State buoni se potete

▶ The Voice IT | Serie 2 | Blind 2 | Suor Cristina Scuccia – #TEAMJ-AX – YouTube.

Ecco, adesso mi trovo in difficoltà perfino nello scegliere le prime parole. Perché, per una qualche bizzarra manovra della mia testa, in tutti i verbi che al momento mi affollano la mente e che sarebbero forse perfetti per cominciare questo post (scartati nell’ordine “confesso”, “credo”, “prego”) mi pare di cogliere un qualche “doppio senso” religioso del tutto involontario, che finirebbe per caricare queste poche righe di un significato più blsafemo o irriverente di quanto in realtà ci sia nelle mie intenzioni. Così come vorrei evitare di trasformare la seguente, profondissima (no, eh?) riflessione, scaturita dalla risonanza planetaria che l’esibizione e il relativo successo riscosso da Suor Cristina al talent canoro di Raidue The Voice of Italy (video allegato), nell’ennesimo, balordo o insensato racconto sulla mia vita. Il fatto però è che i termini “suora” e “canto” nella stessa frase, mi risvegliano tutta una serie di ricordi, quasi traumatici, legati alla mia infanzia di bambino scontroso e taciturno spedito a tre anni, con il grembiulino nuovo fiammante e un voluminoso panierino per il pranzo, al vicino asilo gestito appunto da tre (apparentemente bonarie) ecclesiastiche. In cui sono rimasto, prima di attuare la prima, avventurosa e indimenticabile, fuga della mia esistenza, solo pochi giorni: spaventato da quelle che vedevo come donnone enormi ricoperte da un’inspiegabile sorta di mantello nero, che mi costringevano a imparare canzoncine insulse da ripetere in (forzata) allegria, a giocare rigorosamente solo con i maschietti (“ma io voglio andare sul trenino con mia sorella” “ma lei è una femmina, e deve stare con le sue amichette, capisci?” “no. a casa stiamo sempre insieme”), a prendere l’abitudine di un sano riposino pomeridiano (“ma io non ho sonno” “ma ora devi dormire” “e perché?”) non ho retto. Intollerante (già da allora) a quelle che ritenevo imposizioni ingiustificate, ne approfittai del cancello lasciato aperto da mia nonna che mi aveva accompagnato quella mattina, per scappare in tutta fretta e inseguirla di soppiatto, a pochi passi di distanza, facendo così ritorno a casa, tra la preoccupazione generale, soprattutto quella di mia madre, che da quel momento mi avrebbe più o meno sorvegliato a vista per i seguenti tre decenni. Sicché, l’eventuale cattiveria di fondo o la sottile perfidia che con tutta probabilità troverete nelle prossime parole potete tranquillamente ascriverla (ma solo in parte) a una recondita ed esplicita insofferenza verso la figura della suora in genere, che affonda le sue radici nel mio pseudo-ribelle vissuto. Il fatto è che quest’enorme e melensa ondata di buonismo, che ha impregnato ogni santo (santo lo posso scrivere?) articolo o i milioni di servizi del tg visti in tutto il mondo, relativi alla ormai celeberrima apparizione televisiva di Suor Cristina, mi ha, sinceramente, un po’ stufato. Pur riconoscendo infatti la sua indiscutibile bravura, il suo possedere evidenti ed eccezionali doti canore, il suo riuscire a mantenere un’intonazione perfetta grazie a un timbro vocale cristallino, mi domando se, senza quell’abito che ha destato in primis lo stupore dei giudici della gara (Noemi, J-Ax, Carrà e Pelù) e poi del pubblico in generale, il suo talento sarebbe stato altrettanto lodato (lodato invece lo posso scrivere?). Perché, alla fine, come già hanno scoperto e insinuato altrove, la giovanissima ecclesiastica, prima di diventar tale, era una ragazza, come tante altre, piuttosto avvezza a calcare diversi palcoscenici, così come a presentarsi ai provini per vari programmi tv, senza che però nessuna trasmissione in precedenza si fosse mai accorta del suo talento tanto da investirci. Tralasciando inoltre che la stessa conversione di Suor Cristina sia avvenuta solo successivamente alla sua frequentazione della Star Rose Academy, la scuola fondata dalle Orsoline e diretta dall’attrice Claudia Koll (adesso, dopo i suoi trascorsi osé, in una fase mistico-spirituale), e alla sua interpretazione di Suor Rosa, la fondatrice dell’ordine, in un musical, l’impressione purtroppo è che le sue ambizioni nel mondo dello spettacolo, vadano di pari passo, se non superino, la forza della sua vocazione stessa. Peccato (peccato, dai, fatemelo scrivere) infine anche per certe sue affermazioni non esattamente condite di umiltà (“mi aspetto una telefonata da Papa Francesco”, per esempio), che suonano un tantinello fuori luogo e non proprio in linea con il basso profilo che richiederebbe invece la scelta della sua “professione”. Il tutto ovviamente con il massimo rispetto per Suor Cristina e naturalmente per tutti i suoi numerosissimi fan: che di sicuro riusciranno a perdonare le crudeli opinioni di un blogger cattivello a cui piace fare, talvolta, l’avvocato del diavolo.

La stagione della felicità

Pharrell Williams – Happy (Official Music Video) – YouTube.

E’ diventata molto di più di una tendenza passeggera, una vera e propria moda, un fenomeno globale o meglio una mania collettiva, quasi più diffusa delle onnipresenti capigliature femminili rasate ai lati della testa o con la frangetta vertiginosamente salita a un terzo della fronte (ok, lo stesso look l’avrà pure adottato Noemi a Sanremo. Ma datemi ascolto: se avete quello stesso taglio di occhi lì, un filino appena discendente, per non dire proprio “da pesce lesso”, evitatelo con cura. Un domani mi ringrazierete). Dicevamo: forse logorati da troppi anni percepiti come eternità, in cui le parole “crisi” “default” “austerity” “ridimensionamento” e “bancarotta” hanno finito inevitabilmente per ricoprire i nostri volti di un tetro grigiore o per aumentare quella schiera di facce cupe e rassegnate che incrociamo ogni giorno, volenti o nolenti, nei nostri spostamenti quotidiani, l’impressione era ormai, fino a poco tempo fa, quella di una generale arrendevolezza a un clima di mestizia impossibile da schivare. Niente di più out, al momento: la strada per la risalita, il reagire con entusiasmo e ottimismo alle ben note difficoltà dell’ultimo periodo, il non lasciarsi sopraffare da macigni e intoppi di varia natura, soprattutto economica, che ci hanno tristemente attanagliato, gettandoci talvolta nella più cupa disperazione, passa ora anche dal mostrarsi, prima di tutto, in pubblico, combattivi, sereni, positivi. Sorridenti e infaticabili. Naturalmente felici. Aggettivo che mai come in quest’inizio di nuova stagione sta conoscendo un suo esplosivo e prepotente ritorno in auge, complice sul piano musicale il nuovo, cantatissimo, tormentone di Pharrell Williams, Happy, (video allegato), che ha scatenato una vera e propria gara all’emulazione, in ogni città del pianeta, in cui sembra non si possa fare a meno di girare una clip amatoriale, da condividere ovunque, con passanti di ogni tipo ripresi a ballare allegramente sulle note dello stesso brano. E poco importa se al contrario dell’autore, che colleziona da tempo una serie di successi in vetta a tutte le classifiche mondiali, duettando con artisti del calibro di Alicia Keys o Robin Thicke (ricordate Blurred lines la scorsa estate?) assicurandosi così una vecchiaia da nababbo e un’invidiabile vita da multimilionario, noialtri comuni mortali trasaliamo invece all’arrivo di ogni nuova bolletta del gas o sudiamo freddo in attesa del conto al ristorante (che, speriamo, paghi qualcun altro dei commensali). Quello che davvero importa è abbracciare l’atteggiamento giusto, apparire come rivitalizzati da un’ipotetica ondata di energia benefica, poter riuscire tranquillamente a fischiettare, agitarsi o perfino a improvvisare un qualsiasi balletto idiota in strada, come se volessimo urlare al mondo “sì, siamo felici di essere ancora vivi” o meglio ancora, di essere, in qualche modo, sopravvissuti. Felicità, dunque, come prima e più efficace risposta al dilagante pessimismo, come voglia di ripartire a tutti i costi, come traguardo concreto che ognuno nella vita può e deve voler raggiungere; a ricordarcelo, nel caso abbiate metaforicamente  smarrito, come in molte vecchie fiabe, la strada di casa, vi sia cioè sfuggito dalle mani il vero fine della nostra esistenza, renderla più confortevole e abbastanza speciale per tutto il tempo della sua durata, il ritorno, dopo il successo dell’anno scorso (menzionato anche su questo blog: http://www.tempiguasti.it/?p=589) della Giornata Mondiale della Felicità. Stabilita e promossa dall’Onu, e guarda caso quasi coincidente con l’inizio ufficiale della stagione di gioia per antonomasia, la primavera, la curiosa e benaugurante festività conta, tra le varie iniziative in programma ai quattro angoli del mondo, anche proposte piuttosto aggiornate in materia di mode da social network, come la diffusissima e narcisistica pratica del selfie (l’autoscatto da condividere http://seigradi.corriere.it/2014/03/19/un-selfie-per-essere-piu-felici/). Quello da postare oggi deve naturalmente essere, al di là del comune “effetto Cyrano” (il naso allungato a dismisura)  e delle sfocature presenti nel 90% dei casi, di una vitalità contagiosa, luminoso, gioviale: che importa, se la vostra presunta giornata dedicata all’allegria sia, come la mia, appena cominciata con la scoraggiante telefonata del meccanico di fiducia che vi elenca tutti i danni della vostra auto (“sarebbero le pasticche dei freni, in realtà andrebbero riviste pompa e frizione, sostituite almeno due ruote e..” “si fermi alle pasticche, prima che debba prendere io quelle per l’ansia”). Che importa se, come cantava Loretta Goggi in una canzone che ogni primo giorno di primavera viene riesumata per poi ricadere nell’oblìo già dal 22 Marzo, vi basta un’ora per innamorarvi e invece che affannarvi a maledire il vostro cuore ramingo preferite prendervela con l’ignara stagione. La felicità che ci meritiamo ha anch’essa il suo prezzo. Almeno quello però, dovremmo averlo già pagato.

Mi è sembrato di sentire un rumore

2013-01-14 15.01.431

Le persone che, come me, vantano un rapporto privilegiato con il mare, perchè nate in una località, come la mia, in cui ogni minima variazione di colore o di stato di agitazione di quella sconfinata superficie d’acqua all’orizzonte influisce inevitabilmente sull’umore della gente o sui ritmi delle loro giornate, o perchè discese da una famiglia, come la mia, per cui solcare le onde rappresenta da generazioni la principale risorsa di lavoro (tradizione che mi sono guardato bene dal voler seguire) si riconoscono da due fondamentali e universali caratteristiche. La prima è una sorta di reazione inconsapevole, un atteggiamento così inevitabile, radicato, invisibile soltanto a chi, cresciuto in campagna come in città, ha disposto di ben altri scenari come sfondo per la propria esistenza, che consiste nell’ostinarsi a ricercare con gli occhi, di fronte ad un qualsiasi e diverso panorama, seppur altrettanto mozzafiato – profili sinuosi di colline, agglomerati di edifici, montagne innevate – sempre ed esclusivamente il mare. Anche se in maniera razionale sai bene che lì, a 3500 metri di quota dove magari stai trascorrendo la tua settimana bianca o nel punto più alto di quella città che stai visitando, sparsa su chilometri di quartieri che si distendono concatenati a perdita d’occhio, la vista del mare equivarrebbe ad un miraggio o ad una preoccupante allucinazione, ogni altro paesaggio continua ad apparirti comunque soffocante, claustrofobico, addirittura incompleto senza la tua visione abituale di una rassicurante distesa d’acqua salata. L’altra prerogativa che contraddistingue chi è cresciuto giocando a tirare i sassi dalla riva o tentando, con incoscienza, il primo bagno della stagione a Pasquetta, riguarda quella famosa storia dell’avvicinare una conchiglia all’orecchio per riuscire a distinguere il rumore stesso del mare: ecco, chi continua a farlo con convinzione, statene pur certi, non è una persona abituata a soffermarsi, anche solo per qualche minuto, ad ascoltarne veramente la voce. Perché quel sibilo muto che può riprodurre da vicino il guscio di qualche mollusco, molto più simile in realtà al fruscìo di un citofono guasto o al verso di un qualche animale notturno in lontananza, non ha nulla a che fare con quel musicale e ipnotico fragore provocato dalle onde spezzate dal vento o che arrivano a infrangersi dolcemente sulla riva. Che poi è la melodia di cui sento ancor oggi una mancanza dolorosa nonostante i miei quasi vent’anni di frenetica vita cittadina, che almeno una volta al mese abbandono senza riserve e senza rimpianti proprio per disporre anche di un solo pomeriggio in cui poter passeggiare in solitudine o sedermi in silenzio di fronte al mare, unici momenti in cui anche un essere superficiale e materialista come me arriva a pensare di possedere forse una sua spirtualità, una sorta di anima da dover coccolare ogni tanto. E per quanto non esista alcuna valida alternativa o surrogato efficace che possano sostituirsi alla piacevolezza e alla necessità di una simile esperienza, mi sento di consigliarvi questa recente scoperta, che non è ovviamente paragonabile all’ascolto in presa diretta del vocìo delle onde o della natura in generale, ma che rispetto al fastidioso rumore dei clacson o al caos assordante su cui si affacciano spesso case e posti di lavoro, può forse essere d’aiuto per recuperare relax e concentrazione. Si tratta di un sito, Noisli (http://www.noisli.com/), nome derivato da noise, rumore in inglese, ma ideazione tutta italiana (la sua mente è un giovane designer di Treviso, Stefano Merlo) che si presenta come un semplice generatore di suoni naturali, da selezionare tra quelli presenti sul menu (“mare”, ma anche “vento”, “foglie”, “ruscello”, etc) e riprodurre come sottofondo musicale da tenere in casa o al lavoro. Nato solo 5 mesi fa ma utilizzato già da oltre 5 milioni di utenti web in tutto il mondo, grazie anche ad una grafica minimal di immediata comprensibilità, Noisli associa i benefici della scelta del suono a quelli della cromoterapia, mutando ciclicamente i toni del proprio sfondo con colori che rilassano la vista; il tutto prevedendo, a breve, anche il lancio di una simile app per smartphone e tablet. Molto più comoda e funzionale, forse solo meno romantica, di una vera conchiglia raccolta in riva al mare.

That’s amore!

▶ Everything But The Girl – Missing (Official) – YouTube.

La verità è che adesso non saprei davvero cosa dire. La verità, forse triste, se vogliamo un tantinello limitativa di certe pregorative, specie per chi si vanta con insistenza, come me, di lavorare con le parole, sistemandole in frasi non sempre di senso compiuto, è che in certi casi mi riscopro del tutto privo di fantasia. La verità è che per quanto stralunato, spesso astruso, talvolta non proprio ancorato a questo mondo, non riesco minimamente a inventare, a scrivere di qualcosa che non conosca, almeno in parte, in prima persona, a tradurre in testi situazioni senza alcun appiglio con la mia banale quanto sorprendente realtà quotidiana. La verità (e poi cambio incipit, lo prometto, perché questo avrebbe stufato anche me) è che avevo già pronto, perché confezionato con scrupoloso anticipo, un post di tono romantico (o quasi) da pubblicare a San Valentino, peraltro concluso in tempi brevissimi rispetto ai miei più che rilassati standard: ma ne era uscito un ritratto così intimo, anche se volutamente ironico, della mia vita di coppia, che in tutta sincerità non me la sono più sentita di affidare alla rete un simile racconto, perché mi è parso d’un tratto molto più importante condividerlo solo in due. Ed è successo che, come non avveniva da tempo, quelle parole intenzionalmente nate per una diversa divulgazione, che avrebbero forse strappato un sorriso a qualcuno di voi, si siano invece trasformate di colpo ai miei occhi in qualcosa di molto più prezioso delle mie inutili velleità di blogger fintosaputello fintosimpatico, assumendo da quel momento le sembianze uniche di un originale e fortunamente apprezzato regalo per la mia dolce metà. Eppure non abbiamo mai avuto negli anni la benché minima tentazione di scambiarci un pensiero o di festeggiare in altro modo il San Valentino: non che ci sia nulla di male nel farlo, sia chiaro, il fatto è che San Valentino è la festa di “tutti” gli innamorati, una data così spersonalizzante, generica, priva di quel gusto esclusivo di qualcosa avvertito come solo e soltanto nostro. Tra qualche giorno invece cadrà il nostro anniversario, il…esimo (e non specifico ulteriormente). Una cifra che in genere suscita negli altri commenti carichi di uno stupore prevedibile, che vanno dal “eh? impossibile!” al “ma siete matti?” e che comincia a fare un po’ impressione anche a me: soprattutto perché non mi sembra affatto trascorso tutto questo tempo.

Sì, certo, se guardo indietro, agli inizi della nostra storia, mi rendo conto che sia passata, per certi aspetti, un’era geologica: all’epoca io andavo in giro acconciato con una coda di cavallo in stile Fiorello prima maniera, mettevo solo camicie sgargianti, alla Formigoni, e in discoteca il brano più ballato era la canzone qui allegata (video) finita, inevitabilmente, per diventare anche la nostra canzone. Abitavamo lontani, e per non far lievitare le rispettive bollette telefoniche ci chiamavamo quasi sempre da cabine pubbliche (location oggi estinta), esaurendo schede su schede, perché la parola “cellulare” si usava solo per definire il furgoncino blindato dei Carabinieri. Oppure ci scrivevamo: né email né sms, naturalmente, ma lettere, centinaia, che conservo ancora oggi in una scatola, tutte maniacalmente divise per data, in cui ci raccontavamo nei dettagli ogni nostra giornata, nascondendo così, tra aneddoti e pessime battute, l’ansia di rivedersi presto. Era forse da allora che non scrivevo qualcosa solo per il mio amore: perché negli anni la crescente complicità, il vivere ormai da tempo sotto lo stesso tetto, il riuscire a capirsi al volo anche solo sgranando gli occhi o storcendo da un lato la bocca ne hanno a poco a poco smorzato la necessità per far spazio ad altre, ed altrettanto importanti, esigenze. Ed ero certo che sarei comunque ritornato a parlare della mia vita privata, perché il punto, alla fine, se vogliamo, è sempre lo stesso: come si fa a descrivere un sentimento universale prescindendo da ciò che si vive sulla propria pelle, come riuscire a dare la giusta voce ad un’emozione collettiva senza prima decifrare ciò che significa per noi stessi? Siamo sicuri che le diverse fasi di una storia, la semplice attrazione degli inizi, le note “farfalle nello stomaco” o i “batticuori” di un primo innamoramento, il crescente senso di responsabilità reciproco di una relazione che si consolida sulla conoscenza, la fiducia, la stima nell’altro, corrispondano alle stesse sensazioni per tutti? Non ho certo una simile presunzione, conosco bene però quello che nella testa e nel petto avverto come amore: quell’inspiegabile mix di accoglienza, serenità, completezza, sorpresa e soddisfazione che provo ancora oggi quando ci svegliamo insieme al mattino, Ed è ciò che auguro anche ad ognuno di voi, di provare, per questo San Valentino.

Quando una stella muore…

Philip Seymour Hoffman winning Best Actor – YouTube.

Con una prevedibilità e un cattivo gusto di natura semi – universale, inclini allo stesso modo a sollevare la più annichilente banalità di reazioni come a legittimare una successiva quanto macabra ossessione per certi inutili e trascurabili dettagli, il repertorio di comportamenti collettivi in caso di prematura, tragica e scioccante scomparsa di un volto noto dello spettacolo – ogni volta più simile, a dire il vero, all’ennesimo, interminabile e noiosissimo déjà – vu – si compone sempre di alcune chiare e specifiche fasi, peraltro ben individuabili. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, è il triste e sfortunato caso di Philip Seymour Hoffman, straordinario attore hollywoodiano trovato morto solo qualche giorno fa nel suo appartamento di New York, drammatica vicenda divenuta anch’essa paradigmatica di un irritante e superfluo atteggiamento generale che si sta trasformando in una pessima consuetudine quando si ha a che fare con certe dinamiche di diffusione e fruizione delle notizie. Perchè, quell’inspiegabile dispiacere che coglie più o meno chiunque di fronte alla morte in giovane età di personaggi celebri, lo sgomento per l’improvvisa e inaspettata scomparsa di un viso che il grande schermo o qualunque altro media ci ha reso familiare, (seppur mai incrociato durante la nostra tranquilla esistenza condotta dall’altra parte del pianeta), sembra che adesso debba necessariamente passare attraverso il conoscere il maggior numero di particolari possibili sulla sua dolorosa fine (meglio se fornendo una cospicua quanto raccapricciante dose di dettagli morbosi). Non vorrei peccare di eccessiva semplificazione o vestire i panni del moralista da quattro soldi che si scaglia contro il mal costume dei “tempi moderni”, quando in realtà si è sempre un po’ indugiato in casi del genere, forse per tentare una maggiore presa sul pubblico, nell’accentuare il “lato oscuro” di simili vicende. L’impressione però è che adesso, da quando cioè la rete ha permesso più o meno a tutti di colmare le proprie lacune pseudoculturali in ogni campo con la rapidità di un clic, chi tradizionalmente detiene il compito di informare sui fatti (leggi stampa e dintorni) tenda a farlo secondo modalità piuttosto deprecabili.

Vado al sodo, servendomi proprio della storia di Hoffman per esemplificare il mio, forse astruso, ragionamento: comincia a circolare la notizia della morte di un attore, il nome però non dice granché, così lungo poi, meglio cercarlo su Google (come si scriverà mai?), ah, eccolo, sbucano anche le immagini, sì, il viso non sembra del tutto nuovo, accidenti in quale film era? forse somiglia perfino a qualche altro attore, ma dove diamine si sarà visto? Nel frattempo migliaia, forse milioni di utenti web, che hanno ripercorso esattamente le stesse azioni, vanno già diffondendo ed annunciando su ogni possibile pagina di ogni possibile social il loro cordoglio, la loro commozione, compreso il solito teatrante che arriva sempre a sostituire la propria immagine del profilo con quella del personaggio appena deceduto (chissà con quale utilità poi). Per carità, fra tutti ci sarà anche chi è stato sinceramente un accanito fan della prima ora, ma insomma, distinguerlo adesso nel mare magnum di esperti di cinematografia che affiora d’un tratto in un paese in genere dedito alle commedie di Vanzina è piuttosto arduo. Quindi se da un lato il tragico fatto rimbalza dappertutto amplificato alla velocità di fulmine, dall’altro tv e testate online si prodigano nel confezionare i propri servizi sul personaggio in questione, nelle teoria delle intenzioni più esaustivi, nella pratica dei fatti ovviamente non limitati a ripercorrerne la carriera (leggibile ovunque, anche sulle pagine dell’80% dei tuoi contatti) ma infarciti di uno scontato e avvilente contorno. In ordine, in coda a quello che in gergo si chiama coccodrillo (l’articoletto strappalacrime post – mortem) si ritrovano così: 1) l’immancabile pezzo sulla “maledizione” di un talento e di una fama difficili da gestire (con annessa digressione su eventuali abusi di droga e alcol 2) la carrellata di volti noti, partendo dalla metà secolo scorso fino all’altro ieri, vittime di un simile destino (per capirci, cominciando da Marilyn Monroe per finire a Whitney Houston) 3) il video a riprova della vita comunque difficile del vip e/o la sfortunata coincidenza con un altro evento altrettanto drammatico. Nello specifico, lo stesso video qui allegato, risalente alla premiazione di Hoffman come miglior attore protagonista nel 2006 per il film Truman Capote, ricomparso su gran parte della stampa di questi giorni per sottolineare la presenza, nella medesima rosa di candidati di allora, di un altro attore prematuramente scomparso, l’australiano Heath Ledger. E’ forse doveroso riproporre perciò le stesse immagini per leggerle da un punto di vista diverso, per un ricordo più rispettoso di tanti particolari affiorati questi giorni sulla vita privata dell’attore e spacciati per tracce di una sua vulnerabile umanità: quello di uno straordinario e singolare interprete, di cui spesso si sbagliava il nome, che conclude commosso il discorso più importante della sua carriera ringraziando semplicemente l’anziana madre.