) al di fuori quindi dell’abituale stagionalità delle settimane della moda. Fino a ieri appunto, quando si fanno sempre più insistenti le voci di una separazione, pare  ”consensuale”, tra  i vertici della Pinko e la Facchinetti, nonostante l’unanime apprezzamento e il discreto successo, anche mediatico, che le sue collezioni avevano via via riscosso. Il che, nel fashion system, soprattutto negli ultimi decenni, non costituisce un’eccezione: stilisti che vanno e che vengono e che si succedono come mele sugli alberi alla direzione creativa di una maison sono ormai all’ordine del giorno. Se non fosse che la Facchinetti deve proprio parte della sua notorietà al suo continuo girovagare professionale, quasi una sorta di originale gioco dei quattro cantoni che la vede spesso protagonista di prestigiosi incarichi e soprattutto di improvvisi abbandoni con tanti celebri marchi. Dopo 7 anni formativi da Miu Miu infatti approda da Gucci, dove nel 2004 è chiamata a sostituire, compito delicatissimo, il direttore creativo uscente, Tom Ford, colui che aveva ridato lustro a livello mondiale alla casa di moda fiorentina: durata 8 mesi. Nel 2007 la seconda, importantissima, chance (perché poi è brava, va detto): altra direzione creativa di un  marchio storico, Valentino, orfano del fondatore che lascia il campo dopo più di 40 anni di attività, altra breve durata, 11 mesi, per “disallineamenti con la visione aziendale”. E siamo a due. Seguono poi una collaborazione piuttosto riuscita con Moncler, per la realizzazione di una linea di piumini dall’aspetto onirico, e infine il progetto Uniqueness che pare ormai chiaro entrato di diritto nel suo travagliato passato. Perché la “Facchinetti story” riserva oggi l’ultimo colpo di scena: a settembre, come anticipato stamani dallo stesso presidente Diego Della Valle, Alessandra firmerà la sua prima collezione per Tod’s (http://qn.quotidiano.net/moda/2013/02/20/848264-tods-nuova-stilista-alessandra-facchinetti-diego-della-valle.shtml) non limitandosi solo all’ideazione di accessori ma dedicandosi anche allo sviluppo di una vera e propra linea di prêt – à – portér. Lunga vita a questa nuova unione? Si accettano scommesse.

Belle senz’anima

Sull’evoluzione del loro ruolo come del loro canone estetico si potrebbe tracciare una storia sociale della moda. Esistono pochi altri parametri così indicativi delle trasformazioni del gusto e del tentato perseguimento di un astratto ideale di bellezza, durante tutto il ’900, come quelli che si accompagnano a una professione passata in pochi decenni dal completo anonimato e dall’accusa di sconvenienza ad essere annoverata tra le più ambite del pianeta. Stiamo parlando delle modelle, o delle mannequin, come venivano definite, con un pizzico di tono dispregiativo, le indossatrici che già nel XIX secolo nei salotti della couture parigina avevano il compito di mostrare le creazioni ai clienti degli atelier di alta moda. Manichini appunto, sagome, corpi senza volto né storia, indispensabili solo a conferire grazia e movimento ad abiti altrimenti inanimati. E’ soltanto negli anni ’50, quando davanti all’obiettivo e alla genialità di fotografi come Irving Penn o Richard Avedon verranno chiamate a intepretare la magnificenza di Christian Dior, di Cristobal Balenciaga, di Hubert de Givenchy, che assurgono al rango di muse di eleganza. Hanno i nomi di Dovima, Suzy Parker, Dorien Leigh, spesso radici aristocratiche, sono sconosciute ai più, i loro corpi longilinei e filiformi non destano scandalo: le icone di bellezza rimangono le attrici, l’immaginario erotico è presidiato dalle maggiorate, dalle gambe di Marilyn Monroe, dai fianchi generosi di Sofia Loren, dal fascino prosperoso e rassicurante con cui si tentava di lasciarsi alle spalle l’austerità del secondo conflitto mondiale. Nei decenni successivi il primo riconoscimento di celebrità, grazie alla consacrazione nelle pagine delle riviste di moda più famose come Vogue e Harpers’ Bazaar, di nomi come Twiggy, inglese, forme acerbe e viso dai tratti infantili, simbolo della Swinging London degli anni ’60, o di Veruschka, bellezza teutonica inarrivabile, una carriera artistica alle spalle e un paio di incursioni nel mondo del cinema, corpo più richiesto e fotografato negli anni ’70. Per giungere finalmente agli anni ’80 e ’90, momento di massimo splendore per le indossatrici, che grazie all’intuizione di stilisti come Gianni Versace e Karl Lagerfeld, si tramutano in un vero e proprio fenomeno planetario di comunicazione, quello delle top model. Linda, Christy, Naomi, Claudia, la stampa le chiama solo per nome, quasi come fossero divinità, o nel tentativo di creare una sorta di impossibile familiarità: sono le perfette interpreti di una moda che prima di un prodotto vende un sogno, di bellezza, fama, giovinezza, amplificato dagli eccessi, anche economici, che la loro vita, tra copertine e passerelle, impone. Fino ai giorni nostri, in cui i volti delle modelle, ritornate a un parziale anonimato, si succedono a una velocità impressionante, come ondate che non lasciano però alcuna traccia, seguendo il ritmo forsennato di un mercato che propone tutto e il contrario di tutto nel giro di una stagione. Un rapido excursus storico che da oggi e fino al 19 Maggio è possibile ripercorrere nelle sale del Musée Galliera di Parigi (http://www.paris.fr/loisirs/musees-expos/musee-galliera/mannequin-le-corps-de-la-mode/rub_5854_actu_125546_port_12995) grazie alla mostra Mannequin – le corps de la mode: un’antologia di immagini, video e riviste per illustrare come, al pari delle tendenze che da sempre impersonifica, è cambiato negli anni il mestiere di indossatrice: una delle poche professioni che talvolta, più o meno consapevolmente, della moda ne ha rispecchiato l’anima.

Sfide di moda

Valeria Golino sfida la moda con Greenpeace – YouTube.

La vicenda suona un po’ come una figuraccia. O meglio, come un’occasione sprecata per tutta l’industria della moda di svincolarsi finalmente da quell’immagine di superficialità con cui troppo spesso e troppo frettolosamente si è soliti etichettare l’intero fashion system. Perchè va detto una volta per tutte: non basta ribadire che la moda in realtà è una disciplina serissima, e l’occuparsene quotidianamente con (sempre più rara) professionalità, per quanto poi talvolta si concretizzi in articoli raccapriccianti del tipo “sì al tacco alto per la prossima stagione” o “il trend del giorno: graziosi abitini”, richiede invece un impegno assiduo, competenza, cultura. Non è neanche sufficiente sottolineare che si tratta pur sempre di una delle voci trainanti dell’economia nazionale, che il settore dell’abbigliamento impiega decine di migliaia di persone solo nel nostro Paese, che il Made in Italy infine rappresenta uno dei nostri pochi motivi di vanto nel mondo, dato che all’estero siamo sempre e solo riconosciuti nel migliore dei casi per il cibo e l’arte, nel peggiore per la mafia e per qualche politico pagliaccio. Fatto sta che per pregiudizio, snobismo, finto moralismo, la moda con tutti gli annessi e connessi, incluso il variegato universo professionale che le ruota intorno, sarà sempre tacciata di futilità. Per carità, i problemi del mondo sono altri: chi, come me, da anni affronta la dura gavetta per trasformare la propria passione per la moda in un “vero” lavoro si rende benissimo conto che svegliarsi al mattino e occuparsi di abiti è un privilegio, ci mancherebbe. Ma paternali sull’importanza e la serietà della scelta del proprio mestiere sono disposto ad accettarle solo da chi per professione salva ogni giorno vite umane. Per il resto siamo tutti sullo stesso piano: o no? Chiarito ciò, è pur vero che nel 2013, quando ormai da decenni facciamo i conti con continue problematiche ambientali e un minimo di coscienza ecologica dovrebbe essere sorta in ciascuno di noi senza dover ricorrere a continue battaglie promosse dalle numerose campagne di informazione e sensibilizzazione per la salvaguardia del nostro pianeta, stupiscono e in parte deludono i risultati della sfida al mondo della moda lanciata da Greenpeace proprio in questi giorni (http://it.thefashionduel.com/). Si tratta dell’ennesimo appello, riassunto in un spot d’impatto diretto da Anna Negri con l’attrice Valeria Golino (sempre bellissima) come testimonial (video allegato), che la più famosa associazione di tutela dell’ambiente ha lanciato a quindici importanti fashion brand italiani e francesi (tra cui Prada, Dolce & Gabbana, Chanel) attraverso un questionario di venticinque (scomode) domande per testare l’impegno dei suddetti marchi a proteggere e a rispettare habitat e materie prime nella produzione delle loro collezioni. Veniamo così a sapere che l’unica maison promossa, quella cioè che al momento attua un’efficace politica produttiva di salvaguardia ambientale contro il pericolo di deforestazione e di inquinamento da sostanze tossiche è Valentino (lode). E le altre? Un disastro: molti i brand che si sono rifiutati di rispondere, insufficienti, a volte drammaticamente, le misure adottate dai rimanenti. In sostanza, un’opportunità gettata via per un concreto rilancio dell’immagine della moda del mondo, che poteva invece significativamente contribuire a rafforzare l’idea della serietà e dell’importanza dell’industria stessa. E dare finalmente all’odiosa parola “lusso” quella sfumatura etica che ancora le manca.

Elegante, perfetto…noioso?

Suit & Tie (Official Lyric Video) – YouTube.

Entrambi non hanno bisogno di presentazioni. L’uno, Tom Ford, è lo stilista artefice della rinascita e del rilancio, agli inizi degli anni ’90, dello storico marchio italiano di moda Gucci, colui che azzeccando una collezione dopo l’altra ne ha riacciuffato le sorti, riportandolo in auge e riposizionandolo tra i più ammirati e venduti al mondo, facendone nuovamente così un simbolo internazionale di allure e di superba eleganza. Texano, 51 anni di fascino indiscutibile, gli occhi alla Richard Gere perennemente socchiusi, (forse perché fa “più sexy” o forse per una leggera miopia), una relazione quasi trentennale con il compagno, il giornalista inglese Richard Buckley, dopo l’addio alla Gucci e una felicissima parentesi nel cinema nel 2008 (è il regista del toccante A single man, la pellicola che detiene il record di lacrime da me versate sui titoli di coda) dal 2004 si occupa, con alterne fortune, del proprio brand omonimo di abbigliamento e accessori. L’altro, Justin Timberlake, cantautore da svariati milioni di copie di dischi venduti nei cinque continenti, ballerino, attore (notevole la sua prova in Alpha Dog di Nick Cassavetes, nel 2005) doppiatore, produttore, probabilmente supereroe visto tutto ciò che riesce a fare (e bene), ex di Britney Spears, ex di Cameron Diaz, ha da poco riconfermato il suo unico interesse per le donne famose sposando pochi mesi or sono in Puglia (mbeh? non sapevate della passione fra le coppie hollywoodiane per i pranzi a base di orecchiette?) l’attrice Jessica Biel. Con due curricula così, la collaborazione che li ha visti entrambi impegnati per il nuovo imminente album di Timberlake dal titolo 20/20 e prodotto da Jay-Z, anticipata solo due giorni fa dal magazine britannico Daily Telegraph (http://fashion.telegraph.co.uk/columns/bibby-sowray/TMG9831972/Tom-Ford-and-Justin-Timberlake-collaborate.html) suonerebbe come qualcosa di unico ed esplosivo. Peccato che a giudicarne gli esiti, come la preview del primo singolo Suit & Tie (video allegato) tutta la faccenda si riduca a una banalissima, scontata e a tratti stucchevole operazione di marketing. L’impressione è infatti quella di un Timberlake all’affanosa ricerca di una nuova “confezione” più matura e appetibile per un artista che voglia scrollarsi di dosso la precedente immagine di bravo ragazzo, poi divenuto cattivello, adesso adulto. E chi poteva dargliela se non proprio Tom Ford, fautore di quell’eleganza studiata e impeccabile, vagamente retro, fatta di uno stile ricercato e minuzioso? Senza considerare poi la necessità per lo stesso Ford di un’occasione di riscatto, dopo il parziale flop delle sue ultime collezioni che, assenti per volere dello stilista dai calendari di sfilate nel tentativo di circondarle di un alone di mistero ed esclusività, hanno finito semplicemente con l’essere un po’ snobbate dalla stampa. Insomma, se l’opportunità sembrava ghiotta per tutti, il risultato, ahimé, suona artificioso e deboluccio. Già lo stesso titolo del singolo, Suit & Tie, completo e cravatta, insiste sui codici di un abbigliamento classico e formale, non a caso ribaditi dalla continua presenza di tutti i capi di Ford, costantemente inquadrati nel video, come in un lungo, noiosissimo, spot. Il tutto a far da cornice a un pezzo musicale facile, ritmato, forse di futuro successo, ma alla fine decisamente distante da quella raffinatezza così elaborata voluta nel look. Insomma, l’impegno c’è, ma l’eccellenza ancora no: provateci ancora, ragazzi!

Galliano is back!

Dior Megamix – Galliano Tribute HD – YouTube.

C’era una volta un genio e forse c’è ancora. Uno di quelli che segnano, nel bene e nel male, il proprio tempo, uno nel cui sangue si mescolano la benedizione di un talento smisurato e la condanna a una fragilità autodistruttiva che impedisce a volte di gestirlo. Spregiudicato, immaginifico e teatrale, con un senso innato della couture e una spettacolare vocazione per gli eccessi sulle passerelle come nella vita privata, John Galliano, stilista inglese nato a Gibilterra da genitori spagnoli, primo designer britannico asceso alla direzione creativa di una maison francese, da Givenchy prima nel 1995 e l’anno seguente da Dior, riesce qui nel difficile compito di raccogliere la pesante eredità lasciata dal suo predecessore Gianfranco Ferrè e di imporre, al contrario, una propria visione dell’alta moda sontuosa, ricercata e irriverente al tempo stesso (video allegato). Coronando, collezione dopo collezione, successo dopo successo, il proprio straordinario percorso, interrottosi bruscamente nel 2011 dopo la pubblicazione di un video-scandalo in cui lo stilista, in uno stato visibilmente alterato, forse in preda all’alcol, insulta con gravi frasi antisemite una coppia di avventori in un locale parigino. Ne conseguono la cacciata immediata da Dior, la condanna giuridica delle sue azioni, gli anni bui di lontananza dalla moda trascorsi in un centro di riabilitazione per disintossicarsi dalla pericolosità delle sue dipendenze che gli sono costate reputazione e lavoro. Fino a qualche settimana fa, quando si fanno sempre più insistenti le voci riguardo a un suo possibile incarico per la realizzazione di una capsule – collection per il brand di moda low-cost Zara (poi smentite), e la notizia, comparsa sul quotidiano statunitense WWD ( http://www.wwd.com/fashion-news/designer-luxury/oscar-de-la-renta-opens-up-studio-to-john-galliano-6630000?module=hp-topstories ) confermata e rimbalzata in questi giorni da un giornale all’altro, di una sua permanenza nell’atelier dello stilista americano Oscar de la Renta, con cui avrebbe collaborato per la sua prossima collezione autunno/inverno. Un ritorno che si preannuncia atteso, quindi, quello di Galliano; il che non equivale certo a una possibile comprensione o giustificazione del peso e dell’assurdità dei suoi commenti razzisti espressi in passato.  Ma che risulta ben gradito a chi ne ammira da sempre le qualità ed è al contrario infastidito da una stampa troppo incline a sbattere il mostro in prima pagina, senza alcun riguardo per la dignità della persona che si cela al di là del personaggio. Perchè, qualunque sia l’errore, il puro talento merita sempre una seconda possibilità.