Questioni di cover

Sia chiaro, a me Beyoncé piace da matti. E piace già da tempo, molto prima che fosse conosciuta solo come Beyoncé, esattamente da quando era solo “quella bella delle Destiny’s Child, ma un po’ forte di gamba” per distinguerla da “quella più bella di fisico, ma con la faccia lunga (Kelly Rowland)” o dalle altre due, poi ridotte a una, “più bruttina e insignificante (Michelle Williams)”. Il resto è storia: lo scioglimento del gruppo (però amichevole, così, ogni tanto, una reunion per arrotondare possiamo sempre improvvisarla), la pubblicazione nel 2003 del primo album da solista Dangerously in Love, la scalata alle classifiche internazionali, le copertine sui magazine (un po’ smagrita grazie a photoshop), la pubblicità per qualche casa cosmetica (un po’ sbiancata, il fotoritocco è ormai un vizio), la storia d’amore con il rapper multimilionario Jay-Z (il tizio enorme che compare in molti suoi video), lo spot della Pepsi (immancabile), l’inno americano alla Casa Bianca al cospetto di Obama (forse in playback). Poteva a questo punto nel suo curriculum non comparire la colonna sonora del nuovissimo, imminente, kolossal firmato Baz Luhrmann (lo stesso di Romeo + Juliet e Moulin Rouge) The Great Gatsby, con l’immutabile Leonardo di Caprio dalla chioma impomatata? Ovviamente no. E difatti eccola qui, trasmessa qualche giorno fa, per la prima volta, in anteprima mondiale, dal network a stelle e strisce East Village Radio (http://www.youtube.com/watch?v=jxQWckbhVTU). Già, dimenticavo: la canzone, come avrete sicuramente intuito, non è un brano originale scritto appositamente per la pellicola, ma la cover di un pezzo piuttosto noto, Back to black, composto pochi anni or sono dalla compianta Amy Winehouse.

E qui cominciano le note (è proprio il caso di dirlo) dolenti. Perché non soltanto i fan della cantante britannica, scomparsa a soli 27 anni nel Luglio del 2011, non hanno gradito più di tanto l’omaggio in musica, forse precoce, siglato Beyoncé. Ma anche perché il nuovo brano, un singolare duetto con il rapper Andrè 3000 degli Outkast, si allontana fin troppo dal magnetismo della versione originale, così stravolta nella struttura da esserne quasi snaturata, tanto che vien voglia di rimpiangerla. Risulta infatti assente quell’intensità d’interpretazione che non conosceva uguali, quella forza disperata che possiede nella voce solo chi sa cantare come se fosse sempre, come lo era Amy, sull’orlo di un precipizio. Nella cover, invece, la melodia, il ritmo, i passaggi di registro assumono tutta la superficialità di un aspetto non tanto nuovo quanto tirato frettolosamente a lucido. Tutto è edulcorato, inaspettatamente nitido, levigato: non c’è spessore, ma soltanto la piacevole freddezza della più perfetta banalità. La coincidenza che trovo buffa, è che a questo primo, criticatissimo pasticcio, che accompagna l’attesa uscita del nuovo film, se ne aggiunge anche un altro, riguardante, paradossalmente, un’altra “cover”. E cioè la copertina del romanzo di Francis Scott Fitzgerald, da cui la pellicola è stata notoriamente tratta, rieditato, per l’occasione, in una nuova veste: proprio con il bel faccino di Di Caprio campeggiante sotto il titolo (http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2013/04/26/news/grande_gatsby_copertine-57515249/). Una soluzione che ha fatto inorridire, gridare allo scandalo, scomodare parole grosse come insulto o sacrilegio: ma che, come la canzone citata, non fa che accrescere ulteriormente la curiosità nei confronti del lungometraggio. Speriamo che almeno ne valga la pena.

Nostalgia canaglia

Eurythmics – I Saved The World Today – YouTube.

Scommetto che è capitato anche a voi. Di essere rimasti improvvisamente colpiti, a un certo punto della vita, senza per forza una ragione necessaria, da una canzone, magari non proprio in linea con i vostri soliti gusti, ma non per questo meno attraente alle vostre orecchie. Di averla poi cercata, appigliandovi agli scarsi indizi che avevate (due parole che ricordavate del ritornello, la voce del cantante forse già sentita), finalmente individuata e ascoltata di nuovo, e poi ancora riascoltata all’infinito, amata a tal punto da sembrarvi in quel momento così irrinunciabile che non uscivate di casa al mattino senza la certezza di poterla risentire almeno un numero tot di volte di seguito nelle cuffie. E nonostante la crescente familiarità con le parole e la melodia, che in poco tempo recitavate a memoria meglio di tutte le poesie imparate faticosamente a scuola, arrivare, chissà poi come, a dimenticarla del tutto, per accantonarla a lungo in un angolino remoto della testa. Fino a che, un giorno, per caso, ne riassapori di nuovo il piacere dell’ascolto, scoprendo a poco a poco che quel motivo non è poi svanito dalla tua mente come pensavi, anzi, ti si ripresentano di nuovo nitidi, non solo il ritmo e il testo di quel brano che non cantavi da anni, ma perfino tutti i ricordi ad esso legati. Proprio come oggi, quando, per ben due volte, la radio, col volume sempre sintonizzato, a causa delle mie numerose manie e fissazioni, su un numero pari compreso tra 8 e 12 (mai 9 o 11), passa questo splendido brano degli Eurythmics I saved the world today datato 1998 (video allegato) lo stesso che mi ha tenuto compagnia per un intero, gelido, inverno. Il motivo della sua assidua (e poco fantasiosa) presenza sulle emittenti è in realtà l’odierna ricorrenza della Giornata della terra, (http://www.vogue.it/people-are-talking-about/l-ossessione-del-giorno/2013/04/giornata-della-terra-2013) evento nato 43 anni fa e tradizionalmente dedicato, in tutto il mondo, alla sensibilizzazione per la salvaguardia ambientale. Ma come spesso succede su questo blog, la sfera personale e la dimensione nostalgica hanno avuto di gran lunga la meglio sulla necessità di un post al riguardo.

Lasciatemi cantare

BLEBLA – PRATO – YouTube.

C’è chi arriva dalla lontana Corea del Sud, e in poco tempo, grazie a un ritornello orecchiabile, divenuto subito tormentone, e a una coreografia simile a un buffo rodeo, accessibile per fortuna anche a chi è totalmente digiuno di danza, diventa un star planetaria. Un motivetto facile facile, cliccato da circa un miliardo e mezzo di persone su YouTube, cioè un quarto dell’intera popolazione mondiale: questo solo per dare un’idea dell’enormità del successo riscosso da Psy, discutibile nome d’arte (non sarà un’abbreviazione di Psycho?) scelto dal cantante 35enne Park Jae-sang, l’ormai celeberrimo e onnipresente (dalla Casa Bianca alla tappa newyorkese del tour di Madonna) interprete del ballatissimo Gangnam Style. Il quale, forse per non essere accantonato come l’ennesima meteora transitata sulla scena musicale, o forse per regalare nuovi momenti di leggerezza al proprio paese, minacciato dalle aspirazioni guerrafondaie del giovane e paffuto dittatorello nordcoreano Kim Jong-un, ci riprova lanciando proprio oggi il suo nuovo singolo, dall’autocelebrativo titolo di Gentleman (http://www.corriere.it/tecnologia/cyber-cultura/13_aprile_12/psy-gangnam-gentleman-tormentone_27205f92-a358-11e2-a571-cfaeac9fffd0.shtml). In attesa di verificare se Psy riuscirà nella difficile impresa di bissare l’impressionante record di ascolti, e la relativa scalata alle più ambite classifiche internazionali, raggiunti con il precedente brano, per adesso ci basti constatare la sua (o della sua etichetta) accresciuta astuzia in materia di marketing. Se infatti il Gangnam Style si è trasformato in un imponente fenomeno musicale quasi suo malgrado, perchè propagatosi in maniera capillare solo grazie alla rete e ai social network, senza il bisogno quindi di campagne pubblicitarie massicce o invasive, per il lancio del nuovo pezzo l’artista ha scelto invece la strada dell’ambiguità e della provocazione. Pare infatti che la canzone dovesse originariamente intitolarsi Assarabia, parola che in sudcoreano corrisponde press’a poco alla nostra “pelle d’oca”: ma la stessa espressione, in inglese, suona invece come l’equivoco accostamento di “ass” (fondoschiena, sennò poi dite che scrivo troppe parolacce) e Arabia. Ma Psy, già vivi con le armi nucleari puntate sulla testa dal tuo poco pacifico vicino, non ti basta? Che bisogno hai di andare pure a stuzzicare qualche permaloso integralista islamico?

Ma non servono poi grandissimi numeri per diventare un piccolo caso. Perché c’è anche chi, più modestamente, ma con altrettanto, efficace e tagliente umorismo, riesce a farsi notare mettendo in rima la propria vita sullo sfondo di una ricca cittadina di provincia. Proprio come è successo a Blebla, al secolo Marco Lena, rapper toscano dal faccione simpatico e dal ritmo coinvolgente, che, senza raggiungere le cifre da cardiopalma del collega sudcoreano, è riuscito però a piazzare il video della sua hit Prato (video allegato) tra i più visti in Italia su YouTube, sfiorando, in pochi mesi, la rispettabile quota di quasi 500.000 visualizzazioni. Merito di una graffiante ironia che si snoda attraverso i 4 minuti del brano, un originale ed esilarante condensato di tutti i più noti motti, i luoghi comuni e i tratti linguistici propri del centro toscano, un viaggio inusuale tra la storia, i vizi e le virtù dei suoi concittadini, apprezzato ed apprezzabile perché fedele, scanzonato, intelligente. Come il video, che, con uno stile immediato e brioso, resituisce alla perfezione una moderna cartolina della stessa città di Prato, grazie alla “comparsa” di edifici e luoghi simbolo come il Duomo e piazza Mercatale, il Castello e il museo Pecci, ma anche all’acuto spirito di osservazione retrostante la superficialità del pezzo. Viene così ugualmente esaltata e sbeffeggiata la sua fama di più estesa chinatown nazionale (irresistibile il passaggio con il ragazzo dai lineamenti asiatici), il suo glorioso passato di importante centro tessile e industriale, e ancora l’esistenza di vie dedicate ai suoi personaggi illustri. Un piccolo e beffardo capolavoro dunque, che rimbalzato poi di social in social, è diventato, per merito di un fitto passaparola (a proposito, grazie a Silvia per l’ennesima segnalazione) un po’ il nostro, più intimo, Gangnam style. Un tormentone in salsa toscana, insomma. O se preferite, di soia.

Nessun dorma

Sinéad O’Connor – Nothing Compares 2U – YouTube.

“Vado ad abbandonarmi tra le braccia di Orfeo” mi disse una volta il mio coinquilino pantofolaio e un tantinello bisbetico, con cui dividevo, insieme ad altri due (per fortuna) più simpatici ragazzi provenienti da ogni punto cardinale d’Italia, il primo, poco (e male) arredato eppure disordinatissimo appartamento affittato ai tempi dell’Università. “Ehm, forse dovresti aggiungere una M” provai a rispondergli, non tanto per rivendicare quell’unica occasione nella vita in cui mi tornarono utili i miei studi classici, quanto per ribadire che, se proprio vuoi lanciarti in una citazione pseudocolta, per conoscere la quale basterebbe riempire due cruciverba in più all’anno, almeno fai il tentativo di riportarla in maniera corretta. “Hai ragione, scusami. Vado ad abbandonarmi tra le braccia di Orfeum” fu la sua spiazzante risposta, con cui riuscì ad ammutolirmi all’istante oltre a rendermi chiaro quanto anche il latino, forse più della mitologia, fosse il suo vero tallone d’Achille (tanto per rimanere in tema). Morfeo (con la M, mi raccomando) era dunque, secondo la tradizione letteraria greca, il dio del sonno, dalla natura così sfuggente e misteriosa da poter assumere, nelle sue epifanie notturne, le più diverse sembianze di cose e persone, le stesse cioè che potevano abitare i sogni degli umani. Figura che mi è sempre sembrata affascinante, soprattutto per l’attribuzione di quella capacità di metamorfosi con cui nei secoli passati quei gran furboni di scrittori avevano trovato un’ottima scorciatoia per spiegare ciò che per lungo tempo, e forse ancora oggi, rimane in parte insondabile: il sonno e i suoi meccanismi.

Perché non è soltanto la sfera onirica che continua ad essere indagata e analizzata dal punto di vista scientifico, ma anche la finalità di fasi del nostro riposo, come dimostra, proprio poche ore fa, la notizia della pubblicazione di uno studio, tutto italiano, che spiegherebbe il funzionamento delle onde lente prodotte dal cervello durante i momenti in cui, vinti dalla stanchezza, ronfiamo come ghiri in letargo (http://www.ansa.it/saluteebenessere/notizie/rubriche/medicina/2013/04/03/Identificati-neuroni-interruttori-sonno_8495778.html) attivando così una serie di neuroni che risiedono nella parte più profonda della nostra corteccia cerebrale. E non avete idea di quanta fatica mi costi in questo momento scrivere un post proprio sul sonno, quando, ancora scombussolato dall’arrivo della nuova stagione, dell’ora legale, di un’improvvisa concentrazione di lavoro che mi gratifica l’ego ma riduce notevolmente il tempo che trascorrerei invece volentieri con la testa affondata nel cuscino, tento di combattere il mio torpore pur di rimanere davanti allo schermo ad aggiornare questo blog per rispetto all’impegno ormai preso e a quelle due persone che oggi hanno notato l’assenza di un nuovo racconto. Come se non bastasse, incuriosito anche dalla notizia del nuovo tour italiano, appena cominciato, della controversa cantante irlandese Sinead O’Connor, (http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2013/03/28/news/concerti_29-marzo-55529470/?ref=HRESS-42) perché memore di Nothing compares 2 U (video allegato) come una delle più magnetiche e intense dichiarazioni d’amore in musica di tutti i tempi, sono andato a ricercarmi e ad ascoltare invece i suoi brani recenti, sicuramente interessanti, ma che hanno dato però il definitivo colpo di grazia alla mia già compromessa lucidità. Ok, vado a dormire. Anche perché la notte porterà consiglio, per il prossimo post.

Sorry

Mina – Sì l’amore – YouTube.

Avrei un sacco di ottime scuse. Potrei ad esempio ricorrere, come le vecchie giustificazioni che firmavo a scuola, a volte anche rubandole dai libretti dei miei compagni (le mie finivano sempre così in fretta) ai classici “motivi di salute” o “familiari”, formule che poi comprendevano un po’ tutto, dal vero/ma più spesso finto mal di testa/denti/pancia al “mi è morto il pesce rosso e mamma ha tanto insistito perché gli facessimo un degno funerale!”. Potrei parlarvi di impegni improvvisi, catastrofi inevitabili, rapimenti alieni, e giù con tutto un repertorio di avventure incredibili che mi avrebbero impedito, cosa che ero riuscito a fare finora con una puntualità di cui sono il primo a stupirmi, di aggiornare a dovere questo blog (colgo l’occasione anche per ringraziare quanti oggi, più o meno carinamente, hanno lamentato l’assenza del post del lunedì). Dicevo, potrei, ma non voglio: ho già avuto un inizio di settimana che definire rocambolesco è poco, motivo per cui non mi va di lagnarmi o di perdere altro tempo per scovare poi chissà dove una ragione plausibile per il mio ritardo quotidiano, di cui mi dichiaro profondamente pentito, anzi, potessi allegherei un mio video con tanto di meritata fustigazione, ma non so quanto sarebbe poi gradito al pubblico del web (di sicuro, non a quello che frequenta questo blog). Ciò che forse risulta più grave, nella generale sconclusionatezza di questa giornata, sfuggitami di mano direi dopo solo 15 minuti dalla sveglia, è che stavo per dimenticarmi di una ricorrenza che invece ogni anno mi fermo a celebrare con il giusto e doveroso coinvoglimento: il compleanno della mitica Mina (il 73esimo per la precisione. Auguri). A questo punto diventa obbligatorio, nel post (ritardatario) di oggi, oltre a rinnovare le mie scuse, pubblicare un suo splendido brano, tra i miei preferiti, lo stesso che proprio l’altra sera a cena tentavo di spiegare a una mia conoscente, che replicava “Il titolo non mi dice niente, come fanno le parole poi?”. “Quali parole?”.